Indipendenza, ricostruzione, sviluppo: la via vietnemita

Venticinque anni or sono, il 30 aprile 1975, l’ambasciatore americano a Saigon ammaianava la bandiera a stelle a strisce, se la arrotolava sotto il braccio e scappava all’aeroporto per rifugiarsi a casa sua, negli Stati Uniti. In quello stesso momento le forze partigiane del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam entravano vittoriose a Saigon che, da quel giorno, si sarebbe chiamata Città Ho Chi-Min. Era terminata una delle guerre più efferate, più sanguinose, più devastanti dell’epoca moderna. Ma per il Vietnam dire che la guerra era finita significa mistificare la realtà. Non sarebbero più cadute le bombe, ma avrebbero continuato ad esplodere quelle disseminate a centinaia di migliaia sulle strade, sui sentieri, nei campi. Non sarebbe più sceso dal cielo il fiume di napalm, ma le ferite del napalm avrebbero continuato a segnare la gente ustionata, il territorio bruciato, la giungla defogliata. Non è possibile parlare del Vietnam di oggi se si fa finta di dimenticare gli anni di atrocità ai quali è stato costretto, prima dal vecchio colonialismo francese e poi dalla selvaggia aggressione americana. L’intervento statunitense in alcune, poche e scarne cifre: nel luglio del 1965 i soldati Usa nel Vietnam del Sud ammontavano a 125.000 ma nel dicembre 1968 erano circa 600.000 senza contare 65.000 fra australiani, coreani e thailandesi. A queste forze si aggiungevano il milione di soldati arruolati dal governo fantoccio di Saigon, addestrati ed armati dagli americani.

Tremilacinquecento elicotteri da combattimento, duemila aerei, caccia e cacciabombardieri. La strategia americana era semplice: distruggere il Vietnam del Nord e tutte quelle zone del Sud dove operavano i partigiani. Nella loro furia devastatrice gli americani non conobbero limiti; nel complesso sganciarono, durante gli anni del conflitto, oltre un milione di tonnellate di bombe, una quantità pari a tutte le bombe che esplosero su tutti i fronti nel corso degli anni della seconda guerra mondiale. Ma il popolo vietnamita, guidato dal Partito comunista e da grandissimi dirigenti come Ho Chi-Min e Nguyen Giap vinse e costrinse alla resa ed alla fuga il feroce aggressore, quello che aveva cercato di convincerci che stava combattendo in Vietnam per la libertà e la democrazia. In tutto il mondo, in quegli anni, si era manifestato a sostegno dell’eroica lotta del popolo vietnamita e contro l’imperialismo, contro la guerra, contro l’aggressione fascista del governo americano. È passato un quarto di secolo ed il Vietnam, vittorioso ma semidistrutto, si è rimesso in piedi con scarsi aiuti esterni, forte soltanto della tenacia e dello spirito di sacrificio della propria gente. Nessuna scossa ha subito il Paese (un Paese che conta oggi circa 78 milioni di abitanti su una superficie poco più estesa di quella dell’Italia) dal tracollo sovietico e dei Paesi dell’Europa dell’Est. Più simile – anche se con notevoli differenze – all’esperienza cinese, il Vietnam ha imboccato una sua particolare transizione che prevede, con la ferma permanenza al potere del Partito comunista, una linea di sviluppo economico ampiamente diversificata. In tale linea trova largo margine di operatività l’iniziativa privata e soprattutto l’investimento straniero.

Come si presenta oggi il Vietnam agli occhi di un investitore asiatico o europeo? A far data dal 1991 ad oggi il tasso di crescita medio è stato superiore all’8% all’anno, ben superiore a quello dei Paesi di recente industrializzazione dell’Asia sudorientale: la crisi che ha duramente colpito le maggiori economie asiatiche, ed anche lo stesso Giappone, ha appena sfiorato il Vietnam, anche se alcune ripercussioni indirette ne hanno frenato leggermente la crescita ed evidenziato alcuni problemi connaturati al sistema economico. Il reddito procapite, aggiustato secondo la parità del potere d’acquisto, è pari a 1.700 dollari all’anno a testa: tuttavia questo dato nasconde il reale livello di vita che è notevolmente superiore a quello concesso dal reddito medio ufficiale. Per esempio a Città Ho-Chi-Min il 92% delle famiglie possiede il televisore, il 71 il videoregistratore, il 78 un motoveicolo. E se si considera che lo scooter più diffuso costa circa 2.700 dollari si intuisce molto bene che l’effettivo livello di vita sia più alto di quanto non possa indicare il dato ufficiale. Il Vietnam che si è aperto agli investimenti stranieri è il secondo esportatore di riso del mondo ed uno dei maggiori esportatori di caffè, gomma, prodotti ittici. È ricco di petrolio, gas naturale, carbone, bauxite, ferro, rame, stagno, cromo, apatite, granito, marmo, silicio, argilla, grafite. L’industria contribuisce alla ricchezza nazionale già con il 30%. La legge sugli investimenti esteri, varata nel 1987, è stata emendata più volte negli anni successivi ed oggi è considerata la più liberale se comparata con le analoghe legislazioni dei Paesi dell’area sudorientale. Sostanzialmente l’investimento estero in Vietnam può avvenire in tre forme: joint venture, business cooperation contract, impresa a capitale interamente non vietnamita. Il sistema joint venture non sembra avere moltre prospettive di sviluppo soprattutto perché – almeno sino ad ora – il partner vietnamita, abituato da sempre ad operare nell’ambito di un sistema pianificato, non appare al partner non-vietnamita sufficientemente duttile. Inoltre il sistema è stato molto sovente difficoltoso a causa delle eccessive aspettative reciproche, delle differenze nel modus operandi e, non ultime, delle profonde diversità culturali. Il sistema business cooperation contract (BCC) non ha una definizione rigida, non crea una entità giuridica ed ha un carattere molto vicino a quello privatistico. Riguarda, in genere, la fornitura di tecnologie, la produzione su commissione, la commercializzazione ed altre forme di collaborazione definite nel contratto. È utilizzato per operazioni specifiche quali le ricerche minerarie e la costruzione di immobili. Attualmente il governo vietnamita è più incline ad autorizzare la costituzione di imprese interamente estere in quasi tutti i settori, tanto che alcune joint ventures, tra le quali la Colgate Palmolive, sono state convertite in BCC.

Ampi spazi sono ulteriormente forniti dall’avvio in tutto il Vietnam di grandi opere infrastrutturali e di sostituzione di tecnologie superate, avvio che il governo ha impostato con grande decisione, determinato, come è, a dotare il Paese di strutture moderne entro il 2010, quando il Vietnam dovrebbe aver raggiungo uno stadio progredito sulla via dell’industrializzazione. Le prime fasi di queste grandi opere sono già avviate ed alle gare di appalto hanno partecipato diverse imprese europee. Inoltre sono evidenti le opportunità offerte dall’indotto, cioè dalla necessità di acquistare o produrre beni e servizi inerenti alle telecomunicazioni e ai trasporti. In modo particolare gli investimenti nelle telecomunicazioni possono essere effettuati solo in forma di BCC; nei settori, invece, del petrolio, del gas naturale, dei minerali rari e preziosi, della costruzione di infrastrutture per servire le zone industriali, per le costruzioni e per i trasporti è esclusa l’impresa completamente estera, così come per la produzione di cemento, ferro e acciaio, per la riforestazione e le piantagioni, la produzione di esplosivi industriali. E sono state studiati anche centinaia di casi specifici: per esempio per quanto riguarda la produzione e la lavorazione del latte, di oli vegetali, di zucchero e di legname il relativo progetto dell’investitore estero può essere approvato solo se contiene una parte relativa allo sviluppo delle fonti di materia prima. Questi particolari stanno ad indicare l’estrema attenzione con la quale il governo vietnamita segue e controlla l’attività imprenditoriale non vietnamita. Questa apertura agli investimenti esteri si basa – da un punto di vista oggettivo – sulla disponibilità di grandi risorse naturali e di una manodopera istruita, sulla presenza di tecnologie obsolete e sulla carenza di capitali. Questo “mix” imponeva al governo vietnamita due strade: o affidare l’industrializzazione e la modernizzazione del paese alle sole risorse interne, materiali ed umane (con la conseguenza di spostare il raggiungimento dell’obiettivo di molti decenni, forse di secoli) o aprire la prspettiva di un ingente intervento del capitale estero. È stata scelta questa seconda alternativa. Con quali garanzie per l’indipendenza e la scvranità del Paese? Una domanda che non ci sentiamo di porre ai rappresentanti di un Paese che è stato l’unico, nella storia, a sconfiggere gli Stati Uniti.