Recentemente, su Liberazione, Giorgio Cremaschi ha scritto un articolo importante e preoccupante al limite della disperazione già fin dal titolo (che probabilmente non è di Cremaschi): Cara Liberazione, questa Italia di oggi è più berlusconiana di Berlusconi… L’articolo andrebbe riprodotto per intero anche perché l’argomento di fondo è costituito dal problema dei migranti e della politica nel loro confronto che coincide con il problema sollevato dal film di Loach. Ma mi limiterò a una citazione da cui prendere lo spunto per questa mia breve riflessione: “Perché questa è la sintesi di tutto: una strategia che voleva dare rappresentanza politica e istituzionale a una alleanza di forze tesa a costruire un’alternativa alla destra berlusconiana e alla sua cultura, è oggi fallita proprio nel suo obiettivo di fondo. Oggi nella politica e nella società le ragioni della destra sono più forti di quando al governo c’era Berlusconi”. Un’analisi cruda (torneremo su questo) e inquietante ma, a mio modo di vedere, assai corretta. Ma forse a questa lettura della società italiana oggi c’è da aggiungere qualcosa che è insieme di parziale consolazione e d’altro canto ancor più disperante. E questo è il distacco che, in qualche misura, c’è sempre stato ma che oggi è diventato un vero e proprio abisso tra l’elaborazione culturale ‘alta’ e la cultura diffusa o ‘antropologica’. Chi per mestiere fa l’insegnante di qualsiasi ordine e grado, dalla scuola elementare all’università, sa quanto sia difficile in questo nostro tempo cercare di rompere la barriera di pesante conformismo da cui sono ottenebrate le menti dei nostri discenti. E’ inutile cercare qui le cause dal momento che l’hanno già fatto in molti e che, almeno in parte, è l’oggetto dell’articolo di Cremaschi. Ma certamente quella divaricazione tra l’elaborazione culturale ‘alta’ e la cultura diffusa di cui ho appena detto è uno dei motivi, e forse il più importante, di questo conformismo. Il problema poi diviene ancora più grave se si tiene conto che tutto ciò non è solamente dovuto alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e dal fatto che siano tutti, in un modo o nell’altro, guidati dallo stesso padrone ma anche dal fatto che gli insegnanti che dovrebbero aprire la mente dei giovani sono spesso anch’essi arresi all’esistente alcuni per ignoranza altri per opportunismo o per le due cose insieme dal momento che l’ignoranza e l’opportunismo sono spesso congiunti poiché tutti e due derivano dalla presunzione. Sulla base di queste veloci considerazioni la situazione, a dirlo schematicamente, si presenta così: nella cultura ‘alta’ notiamo da qualche tempo sintomi anche forti di un’inversione di tendenza confronto alla linea culturale dominante negli anni ottanta e novanta che è tutta all’insegna del pensiero postmoderno mentre nella cultura diffusa sembra che sempre di più si radichi quel modo di pensare che dà vita al conformismo di cui ho detto: per metterla in politica, e sempre seguendo le orme di Cremaschi, è oggi difficile distinguere tra l’ideologia e la prassi del Pd e quelle delle destre. Se questa osservazione è vera allora sarà altrettanto vero notare che una forza autenticamente di si- nistra (come la nostra) dovrebbe cercare di fare da cerniera tra le due culture allo scopo di prendere il meglio di quella ‘alta’ per farla divenire corrente in quella diffusa: è Gramsci, come sempre, che ci insegna la via quando parla di un nuovo conformismo, diverso e opposto a quello delle classi dominanti, che servirebbe alla liberazione dell’uomo. Un simile obiettivo sembra oggi lontanissimo e di qui appunto la disperazione in un futuro diverso e, ovviamente, migliore: basta leggere il supplemento domenicale di “Liberazione”, che è poi l’“organo” del partito in cui militiamo, che sembra voler raccogliere con particolare acribia tutto il peggior pensiero postmoderno. Ma questa disperazione è temperata, appunto, dai segnali positivi che vengono dalla cultura ‘alta’. E per cominciare, e attenendoci al nostro campo e cioè al cinema, ecco che ci accorgiamo che c’è una certa ripresa di quel cinema che, in modo generico, potremmo definire ‘politico’. Sono infatti di questi anni film come Good night and good look (2005) di George Clooney, Dogville (2003) e Il grande capo (2007) di Lars von Trier, L’uomo senza passato (2002) di Kaurismaki e vari documentari tra cui famosissimi quelli di Michael Moore (Bowling a Columbine, 2002, F a renheit 11/9, 2004, e il recentissimo Sicko sulla sanità americana); meno celebre ma molto importante quello su Allende di Patricio Guzmàn del 2005; poco conosciuta in Italia, che anche da questo punto di vista si rivela sempre di più una colonia del periclitante impero americano, ma molto celebre in Francia l’opera di Robert Guédiguian che al durissimo e assai politico La ville est tranquille (2000) ha fatto seguire altri film tra cui, più recente, Passeggiate al Campo di Marte (2005) incentrato sulla figura di Mitterand e sulla interpretazione della sua azione politica; e, infine, l’ultimo di Ken Loach In questo mondo libero per non citarne che alcuni e senza distinguere troppo sottilmente tra opere di impegno sociale e film politici veri e propri. Ma certamente, tra i ricordati, è l’ultimo quello che più chiaramente si può ascrivere al cinema politico. Un film politico è tale se è realistico; quando invece il suo linguaggio risulti a impianto naturalistico diviene, quale che sia il contenuto, intimistico e melodrammatico. Facciamo due celebri esempi che riguardano gli anni cinquanta. Fronte del porto di Kazan (1954) da molta critica è stato letto come un’opera realistica perché girato in un vero porto, con veri portuali, eccetera. Nulla di più falso: a Kazan e a Schulberg, lo sceneggiatore, interessava solamente giustificare il proprio tradimento – in un periodo in cui i traditori erano ancora considerati dei reprobi e in cui non era ancora arrivato Galimberti a dirci che tradendo si rafforza la propria personalità e, per non fare che due esempi, il supplemento di cui ho già detto di “Liberazione” a insegnarci che solo tradendo ci si sente vivi- di fronte alla commissione per le attività antiamericane: il risultato è appunto un film intimistico e melodrammatico. E u ropa 51 ( 1952) di Rossellini, al contrario, è un film teso a dimostrare che il conformismo della nostra società non permette di dare le risposte vere ai problemi dell’esistenza, questione affrontata da Rossana Rossanda nell’articolo che ho citato su questa rivista due numeri fa parlando di Bergman. In questo conformismo sono apparentati la chiesa e i partiti, massime quello comunista. Ingrid Bergman, la protagonista del film, presenta le sue scelte non come intimistiche ma come la ricerca di una soluzione, che è insieme esistenziale e politica, ai problemi oggettivi del lavoro in una società alienata quale è quella italiana di quegli anni (e ancor più di questi) sulla spinta di una lacerante esperienza personale, il suicidio del figlio bambino. Lo sguardo di Rossellini è lucido e duro a dà luogo a uno stile asciutto che tende a presentare le cose come le cose sono senza rinunciare alla finzione propria dell’arte. (Chi voglia approfondire il discorso su questo discusso e così importante film rosselliniano, e su tutti quelli che il regista italiano ha girato con la Bergman, può vedere il bellissimo libro di Elena Dagrada Le varianti trasparenti. I film con Ingrid Bergman di Roberto Rossellini, Milano, LED, 2005, dove si unisce lo scavo filologico alla passione critica con non consueto, per gli studi sul cinema, equilibrio). Infatti il realismo si può ottenere nell’arte grazie a due modi di operare: o attraverso il personaggio ‘tipico’ –che è l’impostazione data da Lukàcs al problema- o attraverso il “dire la cosa come la cosa sta” –e questo è ciò che Pound dice che fa Joyce nell’Ulisse-. E’ probabile che il primo procedimento, che non può che riguardare il romanzo e il teatro e tutte le espressioni a impianto narrativo tra cui il film, porti con sé qualche equivoco, non necessariamente insuperabile, di cui il primo è appunto quello del prendere in considerazione il ‘personaggio’ come struttura portante di qualsiasi opera: nell’Ulisse non ci sono personaggi nel senso vero e proprio così come non ci sono nell’altrettanto pornografico Beckett –è la pornografia che dice le cose come le cose stanno (l’intuizione è di Deleuze)- dal momento che l’arte moderna si oppone a quella naturalistica proprio attraverso l’opposizione al, e alla negazione del, personaggio; anche se, come vedremo, non sempre. In questo senso il film di Rossellini sarà più correttamene realistico di un altra molto importante pellicola coeva e cioè Senso (1954) di Visconti che nel nobilissimo tentativo di costruire un’opera di ispirazione lukàcsiana non riesce però a evitare del tutto le secche del melodramma. Il film di Loach, regista le cui opere non sempre possono essere ascritte al filone realistico, tenta, e a mio modo di vedere riesce, di dire proprio le cose come le cose stanno, attraverso però un personaggio tipico, in una società dove l’alienazione colpisce tutti e non solo quelli che fanno un lavoro alienato. La protagonista, che si occupa di lavoro interinale in Polonia, viene licenziata dall’oggi al domani e decide di continuare lo stesso lavoro con un’amica in Inghilterra e si trova a comportarsi con gli altri come i suoi padroni si sono comportati con lei; ma non senza tentennamenti e squilibri sentimentali dovuti all’educazione che ha ricevuto. In una sola scena compare il padre che mostra le sue idee “di integrità e di onestà. Lui non accetta la giustificazione della figlia ‘lo fanno tutti’” (Loach). Lo scontro con le persone che lei colloca porta anche al rapimento del figlio: tutto ciò la indurisce e il film si chiude con lei, senza più la sua amica, che, questa volta in Ucraina, fa le stesse cose che faceva all’inizio, e cioè porta avanti un colloquio di lavoro con disoccupati, ma questa volta per conto suo anziché per conto di altri. Uno dei punti nodali del film è costituito dal rapporto che lo sceneggiatore, Paul Laverty (la sceneggiatura è stata premiata a Venezia), e il regista istituiscono tra il sentimento della protagonista e il suo agire, una divaricazione piuttosto evidente e che, in qualche modo, volutamente stride. Angie è una donna dura, determinata ma non priva di sentimentalismo: un personaggio problematico e, non per abusare di una solita formula ma proprio perché questa è l’intenzione del regista, dialettico. Infatti Ken Loach a un’intervistatore che gli chiede “Cosa cercavate nel personaggio di Angie?” risponde: “La capacità di essere amabile ma anche spietata. Deve essere dura. Sentimentalismo e spietatezza, due cose che spesso vanno a braccetto”. Il sentimentalismo infatti risulta essere una degenerazione del sentimento che è invece elemento nobilissimo della vita: è proprio il sentimento contro l’ingiustizia la molla che spinge l’uomo alla lotta per un mondo diverso e migliore non solo per sé: la ragione poi, che non deve essere mai disgiunta dal sentimento, vivifica e dà linfa a questa spinta. Il sentimentalismo, al contrario, è frutto di un’attenzione rivolta tutta a se stessi anche quando finge di aprirsi agli altri in modo ambiguamente mieloso. In un’altra intervista, poi, il regista precisa ciò che si è ripromesso nel creare un personaggio con queste caratteristiche: “Se il pubblico riesce ad avvertire che Angie è una persona che fa cose meschine e al contempo capisce che quello che sta facendo non è altro che il cuore della nostra società, forse il pubblico può anche riuscire a sfidare quello che è il nucleo della nostra società”; ovviamente, è corretto aggiungere, attraverso la presa di coscienza favorita dalla critica di ciò che avviene ogni giorno sotto i nostri occhi e che molti non vedono o non vogliono vedere. Ecco qui enunciato il nucleo fondamentale di ciò che dovrebbe essere un film politico: un’operazione artistica che tende a far sì che lo spettatore giunga alla presa di coscienza e non l’esposizione acritica di una situazione fin che si vuole politica ma che, scivolando nel sentimentalismo ed essendo priva di quella necessaria crudeltà che un mondo crudele pretende da un artista realista, porta lo spettatore a suonare il piffero della rivoluzione senza che riesca a rendersi conto perché la rivoluzione è necessaria. Ho accennato alla crudeltà e riprendendo questo termine ci spostiamo ora dal personaggio, che è certamente un personaggio tipico della nostra società, al piano stilistico del film. Infatti è lì che Loach realizza, almeno a mio parere, quel meccanismo peculiare del realismo che prevede di presentare le cose come le cose stanno. Ovviamente la crudeltà non è di per sé un elemento positivo, anzi, poiché il trattare sé e gli altri in modo crudele è semmai un modo di fare negativo soprattutto per chi auspica un’attenzione all’aspetto sociale del mondo. Il fatto è che non esiste nulla di per sé ma esiste solamente il dover operare all’interno di condizioni date; e le condizioni del nostro mondo sono tali da costringere chi vuole contribuire a cambiare le cose nella direzione di una società diversa e più umana, dove l’uomo non sia più un lupo per un altro uomo, a essere spietato e a saper leggere la realtà senza infingimenti di sorta, compreso il sentimentalismo, e colpevoli debolezze. E questa crudeltà, questa mancanza di lenocini con cui guardare la realtà, stilisticamente diventa crudezza: l’occhio di Loach è crudele e il risultato è uno stile filmico crudo, aspro dove il freddo dell’Inghilterra, così ben riflesso nei volti e nei corpi, diviene un freddo dell’animo e mostra una condizione di disagio esistenziale. E’ una triste cosa che in questo mondo libero qualsiasi atto positivo – e quello del raggiungimento di una coscienza critica è il più positivo di tutti- debba passare attraverso il dolore; questa è la vera crudeltà che il momento attuale della lotta di classe ci propina e questo è certamente il motivo che ci spinge a combattere per un mondo diverso con la coscienza che ciò è possibile anche perché questo strazio non è prolungabile all’infinito.