In ricordo del compagno Gianfranco Granieri

Conobbi Gianfranco, circa sette anni fa. Eravamo nel circolo “Lenin” del P.R.C., a Montecalvario, nei “Quartieri Spagnoli” di Napoli. Io ero un dirigente della Federazione napoletana fin dalla costituzione del Partito, lui era un iscritto recente, da anni impegnato nel movimento sindacale extra-confederale, nei Cobas-scuola, in qualità di insegnante. In verità Gianfranco, laureato in Economia, aveva lavorato per quindici anni in banca, assieme ad Oliva, compagna della sua vita e madre dei suoi figli Manuela e Clemente. Questo però allora non lo sapevo né conoscevo la ragione per cui entrambi avevano lasciato quel lavoro ed erano passati all’insegnamento di materie economiche nelle superiori, dimezzando letteralmente il loro reddito. Era stata una scelta di vita, tanto silenziosa e discreta quanto netta e irrevocabile. La decisione di svolgere un’attività, quella didattica, di impatto sociale diretto, più vicina alla loro sensibilità e alle loro idee politiche; ma anche la decisione, e con le stesse motivazioni, di conquistare tempo per la loro vita quotidiana, affettiva e di relazione, a partire dall’educazione dei loro figli.
Tutto ciò, e mi sembra davvero l’essenziale, stava dietro il loro rifiuto di un ambiente di lavoro particolarmente alienato quale quello che avevano conosciuto in banca e contro il quale si erano coraggiosamente battuti, pagando di persona il collaborazionismo sindacale e il clientelismo politico (anche di sinistra), soprattutto dalla seconda metà degli anni ’70.
Il nostro primo incontro mi lasciò una certa irritazione. Nella denuncia dei limiti del Partito, che pure in sostanza condividevo, mi sembrava di cogliere accenti un po’ basisti e un po’ movimentisti, una qualche sottovalutazione della funzione e della dialettica proprie del Partito. Mi sbagliavo: conoscendolo meglio e lavorando con lui nella Commissione scuola mi resi rapidamente conto del fatto che il suo apparente radicalismo era, in realtà, un’esigenza di concretezza, non solo come efficacia, ma come richiesta di senso all’agire politico collettivo. Questo senso per lui aveva una sola fonte autentica: i bisogni emancipativi degli oppressi e la democrazia di massa. Allo stesso tempo compresi che ciò che a me e ad altri era apparso in lui poco politico era, piuttosto, un preciso orientamento di cultura politica: il rifiuto etico e metodologico della mediazione come “prius” inderogabile e, più in generale, d’ogni impostazione compatibilistica nella battaglia politica e istituzionale di classe. Così quel che a volte poteva essere interpretato, nella sua condotta, come una rigidità eccessiva nascondeva e rivelava una ricerca straordinariamente sincera di coerenza tra i fini e i mezzi dell’agire politico. Egli, certo, ben sapeva che tale coerenza non deve essere sublimata in apparente armonia moralistica, ma questo rendeva la sua ricerca più sofferta e stringente. Gianfranco apparteneva alla categoria dei “compagni ingenui”. A volte era davvero disarmante per il modo immediato, diretto, privo di cautele tattiche, di sollevare problemi ed affrontare scontri politici. Detestava il gergo politico e sapeva far emergere dalle sue nebbie la realtà sociale. Lui non disprezzava la tattica, ne comprendeva , anzi, la necessità. Pensava, però, che se la comunicazione politica è dominata dalla tattica, le relazioni umane, all’ interno e all’esterno del Partito, si impoveriscono e che il rapporto dei comunisti con la classe e con la società si paralizza e degenera. Allo stesso modo, aveva attenzione e rispetto verso l’elaborazione teorica, ma era naturalmente immune da ogni ideologismo identitario.
Non deve sembrare strano che un simile compagno abbia, come chi scrive, partecipato alla scissione del P.R.C. de1 1998. La scelta della maggioranza del P.R.C. gli apparve disastrosa per una ragione opposta a quella del compatibilismo cossuttiano che neppure la guerra imperialista in Yugoslavia avrebbe rimosso. Gianfranco pensò, come me e molti altri compagni, che vi fosse nella rottura col governo Prodi un eccesso di rappresentazione soggettiva rispetto ai tempi di una effettiva risposta di classe alla politica del Centro-sinistra..Pensò, come in tanti pensammo, che l’ordine prioritario di problemi del P.R.C. stesse nella debolezza del suo insediamento sociale e della sua organizzazione, nella sua incapacità di essere realmente partito militante di massa. Perciò visse, e vivemmo, la scissione come una comune sconfitta e una necessità dolorosa, forse transitoria. Dopo pochi mesi, la scelta del governo D’Alema di appoggiare la guerra degli USA e della NATO in Yugoslavia ed il penoso cedimento di Cossutta, che in quel governo rimase, non ci lasciarono dubbi: uscimmo dal P.D.C.I. con una ventina di compagni, dopo un duro scontro politico. In quei giorni Gianfranco era risoluto e, nello stesso tempo, addolorato. Non sapevamo che fare, se non quello che stavamo facendo. L’errore della scissione era ormai evidente. Evidente la nostra sottovalutazione del peso che in essa avevano avuto le motivazioni opportunistiche che ora dilagavano, offendendo una intera tradizione politica. In quel momento non percepii mai in Gianfranco anche solo un accenno di assillo auto-rappresentativo, di orgoglio politico ferito. Usciva dal P.D.C.I. con la stessa umiltà con la quale vi era entrato. D’altra parte egli non attribuiva al Partito un ruolo demiurgico e pensò sempre , in ogni fase, che il cuore ed il fulcro della politica stanno nelle lotte sociali e nella vita delle persone, Solo queste, per lui, davano senso al Partito e lo rendevano necessario. Per questo non aveva mai interrotto il suo impegno sociale e sindacale ed una pratica di rapporti con tutti i compagni esemplarmente unitaria.
Ho voluto soffermarmi su questo passaggio della sua e della nostra esistenza, perché forse contribuisce alla comprensione di come tanti compagni vissero la scissione del ’98, soprattutto di come la vissero compagni come Gianfranco Granieri completamente esterni ed estranei, per vocazione e cultura, ad ogni interesse e logica di ceto politico. Soprattutto grazie a persone come lui fu possibile sempre mantenere con tutti i compagni, comunque collocati, non solo rapporti corretti, ma intensi, sul piano politico e morale. Quando, insieme ad altri compagni che avevano condiviso il nostro percorso dall’ottobre ’98 in poi, decidemmo di rientrare nel Partito della rifondazione comunista, ci sentimmo accolti fraternamente, anche da coloro che più aspramente in passato avevano polemizzato con noi. Sentimmo questo tacito rispetto, ci commosse, ci aiutò e, nello stesso tempo, lo considerammo una manifestazione di intelligenza e responsabilità politica. Tutto ciò non esimeva nessuno di noi dal partecipare lealmente alla ricerca e alla lotta politica e ideale che segna il P.R.C. in questo frangente della sua storia. In tal senso ci riconoscemmo tutti nell’impegno di una rivista di partito e di tendenza come “l’Ernesto”. Ma il compagno Gianfranco Granieri ci richiamò sempre, voglio qui testimoniarlo, ad un compito prioritario e rifondativo: quello di costruire il Partito nel rapporto di massa, sui bisogni e i desideri dei proletari e degli oppressi, di costruirlo collettivamente, rispondendo alle sfide dell’analisi e alle urgenze della teoria, ma senza farne un alibi intellettualistico o una gabbia ideologica.
Gianfranco seppe svolgerlo quotidianamente questo compito prioritario e rifondativo che solo dà senso al confronto e allo scontro delle idee e delle proposte dentro il P.R.C., che solo può animare le nostre pratiche e le nostre speranze. Il suo impegno professionale è stato esemplare per la passione civile che vi ha profuso, per la dedizione senza riserve all’insegnamento e alla scuola pubblica, per l’attenzione, carica di affetto e di partecipazione umana, ai problemi scolastici e sociali dei suoi alunni che erano studenti del “ professionale”, poveri Cristi del nostro tempo. Tutto ciò veniva prima del suo impegno sindacale nei Cobas-scuola che, perciò, fu sempre assiduo e rigoroso ma scevro da spirito corporativo ed estremistico. Tutto ciò si collegava, piuttosto, al suo modo di concepire l’attività di Partito.
Al centro di tutto egli metteva la vita e l’iniziativa delle organizzazioni di base, la loro capacità di parlare concretamente ai lavoratori, ai ceti popolari, alle culture democratiche, nominando i problemi, sconvolgendo gli equilibri inerziali a tutti i livelli, anche quando questo significa riconoscere apertamente le inadempienze del Partito e far emergere le contraddizioni della sua direzione politica. Così Gianfranco ha vissuto e così è morto, nel fuoco di una lotta di massa per la difesa del “Vittorio Veneto”, l’istituto professionale per il Commercio e il Turismo che un Assessorato comunale alla Scuola, di sinistra, ha cercato in questi mesi di sopprimere di fatto, trasferendolo a Secondigliano dove non è necessario e privandone quartieri popolari in degrado come Montecalvario, Avvocata, S.Giuseppe Porto.
Alla testa del comitato di lotta Gianfranco ha saputo coinvolgere il Partito territoriale, la Federazione, i nostri rappresentanti istituzionali ed ha saputo porre al centro dell’attenzione cittadina e della stampa, una questione vitale per la nostra credibilità come forza di opposizione: quella di una battaglia che riguarda, inseparabilmente, la difesa dello Stato sociale e della Scuola Pubblica e la difesa diretta degli interessi proletari e popolari. Forse l’incessante lavoro e gli enormi sforzi da lui sostenuti in questi mesi hanno fatto precipitare una patologia cerebrale silente che lo accompagnava a sua insaputa. Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che egli non poteva e non voleva fare altrimenti, che questo è stato il suo modo, tra i più alti e fecondi, di vivere da comunista.