Inferni salariali, profitti stellari

Se, come accaduto nell’ultimo scorcio del 2007, è il governatore della Banca d’Italia Draghi – uomo del grande capitale economico e finanziario europeo – a dirsi preoccupato sull’andamento dei salari e delle retribuzioni in Italia, significa che si rischia davvero la catastrofe. Con l’inizio dell’anno è in arrivo una nuova raffica di aumenti: dal gas all’energia elettrica, dal carburante ai treni, dal pane a frutta e verdura. Si parla di cifre che superano i 500 euro a nucleo familiare. Nonostante questo, e nonostante le pressioni dei sindacati – per la verità assai in ritardo rispetto alle effettive necessità e deboli nelle modalità -, per il ministro Damiano non c’è fretta, mentre Prodi propone un “patto” – termine che ai lavoratori non porta particolarmente fortuna – tra le forze economiche e sociali per rilanciare l’intero “sistema Italia” (in particolare, salari e produttività). Vale la pena ricordare che il programma dell’Unione, tanto sbandierato a sinistra dai sostenitori dell’accordo ad ogni costo, coniugava risanamento, sviluppo e ridistribuzione dei redditi, rifiutando la politica cosiddetta dei “due tempi”. Il risultato è stato la politica del tempo unico, solamente a favore del risanamento e delle imprese (dalla Finanziaria dello scorso anno al Protocollo sul Welfare) , senza nessuna volontà di intervenire con efficacia e decisione sul fronte dei risarcimenti sociali. Nessuna deroga, insomma, all’impianto neoliberale temperato.

“BAMBOCCIONI” VIRTUALI E DIFFICOLTA’ REALI

Mentre Draghi si soffermava sulla necessità di rivalutare salari e retribuzioni, il Ministro Padoa-Schioppa era impegnato a polemizzare con giovani virtuali “bamboccioni”, colpevoli di non saper risparmiare, di essere scialacquatori di risorse, spendaccioni, amanti degli agi e della vita comoda. Pochi giorni dopo, l’IRESCGIL diffondeva il proprio aggiornamento dei dati su salari e produttività in Italia e in Europa, dal titolo significativo “Salari in difficoltà”. Alcuni dati emblematici. A giugno 2007, il rapporto tra debito e reddito per le famiglie ha quasi raggiunto il 49%, una percentuale del 16% in più rispetto a giugno 2001. In ascesa i debiti bancari a lungo termine (particolarmente drammatico è su questo terreno il continuo aumento dei tassi), costanti quelli a breve termine e in discreta crescita i debiti non bancari. Sul versante del potere di acquisto dei nuclei familiari, dato 100 il reddito familiare medio nel 2007, il reddito delle famiglie operaie si traduce in 72 (-3.047 euro per gli impiegati e -2.592 euro per gli operai), mentre per gli imprenditori e liberi professionisti in 201 (+11.984 euro). Costi della modernità e della “politica dei redditi” all’italiana. Sul versante dei salari 2002-2007, un lavoratore con retribuzione media lorda annua pari a 24.890 euro, ha perso nel periodo 2002-2003 – considerando anche la mancata restituzione del fiscal drag – 1.896 euro, mentre nell’anno che sta per concludersi inflazione e retribuzioni (anche grazie ai mancati rinnovi dei contratti) restano sostanzialmente immobili, nonostante una crescita di produttività pari a 1 punto percentuale. E i profitti? Alle stelle, in particolare tra il 2004 e il 2006. Tra il 1995 e il 2006, 1.400 grandi aziende dell’industria hanno visto lievitare i propri profitti fino all’89%, percentuale che scende al 63,5% per tutte le grandi aziende e al 15,5% per tutte le aziende dell’industria, a dimostrazione che procedono anche i processi di concentrazione del capitale. Nello stesso lasso di tempo, i salari sono cresciuti di un modesto 4,8%. Se la variazione media annua delle retribuzioni è stata pari ad un modesto 0,4% per dipendente, la percentuale dei profitti è pari all’8,1% per dipendente. Profitti che non vengono tassati e che nella maggior parte dei casi vengono utilizzati per tentare la sorte in avventure finanziarie piuttosto che investiti nei processi produttivi, determinando così la marginalizzazione progressiva del paese. Oltre 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese, mentre 7,3 raggiungono a malapena i 1.000. Nell’industria italiana, poi, il 66,2% dei lavoratori e ben il 90% delle lavoratrici guadagnano meno di 1.300 euro mensili. Se il salario netto mensile può essere fissato in 1.171 euro, esso scende a 969 (- 13,4%) nel Mezzogiorno d’Italia, a 961 (-17,9%) nel caso di una lavoratrice, a 866 (-26,2%) nel caso di un lavoratore di piccola impresa, a 856 (-26,9%) nel caso di un lavoratore proveniente da paesi al di fuori dell’Unione Europea, a 854 (-27,1%) nel caso di un giovane lavoratore (15-34 anni). Il 22,2% delle lavoratrici guadagna meno di 800 euro mensili (contro il 4,3% degli uomini), il 41,5% tra gli 800 e i 1.000 (contro il 19,6). Questi numeri racchiudono una gigantesca questione di classe, geografica e di genere; nella loro crudezza indicano quella che emerge sempre più come la “funzione storica” – o il ruolo potenziale – dei comunisti occidentali nel nuovo secolo: lo sforzo impari di unire in un progetto rivoluzionario ciò che il capitale tende inesorabilmente e con forza a dividere e frammentare, giocando la carta della guerra tra poveri. Un apprendista tra i 15 e i 24 anni guadagna mediamente 736,85 euro netti al mese; un collaboratore occasionale (15-34 anni) arriva a 768,80; un co.co.co o co.co.pro a 899,04 euro. 1 milione e 678.000 giovani tra i 18 e i 34 anni, pari al 13,7% del totale, sono poveri (la media è del 13,1%). Il reddito medio annuo di una giovane coppia con figli a carico è di 26.540 euro, che nel 32% dei casi scende a meno di 10.000. La percentuale sale al 41,3% per le giovani coppie senza figli. Se si valutano i dati su salari e produttività nell’area euro, il quadro generale si chiarisce ulteriormente. Nel periodo 1998-2006, le retribuzioni in Italia sono state sostanzialmente stabili (dato 100 nel 1998, siamo a 102,6 nel 2006), a fronte di un aumento medio del 10% nell’area euro (5% in Germania e 15 tra Francia e Gran Bretagna). Mentre il tasso medio di produttività italiano (pur essendo, a livello di crescita, l’ultimo in Europa) è assolutamente in linea con quello degli altri paesi dell’area, tanto che “Francia, Germania e Regno Unito – a parità di produttività – hanno distribuito di più” (p. 6, sintesi per la stampa). Il dato non brillante della produttività italiana non sarebbe tanto da attribuire, secondo lo studio, a chi materialmente produce ricchezza, quanto alla dimensione delle aziende e ai mancati investimenti nella ricerca e nelle nuove tecnologie da applicare ai processi produttivi. “L’insieme di questi fattori – prosegue lo studio (id., p. 7) – ha determinato una situazione per cui l’incidenza del costo del lavoro sui costi di produzione è la più bassa in Italia rispetto ai maggiori paesi europei”.

COSA FARE

Lo studio dell’IRES-CGIL contiene diverse proposte praticabili sul “che fare?”, a partire dal principio sacrosanto che “le retribuzioni devono crescere di pari passo con l’inflazione effettiva e con la produttività” (p. 13), senza però intaccare l’impianto dell’attuale sistema contrattuale, ma addirittura rivendicando la piena applicazione dell’accordo del 23 luglio 1993 e l’estensione della contrattazione di secondo livello. Emerge qui una contraddizione netta e stridente: gli accordi del luglio 1993 sono essenzialmente serviti a contenere i salari in vista dell’ingresso dell’Italia nell’UE, grazie soprattutto al meccanismo dell’inflazione programmata come base per il rinnovo dei contratti nazionali e nessun recupero automatico di eventuali scostamenti, con pezzi di salario di fatto appaltati alla contrattazione di secondo livello, che avviene solamente dove le forze sociali riescono ad imporla. Occorrerebbe, al contrario, rilanciare la centralità della contrattazione nazionale come elemento unificante di tutta – e proprio tutta – quella che si configura sempre più come una nuova classe operaia, ridando piena dignità al “lavoro”, invertendo la tendenza alla precarizzazione e flessibilizzazione esasperata e costruendo meccanismi automatici di rivalutazione salariale. Non vi sono molte strade alternative, ma tali risultati difficilmente si otterranno senza una dura e decisa lotta nelle piazze e nei luoghi di lavoro. Senza sconti per nessun governo. Interessante, ma non in alternativa ai nodi strategici relativi a contrattazione e lotta alla precarietà, è l’ipotesi avanzata di un patto fiscale, rafforzando le detrazioni per il lavoro dipendente a partire dal fatto che la base imponibile dell’evasione si aggira intorno ai 200 miliardi di euro (16% del PIL), mentre “per ridurre di circa 100 euro al mese le tasse sul lavoro per 16 milioni di lavoratori dipendenti, servono circa 15-16 miliardi di euro” (p. 13). Le organizzazioni datoriali, con in testa Confindustria, continuano a battere cassa, tentando di contrattare modeste lievitazioni salariali a ulteriori sgravi e vantaggi. L’appetito, evidentemente, viene mangiando e la concertazione aiuta. I sindacati confederali sembrano concentrarsi solamente su quest’ultimo aspetto, senza dubbio importante ma del tutto insufficiente, dopo aver sottoscritto uno sciagurato “Protocollo su Previdenza, Lavoro e Competitività per l’equità e la crescita sostenibili” che non prevede alcun elemento di controtendenza rispetto alla legge 30 che precarizza selvaggiamente il mondo del lavoro e concede alle aziende la decontribuzione delle ore straordinarie e diverse agevolazioni ulteriori (dopo il “cuneo fiscale”) nella parte relativa alla competitività. Una politica miope e di basso profilo, che non affronta alla radice quegli elementi che in questi anni hanno ridotto il lavoro di fatto a variabile dipendente del mercato e del capitale.