Imperialismo e nuovi rapporti tra centro e periferia del mondo

Mentre sulla rivoluzione tecnologica imperversa l’affabulazione ideologica, vengono invece sistematicamente ignorate le questioni concernenti il riassetto del sistema imperialista e la polarizzazione attraverso il quale tale riassetto si estrinseca. D’altronde, la visione del sistema mondiale in questo contesto viene in genere definita in base alle frontiere della triade. Quindi, le sole “questioni”eventualmente oggetto di disamina di questa rappresentazione monca della realtà mondiale sono quelle relative ai rapporti tra i paesi europei e gli USA. Qui va notato che in quest’ambito d’indagine, un’opera come quella di Robert Brenner (The Economics of Global Turbulence, NLR 1998), che propone un’analisi storica dell’evoluzione dei termini della concorrenzialità tra USA, Germania e Giappone, rimane pur sempre confinata nell’angusta visuale occidental-centrica. Se infatti l’evoluzione dei rapporti tra i tre centri in questione coglie una dimensione della storia del periodo successivo alla II Guerra Mondiale, non è questa la dimensione principale né determinante.
Perciò ho avanzato, in contrasto al silenzio sul mondo all’infuori della triade, alcune ipotesi sulle trasformazioni dei rapporti centro-periferia, che mi parevano dover connotare il futuro, e con ciò mi riferisco a quanto ho detto circa i “cinque monopoli” nuovi, che definiscono i nuovi vantaggi qualitativi dei centri, che ricorderò per grandi linee.
Al pari di qualunque altro aspetto della società capitalistica, la polarizzazione non è definita una volta per tutte immutabilmente. E’ certo superata la forma in cui essa si è manifestata nel corso di un secolo e mezzo, nel contrasto tra paesi industrializzati e non, forma appunto abrogata dal movimento di liberazione nazionale delle periferie, che ha costretto lo stesso centro ad adattarsi alle trasformazioni conseguenti all’industrializzazione, seppur ineguale, delle periferie. E’ possibile inferire da questa constatazione che l’Asia orientale sta per “raggiungere” i centri della triade? È troppo presto per rispondere positivamente. La tesi che qui avanzo porta a tutt’altra conclusione, e cioè che, mediante la messa in opera dei cinque monopoli della triade, la legge del valore mondializzata genera una polarizzazione di tipo nuovo, che subordina l’industria delle periferie emergenti, prospettiva cui non sfuggirà la Cina, se sceglierà d’integrarsi ulteriormente nella divisione internazionale del lavoro.

Per molto tempo – dalla rivoluzione industriale degli inizi del sec. XIX fino agli anni ’30 del sec. XX (per quanto riguarda l’URSS) e poi gli anni ’50 (in riferimento al Terzo Mondo) – il contrasto tra centro e periferie del moderno sistema mondiale è stato in pratica sinonimo della contrapposizione tra paesi industrializzati e non. Le ribellioni delle periferie, sotto forma di rivoluzioni socialiste (Russia, Cina) o di liberazione nazionale, hanno rimesso in causa tale precedente forma della polarizzazione, inserendo le relative società in un processo di modernizzazione ed industrializzazione. Gradualmente, l’asse della riorganizzazione del sistema capitalistico mondiale, che definirà le successive forme di polarizzazione, è venuto a coincidere con quelli che chiamo “i cinque nuovi monopoli” di cui godono i paesi della triade predominante.

La collocazione di ciascun paese nella piramide mondiale viene definita a partire dal livello di competitività dei suoi prodotti sul mercato mondiale. Ammettere quest’evidenza non significa affatto condividere il luogo comune degli economisti volgari, secondo i quali la posizione stessa verrebbe conseguita grazie all’attuazione di politiche economiche “razionali” in quanto conformi alle pretese “leggi obiettive del mercato”. In contrapposto a queste sciocchezze pur considerate assiomatiche, sostengo che la “competitività” in oggetto è il complesso risultato di un’insieme di condizioni che operano nel complessivo della realtà – economica, politica e sociale – e che, in questa lotta ineguale, i centri fanno valere i loro”cinque monopoli”, articolando l’efficacia della loro azione. Ritengo che questi ”cinque monopoli” sollecitino, dunque, la teoria sociale in toto, e sono i seguenti:

(i) I monopoli dei quali beneficiano i centri contemporanei nella sfera tecnologica; essi esigono spese colossali, quali può concepibilmente affrontare solo uno Stato grande e ricco, senza il cui sostegno (che la vulgata liberista sistematicamente sottace), specie in termini di spese militari, tali monopoli non potrebbero, nella loro maggioranza, essere mantenuti.

(ii) I monopoli attinenti al controllo dei flussi finanziari di portata mondiale. La liberalizzazione della localizzazione dei principali istituti finanziari operanti sul mercato finanziario mondiale ha conferito a questi monopoli poteri senza precedenti. Non molto tempo fa, la maggior parte del risparmio di una nazione poteva circolare solo nello spazio – per lo più nazionale – retto dalle sue istituzioni finanziarie. Oggi invece il risparmio viene centralizzato per l’intervento d’istituzioni finanziarie che operano ormai su scala mondiale: tali istituzioni costituiscono il capitale finanziario, che è la frazione più mondializzata del capitale. Comunque questo privilegio poggia su di una logica politica che fa accettare la mondializzazione finanziaria, logica che potrebbe venir rimessa in discussione da una semplice decisione politica di scollegamento, pur limitata al campo dei trasferimenti finanziari. D’altronde, i liberi movimenti del capitale finanziario si attuano in ambiti definiti da un sistema monetario mondiale fondato sul dogma per cui il mercato stimerebbe liberamente il valore delle monete forti (in conformità con la teoria che vede nella moneta una merce come le altre, e sul riferimento al dollaro come moneta di fatto universale). La prima di queste condizioni non ha fondamento scientifico, e la seconda funziona solo in mancanza di un’alternativa. Una moneta nazionale può fungere da moneta internazionale solo se le condizioni della competitività internazionale producono un eccesso strutturale delle esportazioni dal paese la cui moneta adempia a tale funzione, garantendo il finanziamento, da parte del paese in questione, dell’adattamento strutturale degli altri paesi. Così fu per l’Inghilterra nel sec. XIX, ma così non è oggi per gli USA, che anzi finanziano il proprio deficit con i prestiti che impongono agli altri paesi; né per i concorrenti degli USA, giacché gli eccessi di esportazioni da Giappone ed UE non sono commisurabili alle esigenze finanziarie poste dall’adattamento strutturale degli altri paesi. In un tale contesto, la mondializzazione finanziaria, lungi dall’imporsi “naturalmente”, si rivela estremamente fragile, generando, nel breve termine, solo instabilità permanente, non certo la stabilità necessaria al buon funzionamento dei processi di adattamento.

(iii) I monopoli che accedono alle risorse naturali del pianeta. I rischi di danni ecologici irreversibili derivanti dall’insensato sfruttamento di tali risorse, non eliminabili dal capitalismo – la cui razionalità sociale è per definizione a breve termine – intensificano ed ampliano il monopolio dei paesi sviluppati, i quali si adoperano soltanto ad evitare che gli altri paesi si associno a tale spreco.

(iv) I monopoli relativi ai mezzi di comunicazione di massa, che non solo uniformano al ribasso la cultura mondiale, ma forniscono nuovi strumenti di controllo e mistificazione politici. Già ora, l’espansione del mercato dei mass media costituisce uno dei fattori principali di degrado concettuale e sostanziale della democrazia nello stesso Occidente.

(v) Infine, i monopoli che operano nel campo delle armi di distruzione di massa. Questo monopolio, limitato dal bipolarismo del secondo dopoguerra, è nuovamente l’arma totale, di cui solo la diplomazia americana si riserva l’impiego, come nel 1945. Se la ”proliferazione” degli armamenti comporta ovvi rischi di ”sfuggire al controllo”, non vi sono altri mezzi per contrastare tale monopolio, in assenza di un controllo mondiale democratico di un disarmo realmente globale.

Considerati nel loro insieme, questi cinque monopoli definiscono l’ambito ove vige la legge del valore mondializzata. Lungi dall’essere espressione di una razionalità economica “pura” la legge del valore, non è separabile dal suo quadro sociale e politico e sintetizza il complesso di questi condizionamenti, i quali, a mio parere, annullano la portata dell’industrializzazione delle periferie, svalutano il lavoro incorporato nei suoi prodotti, e sopravalutano il cosiffatto valore aggiunto connesso alle attività attraverso cui operano i nuovi monopoli a favore dei centri. Si determina così su scala mondiale una polarizzazione più che mai disuguale, che subordina le industrie delle periferie, e le confina ad un ruolo di subappalto. In queste condizioni la polarizzazione trova il suo nuovo fondamento che ne determinerà la futura configurazione.

Nel quadro del capitalismo mondializzato, la competitività relativa dei sistemi produttivi entro la triade, nell’ Unione Europea, nelle periferie, e le principali tendenze della loro evoluzione costituiscono un dato basilare a medio e lungo termine. Il complesso di questi fattori comporta quasi ovunque un funzionamento a più velocità: certi settori, regioni, aziende (specie le grandi transnazionali) conoscono elevati tassi di crescita e realizzano cospicui profitti, mentre altri stagnano, regrediscono o vanno incontro al degrado. I mercati del lavoro vengono frammentati per adattarli a tale situazione.

E’ questo un fenomeno realmente nuovo? o in breve, questa diversità dei tassi di sviluppo è la norma nella storia del capitalismo? Il fenomeno in questione sembra solo aver conosciuto un’eccezionale attenuazione nel secondo dopoguerra (1945-1980) in quanto i rapporti sociali avevano imposto interventi sistematici dello Stato, (Welfare State, Stato sovietico, Stato nazionale nel Terzo Mondo di Bandung) che promuovevano la crescita e l’ammodernamento delle forze produttive organizzando i trasferimenti regionali e settoriali a ciò richiesti.

Non è quindi agevole discernere, nello sviluppo della realtà, quanto attiene alle grandi tendenze che si affermano nei tempi lunghi, dagli elementi congiunturali di gestione della crisi. Entrambi questi fenomeni sono evidenti nella fase attuale: l’aspetto “crisi e sua gestione” e quello della trasformazione dei sistemi in atto. Ma va sottolineato un punto di principio, cioè per le trasformazioni nel sistema capitalistico non discendono da forze metasociali, alle quali ci si dovrebbe assoggettare come a leggi di natura (in assenza quindi di alternative), bensì da rapporti sociali. Sono perciò sempre possibili diverse opzioni, corrispondenti a diversi equilibri sociali.
Ci troviamo qui di fronte ad una “nuova questione dello sviluppo”, che impone di uscire dalla ristretta visuale, prevalsa nel secolo scorso, per cui si trattava di “raggiungere” le realtà più avanzate. La nuova questione dello sviluppo implica certo una dimensione, se non di “raggiungimento”, quanto meno di sviluppo delle forze produttive, ed in tal senso alcuni insegnamenti del passato rimangono validi per il futuro: ma ne deriva pure l’esigenza di conferire più importanza che in passato ai requisiti dell’edificazione di un’altra società su scala mondale.

La riorganizzazione in corso del sistema delle istituzioni internazionali mira a rafforzare i su accennati monopoli della triade.

L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) è stata costruita appunto per rafforzare e legittimare i “vantaggi comparativi “ del capitale transnazionale. I “diritti di proprietà industriale ed intellettuale” sono stati formulati in modo da perpetuare i monopoli delle transnazionali, tutelarne i sovrapprofitti, ed ostacolare ulteriormente ogni tentativo di autonoma industrializzazione delle periferie. Lo scandalo delle aziende farmaceutiche che intendono godere di accesso libero ed esclusivo al mercato mondiale, vietando la produzione concorrenziale di farmaci a basso costo nei paesi del Sud, è esempio paradigmatico di quest’apartheid su scala planetaria: solo i popoli dei paesi ricchi hanno diritto a terapie efficaci, mentre si nega senz’altro il diritto alla vita per i popoli del Sud. Analogamente, il progetto del WTO di “liberalizzare” l’agricoltura annienta le politiche di sicurezza alimentare dei paesi del Sud, condannando alla miseria centinaia di milioni dei loro contadini.

La logica sottesa a queste scelte è quella della sistematica sovraprotezione dei monopoli del Nord, che è la realtà. Mentre le declamazioni sui pregi del libero commercio e dell’accesso al mercato sono pura propaganda nel senso volgare del termine, cioè menzogne.

Questa è la logica che ritroviamo nel progetto della WTO di promuovere una legislazione internazionale sugli affari (international business law) che dovrebbe prevalere su tutti gli altri ambiti di legge, nazionale ed internazionale. A questa logica è pure riconducibile lo scandaloso progetto MAI elaborato alla chetichella dall’OCSE.

Di contro a questo progetto di sistematica organizzazione di un apartheid giuridico su scala mondiale, è possibile sviluppare una nuova giurisdizione superiore, che assicuri a tutti gli abitanti del pianeta un trattamento dignitoso, presupposto della loro attiva e creativa partecipazione all’edificazione del futuro? Giurisdizione completa, multidimensionale, che tratti dei diritti della persona umana (ovviamente dei due sessi, in quanto pienamente uguali), diritti politici, diritti sociali (lavoro e sicurezza), diritti delle comunità e dei popoli, infine il diritto che deve reggere i rapporti tra Stati. Questa credo sia la vera sfida che la mondializzazione capitalistica rivolge ai popoli.

Che ne è del “miracolo asiatico”?

Ma l’“imperialismo collettivo”, che la triade espleta mediante i suoi cinque monopoli, e che poggia sull’egemonismo politico-militare degli USA, non è forse in prospettiva minacciato dalla cosiddetta “ascesa dell’Asia”? E’ quanto spesso si afferma, senza soffermarsi ad esaminare quali siano le componenti di tali miracoli asiatici, e come si iscrivano nella nuova mondializzazione imperialistica.

Va rammentato che in passato molti analisti del sistema mondiale sostenevano che la vera potenza in ascesa era il Giappone. Il “miracolo giapponese”, coincidente con l’entrata in crisi di USA ed Europa, si spiega per l’assommarsi di più fattori specifici: bassi consumi e cospicui risparmi delle classi subalterne, produttivismo autoritario organizzato da uno Stato interventista economico, in stretta associazione alle strategie degli oligopoli nazionali, apertura del mercato nordamericano, a compensare le esportazioni di capitali giapponesi negli USA.

Tale “miracolo” è tuttavia cosa del passato. Negli anni ’90, i tassi di crescita del PIL e delle esportazioni giapponesi hanno conosciuto una rovinosa caduta: dal 10,4% e 15,7% degli anni Sessanta a solo lo 0,8% e 3,1%, rispettivamente, nello scorso decennio (cfr. J.Beinstein). La crisi politica nonché morale in cui il paese è successivamente sprofondato hanno quanto meno tacitato le ipotesi di un possibile egemonismo nipponico.
Non vi sono più le basi su cui poggiava il “successo” giapponese. Dall’epoca Meiji alla seconda guerra mondiale (1863-1945), l’imperialismo giapponese si era nutrito di espansionismo coloniale e di militarismo. Nel secondo dopoguerra (1945-1990), con la ricostituzione degli oligopoli e la loro stretta associazione con lo Stato rimasto autoritario (e di fatto monopartitico) sotto la verniciatura democratica, le funzioni della casta militare vennero riprese da uno Stato “costruttore” (di infrastrutture e case popolari), poggiante su di un efficiente sistema scolastico, che permetteva l’adozione di tecnologie avanzate, il tutto favorito dall’appoggio politico decisivo di Washington (che si accompagnava a concessioni economiche), in conseguenza della “guerra fredda”. Il popolo del Giappone si trova ora dinnanzi a sfide cui non è preparato: ci si chiede se a queste sfide la società nipponica risponderà con cambiamenti non solo nelle forme di organizzazione economica, ma anche negli ambiti della vita e cultura politiche, della coscienza e lotta di classe, che la porterebbero in questo senso più vicina ad Europa ed USA. In ogni modo, qui come altrove, l’ambito in cui dovrà operare l’economia giapponese in trasformazione sarà determinato dai cambiamenti di questi rapporti sociali.
Una volta dissipate le illusioni sul Giappone, la tesi di un’“Asia in ascesa” che avrebbe dovuto subentrare all’“Occidente” euroamericano, ha preso come oggetto la Cina. Non ripropongo qui le analisi giù prospettate circa le diverse evoluzioni possibili per la Cina (cfr. Samir Amin: Les défis de la mondialisation, Alternatives Sud, N° 1, 2001, e le critiche mosse alla tesi di A.G.Frank riguardo al “ritorno dell’Asia” (cfr. Samir Amin, Review, N° 3, 1999).

Nella crisi generale imperversante da quasi tre decenni, ora è sembrata profilarsi una nuova frattura “Est/Ovest”.
La crisi investe duramente il continente americano nel suo complesso, nord e sud, Europa occidentale, Africa e Medio Oriente, Europa orientale e paesi dell’ex-URSS. Ne sono sintomi; crescita debole (nulla o negativa per molti paesi dell’Est e per le aree emarginate del Terzo Mondo), scarsi investimenti in attività produttive, aumento di disoccupazione e precariato, incremento di attività “informali”, il tutto esacerbato da una più accentuata ineguaglianza di ripartizione delle ricchezze. E’ una stagnazione persistente benché raffigurata, nel linguaggio eufemistico ufficiale, come alternanza di “recessioni e riprese”. Malgrado talune apparenze, quali la risalita del tasso di crescita USA, e la discesa del tasso di disoccupazione ufficiale, in questo caso,come in quello inglese, la “ripresa” resta fragile, in quanto fondata sulla finanziarizzazione, che è essa pure a rischio. In realtà, lo “zoccolo duro” dell’economia americana consiste tuttora nelle spese militari. Invece, i paesi dell’Asia orientale, Cina e Corea, e del Sud-est asiatico (India) hanno dato l’impressione, per lungo tempo, di collocarsi al di fuori delle regioni interessate da quest’onda lunga di crisi. I tassi d’investimento nell’espansione dei sistemi produttivi e di crescita economica, negli scorsi decenni, sono rimasti stabili (India), o sono considerevolmente aumentati (Cina, Corea, Sud-est asiatico): a questa crescita accelerata si è accompagnata in genere, ancorché tale affermazione vada relativizzata, una minor esasperazione dell’ineguaglianza rispetto a quanto rilevabile altrove. Lo stesso Giappone si è giovato della temperie che nel complesso ha caratterizzato il “nuovo Oriente”, prima d’entrare a sua volta, quindi successivamente, in una crisi, in questo caso davvero profonda. La crisi finanziaria che dal 1997 interessa Corea e Sud-est asiatico, e minaccia la Cina stessa, segnerà la fine di tale “eccezione asiatica” e della connessa frattura Est/Ovest?

Sul “miracolo asiatico” si era molto dissertato. Se ne è detto di tutto: l’Asia, o l’Asia del Pacifico, come centro del futuro in costruzione, che avrebbe ritolto ad Europa ed USA il dominio planetario; la Cina come futura superpotenza…. Con maggior equilibrio, si sono anche tratte dal fenomeno asiatico illazioni che, per quanto a mio parere premature, sembrano meritevoli di venir prese seriamente in considerazione. Si è vista in esso una confutazione della teoria della polarizzazione intrinseca all’espansione capitalistica mondiale (purtroppo spesso confusa con le versioni volgari della “dipendenza”), nonché strategie di “scollegamento” auspicate come risposta alla sfida della polarizzazione. Sarebbe così comprovata la possibilità del “raggiungimento”, per cui sarebbe più funzionale un inserimento attivo nella mondializzazione (al limite, nella versione volgare di tale orientamento, mediante una strategia orientata all’esportazione) piuttosto che un illusorio “scollegamento” (preteso responsabile della catastrofe sovietica). I fattori interni, tra cui quello culturale, sarebbero dunque responsabili della riuscita degli uni, che riuscirebbero ad imporsi come agenti del riassetto del mondo, e dell’insuccesso degli altri, emarginati e “scollegati loro malgrado”.
Per progredire realmente nella disamina di tali complesse questioni, bisognerebbe studiarsi di distinguere chiaramente i vari livelli di analisi relativi alle strutture sociali interne ed alle forze operanti a livello del sistema mondiale. Queste e quelle sono interconnesse in maniera che andrebbe spiegata appunto se si vuole andare oltre ad una polemica facile quanto futile. L’inserimento attivo e controllato nella globalizzazione è opzione ben diversa dalla strategia economica fondata sulla priorità alle esportazioni, e tali opzioni si basano su diversi blocchi sociali egemonici interni.
I paesi dell’Asia orientale hanno conseguito successi in quanto appunto hanno sottoposto le relazioni estere alle esigenze dello sviluppo interno, rifiutandosi cioè di “adattarsi” alle tendenze dominanti sul piano mondiale. E ciò significa appunto lo “scollegamento”, che lettori troppo superficiali confondono con l’autarchia.
Stando così le cose, l’imperialismo collettivo in oggetto non è la “fine della storia” più di quanto non lo siano state le precedenti modalità di mondializzazione capitalistica. Questo modello verrà messo in discussione dal complesso delle lotte sociali e dei conflitti internazionali, attuali e venturi. Tra le forze contestatrici dello status quo, si pongono anzitutto le aspirazioni di società e Stati della periferia attiva (Cina, India, Asia in genere, grandi paesi latinoamericani), senza con ciò dimenticare lo lotte sociali sia nelle società della triade, sia nelle periferie “emarginate”. Nell’ipotesi, certo ottimista, che le une o le altre tra queste forze-sistema arrivino a combinare le proprie strategie ed a far convergere i propri obiettivi, si aprirebbe la prospettiva di un “superamento del capitalismo”. Nel frattempo, l’ordine imperialista neoliberista collettivo potrebbe, o restare bloccato più o meno a lungo nel vicolo cieco di un’espansione bloccata,o aprirsi ad una nuova fase di riproduzione allargata e nuova espansione.

Il pericolo principale oggi; militarizzazione dell’egemonia americana e dell’imperialismo collettivo della Triade.

La geopolitica mondiale costituisce l’ambito ineludibile in cui si spiegano le strategie di sviluppo delle diverse forze, ed è sempre stato così, almeno per quanto riguarda il mondo moderno, ossia il sistema capitalistico mondiale, fin dal 1942. I rapporti di forza che modellano la geopolitica delle varie fasi dell’espansione capitalistica agevolano lo sviluppo (nel senso triviale del termine) delle potenze dominanti, ostacolando le altre. La fase attuale si caratterizza per il dispiegamento di un progetto USA di egemonia sul piano mondiale, ed inoltre tale progetto è il solo che occupi tutta la scena, non essendovi più controprogetti intesi a limitare lo spazio sottoposto al controllo USA come ai tempi del bipolarismo (1945-1990); anche il progetto europeo, a prescindere dalle sue originarie ambiguità, è in crisi; i paesi del Sud (gruppo dei 77, non allineati) che, ai tempi di Bandung (1955-1975) avevano nutrito l’ambizione di costituire un fronte unito contro l’imperialismo occidentale (che io chiamo “sistema del 1492”) vi hanno rinunciato, e la stessa Cina, che opera da sola, ambisce solo a difendere il proprio progetto nazionale, peraltro non senza contraddizioni, e non si pone come effettivo attore del riassetto mondiale.

L’egemonia USA si fonda essenzialmente sulla potenza militare. Tale egemonia, sistematicamente edificata dal 1945, fino a coprire tutto il globo, ritagliato in regioni afferenti al sistema integrato degli US military commando, era stato costretto ad accettare la coesistenza pacifica imposta dalla potenza militare dell’URSS. Voltata la pagina della guerra fredda, e nonostante il crollo dell’URSS, la cui pretesa “minaccia” era servita da pretesto all’edificazione del sistema militare degli USA, questi hanno optato non già per smantellarlo, ma per rafforzarlo ed estenderlo alle aree in precedenza sottratte al suo controllo.

Quindi, il principale strumento dell’offensiva egemonica USA è militare. Tale egemonia, che a sua volta assicurerebbe quella della triade sul sistema mondiale, richiederebbe che gli alleati si contentino di seguire la scia degli USA, come riconoscono Inghilterra, Germania e Giappone, senza resipiscenze neanche “culturali”. Ma ciò inficia tutta la propaganda sulla potenza economica della Europa la quale, collocandosi esclusivamente sul terreno delle dispute mercantili, è sconfitta prima di combattere, cosa di cui gli USA sono pienamente consci.

Sono abbastanza ovvi i mezzi cui gli USA intendono ricorrere per realizzare il loro progetto, anzi vengono apertamente proclamati, con lodevole sincerità, benché gli obiettivi vengano sempre motivati con i pretesti morali tipici della tradizione americana. Si tratta di cinque obiettivi: (i) neutralizzare ed asservire gli altri membri della triade (Europa e Giappone), e minimizzarne la capacità di azione fuori dell’ambito di controllo americano; (ii) assicurare il controllo militare della NATO e “latino-americanizzare” i frammenti dell’ex-URSS; (iii) controllare in esclusiva Medio Oriente ed Asia centrale con relative risorse petrolifere; (iv) smantellare la Cina, garantirsi la subordinazione degli altri grandi Stati/India, Brasile), ed impedire la formazione di blocchi regionali che potrebbero negoziare le condizioni della globalizzazione; (v) emarginare le aree del Sud prive d’interesse strategico.

WTO e NATO dovrebbero sostituire l’ONU come strumenti principali del nuovo “ordine”mondiale,
quello dell’apartheid su scala planetaria. Le altre istituzioni mondiali si ridurrebbero meramente a sostenere le strategie elaborate da WTO e NATO: così la Banca Mondiale, retoricamente presentata come think tank ossia centro di elaborazione strategica dello sviluppo, ma che in realtà si è ridotta a fungere da Ministero della Propaganda dei G7, ed a stilare discorsi, mentre le decisioni economiche importanti vengono prese nell’ambito del WTO e la direzione politica e militare degli affari è delegata alla NATO. Più importante, benché non quanto si ritenga in molti casi, il FMI. Con l’adozione generalizzata del sistema dei cambi flessibili, il FMI non controlla i rapporti tra le monete più forti (dollaro, euro, yen), e si è ridotto ad una specie di Autorità Monetaria Coloniale gestita dall’imperialismo collettivo della Triade.

Tanto più è inderogabile un’attenta disamina degli eventi nel cuore stesso del sistema, in quanto l’ideologia dominante ravvisa negli sviluppi peculiari degli USA, un modello da generalizzare alla triade.

Gli USA negli anni ’90 hanno effettivamente conosciuto una crescita superiore a quella dei partners della triade, crescita che ha inoltre consentito il riassorbimento di buona parte della disoccupazione – è noto a che prezzo, ossia precarizzazione, riduzione dei salari da $9,59 all’ora nel 1968 a $8,7 nel 1998 -; aumento della popolazione povera, dal 25% del 1970 al 36% del 1997 (Beinstein, cit.). Certo, ci si può scandalizzare (ed è il mio caso) che sviluppi del genere vengano magnificati come modello per gli altri! Il capitale dominante non se ne cura: se il popolo americano accetta di piegarsi a tali esigenze, così consentendo la ripresa del tasso di profitto, tutto va bene (per il capitale).
Ma l’analisi va approfondita, giacché questo “successo” non conferma affatto la tesi del liberalismo,
secondo cui la riduzione del costo del lavoro sarebbe condizione di una ripresa della crescita: in realtà, quest’ultima è stata tanto ampiamente finanziata dal resto del mondo, che la formula non potrebbe in alcun modo generalizzarsi, e neanche estendersi alla sola triade nel suo complesso. La crescita degli USA nel “decennio clintoniano” si è accompagnata a un regresso del potenziale industriale degli USA stessi.. La produzione industriale pro capite degli USA rappresenta non più del 50% di quella Giapponese, il 60% della tedesca, ed è addirittura scesa al di sotto della francese e dell’italiana. La quota statunitense nella produzione industriale della triade è crollata dal 54,2% del 1961 al 40,5% del 1996 (Beinstein, cit.). Quindi, la crescita nordamericana è prevalentemente attribuibile ad un’estrema terziarizzazione.

Questo declino, quanto meno industriale, degli USA ha comportato un vertiginoso deficit della bilancia commerciale estera, passata dai $7,4 a $30,5 miliardi nel biennio 1991-1992, in parallelo alla quasi estinzione della capacità di risparmio nazionale, caduta dall’8% nel 1990 al solo 2% del PIL nel 2000 (Beinstein, cit.), Quindi, la perpetuazione del sistema di crescita americano presupponeva un gigantesco flusso di capitali, tale da ingoiare una cospicua frazione del plusvalore creato in tutte le altre parti del mondo, capitali che, a loro volta, contribuivano ad un’ipertrofia finanziaria, manifesta dal rigonfiamento del debito pubblico da $1 miliardo 1081 A $5,5 miliardi nel 1999 (Beinstein, cit..).

La crescita USA è, dunque, in buona misura riconducibile al parassitismo della società e dell’economia statunitensi, il che ne comporta l’estrema vulnerabilità.

Cosa avverrebbe infatti se i membri della triade avviassero un corso analogo? Se anch’essi decidessero d’imperniare la propria crescita sull’incremento di un terziario esaltato come espressione della famosa new economy, avviando una relativa deindustrializzazione? E’ proprio l’ipotesi che avanzavo sulla scorta dell’individuazione dei surriferiti “cinque monopoli”. I centri si specializzerebbero nelle attività connesse a tali monopoli e, in particolare, ricerca e sviluppo di nuove tecnologie – perpetuando la subalternità delle periferie attive, come ha fatto Alcatel trasmutandosi in una azienda “cervello” che non produce più nulla direttamente. In tal caso, le periferie diverrebbero esportatrici di massa, e le loro eccedenze commerciali consentirebbero di trasferire ai paesi opulenti la maggior parte del plusvalore in esse prodotto. Sarebbe questa la nuova forma dell’imperialismo. Non vi è alcun dubbio che le popolazioni, e perfino le classi dirigenti, di tali periferie attive impediranno l’instaurazione di un simile apartheid su scala mondiale.

In ultima analisi, l’egemonia USA poggia più sul sovradimensionamento del loro potere militare che sui cosiddetti “vantaggi” del sistema economico (cfr. Samin Amin ¨Egemonia statunitense e crisi del progetto europeo). La questione può venir ricapitolata ponendo l’accento sul reale vantaggio politico degli USA, che cioè sono un Stato, mentre l’Europa non lo è. Quindi gli USA possono porsi come direzione indiscussa della triade, utilizzando la loro potenza militare, e la NATO da essi controllata come “gendarmeria” incaricata d’imporre il nuovo ordine imperialista contro ogni eventuale resipiscenza o riluttanza.

Vero è che questa stessa potenza militare è limitata dal fatto che l’opinione pubblica statunitense accetta solo conflitti con “zero perdite umane” dalla parte degli USA; nel frattempo, gli USA si fanno abbondantemente “pagare” per questo servizio che rendono agli interessi collettivi imperialistici (le transnazionali della triade), costringendo Europa e Giappone a finanziare il loro deficit. Può essere lusinghiero per gli europei supporre che l’Europa, come qualcuno dice, utilizzi le FFAA USA come “mercenari” al proprio servizio; ma ciò è affatto irreale: la forza militare USA serve esclusivamente ad instaurare l’egemonia statunitense. Non meno infondato il concetto secondo cui l’Europa ha preso una via che le consentirà di emanciparsi da tale dipendenza grazie alla formazione di una forza europea integrata d’intervento: senza Stato europeo non ci sarà forza militare europea. E la duplice diluizione del progetto europeo, tanto nella globalizzazione economica quanto nell’allineamento alla direzione politico-militare di Washington, a sua volta attribuibile alla mancanza di uno Stato europeo, assicura la perpetuazione dell’egemonia degli Stati Uniti.

Alcune conclusioni: il capitalismo “senile”

La crisi strutturale in cui versa il capitalismo odierno probabilmente non ha carattere di “transizione”, superabile da una nuova fase di espansione capitalistica mondiale. Anzi si ravvisano indizi di “senilità” del capitalismo e quindi della necessità obiettiva per l’umanità tutta d’imboccare la “via” del socialismo, ossia di avviare una fase di transizione prolungata, non di “edificare“ il socialismo qui o là.

Primo elemento indicatore di senilità: la portata a lungo termine della rivoluzione scientifica e tecnica in corso. Se tale rivoluzione, specie l’informatica e l’automazione che promuove, si manifesta nella possibilità di effettuare una maggior produzione materiale con meno lavoro (lavoro tuttavia sempre più qualificato), e meno capitale (investimenti fissi) allora ne va concluso che il modo di produzione capitalistico ha esaurito la propria funzione storica, giacché il capitalismo presuppone il dominio del capitale sul lavoro, dominio che verrebbe così minato.. In altri termini, i rapporti sociali capitalistici non consentono più di perseguire una continua accumulazione, che ne costituiva la funzione storica: tali rapporti sono diventati un ostacolo all’arricchimento delle società umane, e si pone quindi l’esigenza obiettiva di rapporti diversi, basati sull’abolizione della proprietà privata capitalistica, e non per “correggere” (a pro del lavoro) lo schema della ripartizione del reddito, che il capitalismo di per sé tende a rendere sempre più ineguale, ma per consentire la ripresa di una crescita della ricchezza materiale, ormai diventata impossibile sulla base dei rapporti sociali capitalistici. Cioè, il socialismo è più che mai imposto dalle esigenze obiettive del progresso della civiltà.

Secondo elemento di probabile senilità: il dominio collettivo della triade sul sistema mondiale nel suo insieme non consente più di perseguire uno sviluppo capitalistico “dipendente” delle periferie.
L’imperialismo delle fasi storiche precedenti all’espansione capitalistica mondiale si basava su di un ruolo “attivo” dei centri che “esportavano” capitali verso le periferie, per configurarvi uno sviluppo asimmetrico, appunto definibile come dipendente od ineguale; a loro volta, tali “esportazioni” certo consentivano di estrarre un plusvalore proveniente dal pluslavoro sfruttato nelle periferie, per cui il “ritorno dei profitti” poteva superare il flusso dei capitali.

L’imperialismo collettivo della triade, in particolare quello del “centro dei centri” statunitense, non funziona più così. Gli USA inglobano una cospicua quota del plusvalore generato in tutto il mondo,e la triade non è più significativa esportatrice di capitali verso le periferie. Il plusvalore che essa ingloba a vario titolo (compreso il debito dei paesi in via di sviluppo e di quelli dell’Est) non è più in contraccambio del finanziamento di nuovi investimenti industriali. Questa modalità di funzionamento del sistema imperialistico nel suo complesso assume quindi un carattere assolutamente parassitario, e pone in primo piano la crescente contraddizione tra centro e periferie, ossia tra “Nord” e “Sud” del mondo.

Congiuntamente, i due succitati elementi di senilità comportano la sostituzione di una modalità di “distruzione non creatrice” a quella precedente di “distruzione creatrice”. Infatti, nell’analisi di J. Beinstein, si ha “distruzione creatrice”, secondo la terminologia di Schumpeter, allorché al punto di partenza vi è un’accelerazione della domanda, mentre se la domanda è rallentata, la distruzione prodotta da ogni innovazione tecnologica non è più creatrice.
Oppure si può impiegare la terminologia proposta da Angie Hoogsvelt: passaggio da un capitalismo in via d’espansione (expanding capitalism) ad uno in via di contrazione (strinking capitalism).

Il sistema mondiale non è entrato in una fase “non imperialista” o “postimperialista”, anzi, si tratta di un imperialismo esasperato ed estremizzato (prelievo di plusvalore senza corrispettivi). La differenza tra questo ed il precedente imperialismo si colloca altrove, cioè nel fatto che l’imperialismo del passato era plurale (“imperialismi” confliggenti), mentre quello nuovo assume una configurazione collettiva (la triade, benché nella scia dell’egemonismo USA), donde la relativa
attenuazione dei “conflitti” tra i membri della triade, di fronte alla preponderanza del conflitto tra la triade e tutto il resto del mondo. Qui s’inquadra pure la crisi del progetto europeo di fronte all’egemonia USA.
L’analisi proposta di Toni Negri di un Impero senza imperialismo mi sembra essere solo un’infelice espressione dell’“occidental-centrismo”, il quale”dimentica” sempre che il sistema capitalistico mondiale non è riducibile ai soli centri.
La più rilevante conclusione politica è che la messa in opera delle strategie progettate dal capitale transnazionale dominante della triade richiederà un ancor maggiore intervento militare USA e NATO, con riproduzione dell’egemonia di Washington e ulteriore allineamento agli USA di Europa e Giappone. Una tale militarizzazione dell’ordine mondiale era già inequivocabile fin dal crollo dell’URSS e la guerra del Golfo, gli attentati dell’11 settembre 2001 ampliano ulteriormente questa realtà. Non si può far a meno di osservare come essi siano arrivati al momento giusto per consentire agli USA di giustificare il proprio posizionamento nell’Asia centrale ricca di petrolio, nonchè collocata in una posizione geostrategica che permette di chiudere le tenaglie su Russia, Cina ed India, obiettivo strategico dichiarato degli USA da un decennio. Così, come Saddam Hussein ha fornito il pretesto per consentire l’istallazione militare degli USA nel Golfo Persico, Osama bin Laden potrebbe nello stesso modo consentire agli USA di estendere il loro controllo militare sul’Asia centrale. E perciò stesso non si può escludere l’ipotesi di un complotto con eventuale coinvolgimento di taluni servizi della CIA. L’egemonismo USA, e nella sua scia quello della triade, è obbligato, al fine di perpetuarsi, a dar sempre maggiore importanza agli interventi militari, e di ciò bisogna rendersi ben conto.