Imperialismo e questione nazionale

1. Due teorie diverse e contrapposte

La fase più tragica della rivoluzione francese è caratterizzata dalla rivolta della Vandea, che – osserva Gramsci – vede protagoniste popolazioni “allogene” e risulta “legata alla questione nazionale” (Gramsci, 1975, p. 2029); è una rivolta che assume connotazioni secessioniste e indipendentiste. Alcuni decenni più tardi, a rivendicare negli Usa l’autodeterminazione sono gli stati del sud schiavista che si ribellano con le armi in pugno contro l’Unione. Veniamo ora al Novecento. Quando nel 1921 nasce la repubblica irlandese, da essa viene esclusa l’Ulster. Lloyd George dichiara: “Il primo assioma è che, qualunque cosa accada, noi non possiamo costringere l’Ulster” (Johnson, 1992, p. 198). Infine nel 1961 l’India di Nehru invade la colonia portoghese di Goa, recuperando e ribadendo l’integrità nazionale e territoriale del grande paese asiatico. In tutte e quattro questi casi, è stata la reazione ad agitare la bandiera dell'”autodeterminazione”. Dobbiamo concludere che il movimento rivoluzionario ignora questo principio? Al contrario: non è possibile prenderlo sul serio senza un’analisi concreta della situazione concreta. Gramsci riconosce quanto di legittimo vi è nella protesta delle popolazioni “allogene” della Vandea, soffocate dalla “politica di accentramento burocratico-militare”, che perdura dall’antico regime; epperò, a quella politica “i giacobini non potevano rinunziare senza suicidarsi”. In quel determinato contesto storico, la concessione, nonché dell’indipendenza, anche solo dell’autonomia alla Vandea avrebbe comportato la vittoria della controrivoluzione, della potente coalizione internazionale impegnata a negare il diritto alla rivoluzione e all’autodeterminazione al popolo francese come a qualsiasi altro popolo. Considerazioni analoghe si possono fare anche per gli altri casi precedentemente citati. Il fatto è che la rivendicazione di un principio non avviene mai in uno spazio vuoto e asettico, ma sempre in un contesto storicamente determinato e caratterizzato da una molteplicità di contraddizioni, con l’emergere, ad esempio, di un conflitto tra contrastanti aspirazioni all’autodeterminazione. Si tratta di cogliere di volta in volta l’aspetto principale. Ciò è tanto più vero per il Novecento. Nel corso di questo secolo si sono affrontate due diverse (o forse contrapposte) teorie e pratiche dell’autodeterminazione. L’una rinvia a Lenin, l’altra a Wilson. Non è tanto importante notare che il presidente Usa si è distinto per i numerosi interventi in America Latina sulla scia della dottrina Monroe. Nella sua Storia del popolo americano, Wilson descrive compiaciuto in che modo gli Usa riescono a smembrare il Messico: dopo aver a poco a poco occupato e colonizzato il Texas, i coloni nordamericani nel 1836 ne proclamano l’indipendenza, “facendo una rivoluzione a partire dal diritto all’autogoverno locale” (Wilson, 1918, vol. VII, p.105). In modo analogo, alla fine dell’Ottocento, gli Usa procedono prima alla trasformazione delle Haway in una repubblica “indipendente” e poi alla loro annessione. Un ulteriore sviluppo conosce questa tecnica alcuni anni dopo. La Colombia esita a concedere o cedere agli Usa la striscia di territorio necessaria alla costruzione del Canale chiamato a collegare Atlantico e Pacifico? L’imperialismo non si lascia inceppare dal diritto “formale. Un nuovo paese viene creato dal nulla: conseguita l'”indipendenza”, Panama accoglie prontamente tutte le richieste di Washington. E così, la parola d’ordine dell'”autodeterminazione” diviene un formidabile strumento di espansione imperiale. È con questa medesima logica che oggi gli Usa sono impegnati a smembrare l’Irak, la Jugoslavia e, possibilmente, anche la Cina e la Russia. L’ideale sarebbe costituito da un pulviscolo di stati e staterelli dominati da un’unico grande paese e un’unica grande potenza imperiale, capace di dettar legge nel mondo intero a partire da Washington.

2. “L’indipendenza” che apre i mercati

Ben diverso è il principio dell’autodeterminazione in Lenin, il quale sottolinea preliminarmente un punto essenziale: “A parità di tutte le altre condizioni, il proletariato cosciente difenderà sempre lo stato più grande. Lotterà sempre contro il particolarismo medievale e vedrà sempre con favore la più profonda coesione economica di vasti territori, sui quali possa dispiegarsi ampiamente la lotta del proletariato contro la borghesia […] Il grande Stato centralizzato è un immenso progresso storico sulla strada che dal particolarismo medievale conduce alla futura unità socialista del mondo intero” (Osservazioni critiche sulla questione nazionale, 1913). Se nonostante ciò, si fa strada e s’impone il desiderio di secessione, allora è chiaro che siamo in presenza di una grave forma di oppressione: “Le masse della popolazione, istruite dall’esperienza quotidiana, conoscono bene l’importanza dei legami geografici ed economici, i vantaggi di un grande mercato e di un grande Stato e decideranno di separarsi solo se l’oppressione e gli attriti nazionali renderanno assolutamente insopportabile la vita in comune, intralciando ogni specie di rapporti” (Sul diritto di autodecisione delle nazioni, 1914). È evidente che oggi la situazione è radicalmente mutata. Mentre condanna all’embargo i popoli che si oppongono alla sua politica, l’imperialismo cerca di corrompere gruppi etnici disposti a collaborare con la sua politica di smembramento del paese colpevole di voler salvaguardare la propria indipendenza. Si prenda il caso del Montenegro. La stessa stampa americana riconosce che il suo presidente, Djukanovic, si è arricchito col contrabbando e col mercato nero (Hedges, 1999); questo medesimo personaggio dichiara che l'”indipendenza” potrebbe essere l’unico modo per attrarre “investimenti” occidentali (Dobbs, 1999), fors’anche per continuare nei suoi sporchi traffici e comunque per sfuggire alla condanna a morte per stenti e per inedia dalla Nato inflitta al popolo jugoslavo ribelle. E cioè, il manifestarsi di tendenze separatiste nel Montenegro di oggi sta a significare non già un’oppressione nazionale serba, ma l’intensificarsi delle manovre dell’imperialismo. Già ora ha imposto il marco come moneta ufficiale e chiama regolarmente a rapporto a Washington o in altre capitali occidentali Djukanovic e gli altri esponenti del gruppo dirigente mafioso-secessionista. Altro che “autodeterminazione” e “indipendenza”! Con lo sguardo forse rivolto in modo particolare alla sorte di Panama e delle Haway, Lenin aveva già chiarito questo punto nel 1916. Fermo dev’essere l’appoggio ai “movimenti democratici e socialisti seri”. Per il resto: “Noi non “sosterremo” la farsa della repubblica in un qualche principato di Monaco o le avventure “repubblicane”” dei “generali” nei piccoli Stati dell’America del sud o in qualche isola del Pacifico” (Intorno ad una caricatura del marxismo, 1916).

3. Relatività politica e contenuto di classe

In conclusione. Agitare oggi la bandiera dell’”autodeterminazione” del Montenegro significa solo mettersi al rimorchio dell’imperialismo. Ma è forse sostanzialmente diversa la vicenda del Kosovo? Il meno che si possa dire è che, come risulta anche dalla stampa occidentalle ad opera dei serbi: ne consegue che i comunisti dovrebbero appoggiare l’Uck e battersi in ogni caso per l’autodeterminazione? Chi argomenta in modo così meccanico potrà tutt’al più richiamarsi a Wilson, non certo a Lenin. Il grande dirigente rivoluzionario non ha mai assolutizzato il principio dell’autodeterminazione: non ha certo valutato positivamente sul piano storico o appoggiato la Vandea, la Confederazione degli stati schiavisti del sud degli Usa, i coloni statunitensi del Texas e della Haway ovvero quelli inglesi dell’Ulster, per non parlare dei secessionisti di Panama. Ripetutamente e con forza Lenin sottolinea “relatività politica e contenuto di classe di tutte le rivendicazioni della democrazia politica, inclusa l’autodecisione” (La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1916). E cioè: “Il diritto di autodecisione è una delle rivendicazioni della democrazia e, naturalmente, dev’essere subordinato agli interessi generali di quest’ultima”. C’è un esempio clamoroso. Nel 1848, mentre la rivoluzione si sviluppa a Vienna, Budapest e in tutta Europa, la reazione asburgica e zarista riesce a mobilitare le “nazioni “reazionarie””: l’espressione e il giudizio di condanna sono di Marx, ma vengono pienamente sottoscritti da Lenin, il quale così chiarisce ulteriormente il suo punto di vista: in quel momento, gli “interessi generali” della democrazia “consistevano in primo luogo nella lotta contro lo zarismo”; e dunque, per i rivoluzionari era lecito e doveroso contrastare l’agitazione di nazioni, che pur esprimendo rivendicazioni talvolta legittime, si mettevano tuttavia al servizio o alla coda del nemico principale del movimento democratico e nazionale (La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione). Ai giorni nostri, mentre dichiarano in modo esplicito che ritengono superato il principio dell’indipendenza nazionale e dell’uguaglianza e della democrazia nel rapporto tra i diversi paesi, al tempo stesso gli Usa non rinunciano alla civettuola agitazione della parola d’ordine dell'”autodeterminazione”…

4. Se nel ’48 vinceva il Fronte…

Ma l’atteggiamento da me assunto non rischia di liquidare una parola d’ordine che pure è parte integrante della storia e del programma comunista? Coloro che così obiettano sembrano lasciarsi incantare dalla musica delle parole, rinunciando così all’analisi concreta della situazione concreta. I comunisti hanno sempre celebrato sul piano storico e appoggiato sul piano politico le rivoluzioni: ne consegue che sono tenuti ad esprimere simpatia nei confronti dell’odierna “rivoluzione liberale” o che erano tenuti ad inchinarsi dinanzi alle “rivoluzioni” di cui Mussolini e Hitler si dichiaravano protagonisti? L’internazionalismo è un altro punto di riferimento ineludibile per i comunisti: ciò significa che essi devono allearsi con gli sciovinisti americani, i quali fanno anch’essi professione di “internazionalismo”, nel senso che teorizzano il diritto degli Usa ad intervenire in ogni angolo del mondo? Chi volesse argomentare in questo modo seguirebbe una politica basata non sui princìpi, ma sulle assonanze. Ma dalle assonanze si sono lasciati disgraziatamente incantare quei circoli “trotskisti” che hanno appoggiato l’Uck, cioè il braccio armato della Nato, i “guerriglieri” che aiutano Washington nella sua spietata politica di occupazione economica, militare e politica dei Balcani. E così, mentre in una regione geopoliticamente essenziale conosce una massiccia diffusione un istituto dichiaratamente neocoloniale qual è il protettorato, quei circoli trotskisti hanno guardato con favore allo smembramento dell’unico paese che nell’Europa centro-orientale non fa parte o non ha chiesto di far parte della Nato, l’alleanza politico-militare impegnata nella ricolonizzazione del Terzo Mondo e delle zone periferiche… Per comprendere meglio il significato della lotta per l’autodeterminazione ai giorni nostri, può essere utile riflettere sulla storia del nostro paese. In base a documenti Usa recentemente declassificati, alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1948, la Cia era pronta, in caso di vittoria delle sinistre, ad appoggiare movimenti secessionisti in Sardegna e Sicilia e a smembrare l’Italia (Molinari, 1999). Dobbiamo considerare queste manovre un omaggio al principio dell'”autodeterminazione” del popolo sardo e siciliano o invece una minaccia al principio dell’autodeterminazione del popolo italiano nel suo complesso (compresi sardi e siciliani), cui in nessun caso poteva essere consentito di esprimere un governo non gradito agli aspiranti padroni dell’universo?

Rientrate in Italia in seguito della vittoria della Dc, le manovre secessioniste dell’imperialismo minacciano ora di giungere a compimento in Jugoslavia; analoghe manovre sono in corso ai danni della Cina, dove, disgraziatamente per Washington, il partito comunista è ancora al potere. Se riuscisse a smembrarlo, l’imperialismo trasformerebbe il grande paese asiatico nel suo complesso, compresi il Xinjiang e il Tibet, in una serie di colonie e di protettorati. Sarebbe per gli Usa la consacrazione definitiva del loro planetario dominio imperiale, del loro diritto a intervenire a Cuba, in Corea, nel Montenegro, in Russia, in Irak, in ogni angolo del mondo, del loro diritto a condannare a morte per inedia, mediante embargo, qualsiasi popolo con velleità di indipendenza; sarebbe la cancellazione più radicale del principio di autodeterminazione.

Riferimenti bibliografici

– Michael Dobbs, 1999 a Montenegro, Defying Serbs, Is Considering Independence, in “International Herald Tribune” del 26-27 giugno, p. 2

– Antonio Gramsci, 1975 Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino

– Chris Hedges, 1999 Restive Montenegro Fears Serbian Plans Another ‘Kosovo Scenario’, in “International Herald Tribune” del 23 agosto, p. 7

– Paul Johnson, 1992 Ireland. A Concise History from the Twelfth Century to te Present Day (1980), Academy, Chicago

– Maurizio Molinari, 1999 1948, guerra civile a Roma, in “La Stampa” del 14 settembre, p. 23

– Woodrow Wilson, 1918 A History of the American People. Documentary Edition (1901), Harper & Brothers, New York-London