SISTEMA BANCARIO, CONCENTRAZIONE E CENTRALIZZAZIONE DEL CAPITALE.
1. “Per gli storici futuri il fatto saliente della finanza del xx secolo sarà il rapido declino del potere del banchiere – vale a dire il ruolo sempre meno importante dell’intermediario finanziario. I banchieri sono celebrati mediatori, conduttori di flussi di capitale. Nel corso del XX secolo hanno progressivamente ceduto il loro potere ai fornitori di capitale (piccoli investitori o investitori istituzionali) da un lato e agli utilizzatori di capitale (principalmente grandi società multinazionali) dall’altro, e in questo processo il loro ruolo di intermediari all’interno del rapporto finanziario è andato declinando” (1).
Così scriveva qualche anno fa Ron Chernow, l’autore di due rinomate monografie sulle dinastie di banchieri dei Warburg e dei Morgan. Credo sia difficile trovare un’antitesi più netta alle tesi sostenute dal marxista austriaco Rudolf Hilferding ne Il capitale finanziario (1910). In quest’opera viene esplicitamente tematizzata la centralità delle banche nel capitalismo di inizio Novecento. Hilferding individua una tendenza ineluttabile alle concentrazioni monopolistiche (quindi la fine del cosiddetto “capitalismo concorrenziale”), vede un nesso inscindibile tra concentrazione dell’industria e concentrazione delle banche, e attribuisce un ruolo egemonico al capitale finanziario (nella forma specifica del dominio delle banche – del credito industriale – sull’industria) sul capitale industriale. In altri termini: sono le banche, determinanti per la sopravvivenza stessa dell’industria, ad accelerare le dinamiche di concentrazione monopolistica dell’industria stessa. Le stesse dinamiche di concentrazione valgono secondo Hilferding per le banche stesse, che diventano sempre minori di numero e sempre più grandi e potenti. Hilferding si spinse a sostenere che questa tendenza alla concentrazione delle banche avrebbe presto condotto ad un’unica “superbanca” che avrebbe assunto il controllo dell’intera economia (2). A questo punto la socialdemocrazia avrebbe potuto prendere, non il “Palazzo d’inverno”, ma il “Forziere d’inverno”, e conquistare tutto il potere, orientandolo verso principi socialisti. Come sappiamo, le cose non sono andate così: e giustamente, a questo proposito, Giulio Pietranera ha parlato di “riformismo utopistico” (3).
La teoria di Hilferding ha ricevuto molte critiche. Su un punto però non sono possibili discussioni o dubbi: la sua teoria rifletteva la particolare situazione storica e l’importanza reale che le banche avevano assunto nei primi anni del Novecento. E’ in questi anni, infatti, che trionfa in Germania (ma, come vedremo subito, non solo in Germania) il modello della cosiddetta “Banca mista”. Per seguire le vicende del capitale finanziario nel secolo XX bisogna partire proprio di qui.
2. 1900-1929: IL TRIONFO DELLA “BANCA MISTA”
La “Banca mista”, detta anche banca omnibus, o “universale” (oggi si preferisce quest’ultima definizione) assomma in sé tre diverse funzioni: a) raccoglie il risparmio dai risparmiatori (ad esempio tramite i depositi); b) esercita il credito, in due distinti sensi: fa credito commerciale (a breve termine) e credito industriale (a medio- lungo termine); c) svolge attività di banca di investimento, ossia assume partecipazioni azionarie nelle imprese (quotate e non).
Questa era la banca che Hilferding vide all’opera in Germania nel 1910. Ma possiamo ampliare il raggio di validità del modello, sia nel tempo che nello spazio.
Per quanto riguarda lo spazio, è facile constatare che il modello della Banca mista si affermò in nazioni ed aree economiche differenti: lo troviamo non solo nel Reich tedesco, ma anche in Austria, Ungheria, Svizzera, Svezia, Italia; ed anche –con qualche variante non essenziale –negli Stati Uniti.
In quest’ultimo caso l’integrazione tra banca commerciale e banca d’investimento (o d’affari), che a sua volta conduce ad uno stretto rapporto tra banca e industria, funziona in maniera formalmente un po’ diversa, essenzialmente a causa del maggiore sviluppo delle attività borsistiche, ma il punto di approdo è lo stesso: il controllo di fatto dell’industria da parte della banca. Questa, in sintesi, la variante americana: i più grossi banchieri d’affari (a cominciare da Pierpont Morgan, della banca omonima) rappresentavano gli investitori (in titoli azionari o in obbligazioni emesse dalle imprese) e in tale veste creavano “sindacati azionari” che di fatto gestivano le imprese (ad es. assumendo il controllo della maggioranza azionaria e imponendo ristrutturazioni in caso di crisi): e in tal modo non si limitavano a finanziare le imprese, ma finivano per controllare le aziende che finanziavano. Sostanzialmente lo stesso avveniva in Germania, dove i banchieri facevano credito e acquisivano partecipazioni dirette nelle imprese finanziate, sedevano nei consigli di amministrazione e ne orientavano la gestione.
Aveva quindi ragione Paul Sweezy quando osservava che, al di là delle differenze di forma, “il risultato, sia in Germania che negli Stati Uniti, …fu essenzialmente il medesimo. I finanzieri ebbero la parte principale nella promozione e, per tal via, conseguirono una posizione molto importante e, per un certo tempo, predominante nella struttura della società” (4). Il successo del modello della Banca mista durò piuttosto a lungo: si affermò tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, sopravvisse alla Prima Guerra Mondiale, ed entrò in crisi negli anni Trenta, con il pieno dispiegarsi della Grande Crisi iniziata nel 1929.
3. LA GRANDE DEPRESSIONE E LA CRISI DELLA BANCA MISTA
Non è questa la sede, ovviamente, per un’analisi dettagliata della crisi del ’29. Mi limiterò a citare un passo tratto da un libro di Napoleone Colajanni, che ne riassume con efficacia le dinamiche e le conseguenze: “L’espansione senza precedenti dell’economia americana era stata alimentata da un indebitamento progressivo delle imprese e da un boom di Borsa che alimentava la speculazione. Ingenti capitali monetari venivano rastrellati dall’- Europa, attraverso le banche, e così il vecchio continente ristagnava. La bolla infine scoppiò e le quotazioni delle azioni crollarono. Le banche che avevano anticipato fondi assumendo in garanzia i titoli furono colpite e cercarono di incassare i propri crediti verso altre banche. Così si mise in moto una reazione a catena che attraverso i rapporti finanziari internazionali provocò l’estensione della crisi in tutto il mondo”(5).
Si ebbe, di fatto, una crisi bancaria generalizzata, con fallimenti bancari a catena sia in America che in Europa. Le conseguenze sugli assetti del mondo della finanza furono di tre tipi. In primo luogo, si ebbero massicci processi di salvataggio delle banche in crisi da parte dello Stato. In secondo luogo, a causa del fallimento di molte banche si ebbe un processo di ulteriore concentrazione del sistema bancario. Infine, e soprattutto, i rapporti tra banche e imprese cominciano ad essere visti come “incestuosi” (il banchiere Mattioli parlò di “mostruosa fratellanza siamese” tra banca e industria): come spesso accade, è la crisi a rivelare che le cose non funzionano, e a questo punto si sprecano i sermoni sull’”immoralità” di quelle stesse regole su cui in precedenza nessuno aveva nulla da eccepire (6). Ad ogni modo, si decise di tagliare il nodo del rapporto tra banche e industria, separando l’attività creditizia da quella di investimento. Questo avvenne, pressoché contemporaneamente, sia negli Stati Uniti che in Europa.
Negli Stati Uniti abbiamo lo Steagall- Glass Act del 1933, una legge che separa le banche commerciali (che detengono depositi e fanno prestiti) da quelle d’affari o di investimento industriale (le investment banks, che creano, trattano e distribuiscono titoli).
In parallelo, lo Stato si assume l’onere di svolgere le funzioni di “investment banker”: lo fa attraverso la “Reconstruction Finance” (che già nel nome si ispira all’Istituto per la Ricostruzione Industriale, creato da poco in Italia) e poi, molto più incisivamente, con i programmi di riarmo (7).
D’altra parte le imprese, passata la fase acuta della crisi (durata sino alla fine anni Trenta), riescono ad auto finanziarsi in misura significativa: basti pensare che l’autofinanziamento giunge nel 1950 al 60% del fabbisogno di capitale (si tratta di una percentuale che oggi sarebbe ritenuta addirittura favolosa…). Per conseguenza, per molti anni dopo la Seconda Guerra Mondiale le banche di investimento USA hanno capitalizzazione e dimensioni molto modeste: si pensi che la Morgan Stanley nel 1962 aveva appena 7 milioni di dollari di capitale – e si confronti questa cifra con i 12 miliardi di dollari ed i 10.000 dipendenti del 1995…(8).
Il potere delle banche viene infine ridotto anche attraverso l’introduzione di obblighi di maggiore trasparenza relativamente ai titoli collocati presso la clientela: il provvedimento di legge relativo (il Securities Exchange Act) viene assunto nel 1934; esso però era destinato a dispiegare i suoi effetti solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche perché solo nel dopoguerra i volumi trattati tornarono ad essere confrontabili con quelli anteriori al crollo del 1929 la Borsa di Wall Street (9).
Anche in Italia la crisi, esplosa nel 1930, investe direttamente il rapporto banca-industria: infatti, in presenza di fallimenti industriali a catena, l’immobilizzazione di capitali delle banche nelle imprese si rivela eccessiva e provoca una crisi bancaria sistemica. Il Banco di Roma è in crisi sin dalla fine degli anni Venti. Nel 1930 è il Credito Italiano a trovarsi sull’orlo del fallimento. Nel 1931 è la volta della Banca Commerciale. La crisi delle banche è tale che rischia di travolgere la stessa Banca d’Italia. Anche in Italia si decide perciò di recidere il legame tra banca e industria.
Viene creato l’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), che rileva le 3 banche in crisi; queste cedono all’IRI tutti i titoli di proprietà e i crediti immobilizzati nelle imprese, ricevendo in cambio le somme necessarie a ricostituirne la liquidità. Però d’ora in avanti sono vincolate ad esercitare solo il credito ordinario (cioè non il credito industriale, e neppure l’attività di banca d’investimento).
A questo nuovo assetto fu data una sistemazione di lungo (anzi lunghissimo) periodo con la Legge bancaria del 1936. Questa legge prevedeva: a) separazione tra banca e industria (divieto di assumere partecipazioni azionarie nelle imprese); b) specializzazione funzionale delle banche, ossia la distinzione tra il credito ordinario (credito a breve termine) e il credito industriale (a medio-lungo termine): in concreto, una banca che esercitasse il credito ordinario non poteva esercitare quello industriale, e viceversa; c) la “regionalizzazione” delle banche stesse (10).
Si afferma così il modello della banca specializzata, che prevede una netta separazione: da una parte, tra attività di prestito e attività in titoli; dall’altra tra prestito a breve e prestito a medio-lungo termine.
L’attività di prestito a medio-lungo termine viene attribuita all’Istituto Mobiliare Italiano (IMI). Ad esso dopo la Seconda Guerra Mondiale si aggiunse il sistema dei Mediocrediti regionali, che aveva il suo fulcro nell’Istituto centrale per il credito a medio termine alle medie e piccole industrie (Mediocredito Centrale), fondato nel 1952 (11).
Per quanto riguarda l’attività in titoli (ossia l’assunzione di partecipazioni azionarie dirette in grandi imprese), a tale scopo nel 1947 viene fondata Mediobanca, creata d’intesa tra le tre “banche di interesse nazionale”, cioè la Banca Commerciale, il Credito Italiano ed il Banco di Roma.
E’ importante osservare che questo modello è durato per quasi 60 anni. Poi, negli anni Novanta, la banca universale è risorta. Anche in questo caso, si tratta di un processo avvenuto contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti.
4. GLI ANNI NOVANTA: LA RIVINCITA DELLA BANCA MISTA
In Europa le acque cominciano ad agitarsi alla fine degli anni Settanta. Nel 1977 viene emanata la Prima direttiva bancaria della CEE. In essa viene affermato il “carattere di imprenditorialità” dell’attività bancaria (contro la natura pubblicistica degli istituti di credito, che caratterizzava all’epoca gran parte delle banche europee).
Anche per l’Italia, è questa direttiva a porre le premesse per processi di despecializzazione operativa (convergenza tra le diverse funzioni che erano state separate dalla Legge Bancaria del 1936), di aumento della concorrenza (contro la regionalizzazione e le limitazioni al numero di sportelli) e di privatizzazione delle banche, allora quasi tutte in mano pubblica.
Questi processi conoscono una prima accelerazione con la Legge Amato del 1990. Questa Legge ha tre principali effetti sul sistema bancario: a) opera la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni (è il primo passo verso la loro privatizzazione), pur mantenendo il vincolo della proprietà pubblica al 51%; b) prevede agevolazioni fiscali per le operazioni di fusione tra le banche, promuovendo così il processo di concentrazione del settore; c) introduce nell’ordinamento il gruppo polifunzionale.
Con il gruppo polifunzionale la “banca mista” rientra, sia pure in maniera dapprima incerta e sotto mentite spoglie, nel nostro ordinamento. Questo è chiaro già leggendo la definizione che del gruppo polifunzionale è stata data: “istituzione finanziaria composta da una pluralità di aziende, sottoposte a una direzione strategica accentrata, che svolgono sistematicamente attività di intermediazione creditizia e mobiliare e attività strumentali ad esse connesse” (12) L’”incertezza” è rappresentata dal fatto che si parla di “una pluralità di aziende”, e non ancora di un’unica impresa.
Comunque sia, entro pochi anni (con la Legge bancaria in vigore dal 1° gennaio 1994) si giungerà alla banca universale. “Banca universale” è quella banca che offre, “nell’ambito della stessa unità giuridica, ogni tipo di prestazione bancaria e l’intera gamma dei prodotti finanziari” (13). È la vecchia banca mista, con un nome diverso. Ormai, rispetto alle banche di prima del 1929, resta una sola – non essenziale – distinzione: la nuova banca universale prevede la limitazione al 15% del tetto di possesso del capitale di imprese non finanziarie da parte di una singola banca (o gruppo bancario).
Negli anni Novanta i vincoli normativi contro la banca mista non sono caduti soltanto in Italia, ma in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, è del 1999 la formale abrogazione dello Steagall-Glass Act, che però in realtà era lettera morta da almeno due anni: nel 1997, infatti, le autorità americane avevano consentito la fusione della banca d’affari Morgan Stanley con la Dean Witter, specializzata nell’intermediazione al dettaglio. Questa fusione è importante perché segnala la convergenza tra l’attività di investment banking, l’attività di intermediazione al dettaglio (quella, insomma, della classica banca commerciale), ed anche l’attività assicurativa. Sulle implicazioni di questo processo di aggregazione tornerò più avanti.
5. L’APPARENZA: DISINTERMEDIAZIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA DEI PICCOLI INVESTITORI
Quanto abbiamo visto sembra dare ragione a Hilferding: la “banca mista” è tornata in auge, anche se con un diverso nome. Però potrebbe essere una vittoria di Pirro. Questa, almeno, è la tesi dello scritto di Chernow da cui siamo partiti, secondo cui sarebbe in atto un marcato processo di disintermediazione. Le banche sono tradizionalmente gli intermediari tra il risparmio e gli investimenti. La disintermediazione si ha quando questi due poli si connettono direttamente, senza passare per le banche. Questo è ciò che avviene quando io, invece di tenere i soldi su un conto corrente, compro delle azioni, oppure sottoscrivo un’obbligazione emessa da un’impresa. Lo stesso avviene se i miei soldi, anziché tenerli sul conto corrente, li investo attraverso un fondo comune di investimento. Quando avviene questo, le banche perdono potere, a beneficio dei risparmiatori/ investitori da un lato, e degli imprenditori dall’altro; del resto, nel modello delle public companies (società ad azionariato diffuso), imprenditore ed investitore finirebbero con l’essere assimilabili: ed il piccolo azionista potrebbe determinare il migliore indirizzo dell’impresa, comprando più azioni se le cose vanno bene e vendendole (e facendo cacciare i manager) in caso contrario. Insomma: non una semplice rivincita del piccolo investitore sulle banche, ma un vero e proprio trionfo, dagli importanti risvolti sociali. Che ispira a Chernow toni a dir poco lirici: “ in quest’ultima generazione il piccolo investitore si è evoluto in modo impressionante da piccolo giocatore e paria a struttura portante [!] dei mercati finanziari globali… Uniti nei fondi comuni… gli umili hanno finalmente ereditato la terra finanziaria” (14).
La tesi della disintermediazione ha apparentemente una solida base di evidenza empirica: nella seconda meta degli anni Novanta si sono effettivamente verificati (in Italia come altrove) un forte calo dei depositi bancari, e una forte crescita della raccolta dei fondi comuni. Si tratta effettivamente di fenomeni di rilievo. Però non hanno il significato che Chernow e molti altri attribuiscono loro. In primo luogo, in tutte le fasi in cui si produce una bolla speculativa (e quella che è finita nel marzo 2000 era “la madre di tutte le bolle”), aumenta la propensione all’investimento diretto anche da parte dei piccoli risparmiatori: in fasi del genere molto denaro, prima depositato nei conti correnti, viene investito nei mercati finanziari (15) Il contrario avviene quando la bolla speculativa scoppia: ed è esattamente quanto è avvenuto negli ultimi anni. Ma c’è un motivo più di fondo per cui non è possibile essere d’accordo con gli apologeti della disintermediazione. Perché sono in gran parte sbagliati i presupposti di chi sostiene che gli intermediari abbiano ceduto potere ai singoli investitori, dando vita ad un’inedita forma di “democrazia economica”. Vediamo perché.
6. LA REALTÀ: CONCENTRAZIONE E CENTRALIZZAZIONE DEI CAPITALI
a) Il ruolo chiave giocato dagli investitori istituzionali e dai conglomerati finanziari. Negli investimenti sui mercati finanziari sono gli investitori istituzionali (fondi pensione, società di assicurazione, grandi banche di investimento, ecc.), e non certo il piccolo investitore, a condurre il gioco. La sfida è quella di mobilitare enormi masse di capitale monetario per investimenti da effettuare da un angolo all’altro del pianeta. A questo servono i grandi conglomerati finanziari, in cui non a caso le assicurazioni (che possono attingere al risparmio pensionistico) giocano un ruolo sempre maggiore. L’affermarsi dei “conglomerati finanziari”, ossia gruppi che hanno in sé tutte le funzioni di banca, di società finanziaria, di società assicurativa, è uno dei processi di maggiore importanza di questi ultimi anni. Questi conglomerati sono gli investitori istituzionali per eccellenza. E va notato che sino a pochi mesi fa sfuggivano, proprio per la loro (inedita) natura che integra le funzioni di banca, assicurazione ed attività di intermediazione mobiliare, alle stesse direttive bancarie europee (16). Per quanto riguarda l’Europa, il più significativo è quello imperniato sulla società assicuratrice Allianz, che ha acquisito una delle principali banche tedesche, la Dresdner Bank. Ma anche le recenti manovre nell’azionariato delle Assicurazioni Generali rientrano in questo quadro, in quanto rappresentano un tentativo, da parte delle principali banche italiane, di “tenere a bada” il colosso assicurativo italiano, controllandone i movimenti.
b) La concentrazione del controllo cresce. Se non è vero che sia il singolo investitore a menare le danze, tanto meno si può sostenere che oggi la proprietà, e – soprattutto – il controllo delle società siano meno concentrati di un tempo. Qui bisogna fare attenzione: il fatto che la proprietà sia sempre meno identificabile con una specifica persona fisica (il grande capitalista monetario alla Rothschild o alla Morgan, il grande capitalista industriale alla Ford, ecc.) non significa affatto che i titoli capitalistici di proprietà non esistano più, e non significa neppure che essi non siano saldamente concentrati. Al contrario: la tendenza alla concentrazione del controllo (che è l’aspetto decisivo) è forse ancora più forte nel cosiddetto “modello anglosassone della public company” di quanto avvenga nel cosiddetto “modello continentale” (caratterizzato da uno o pochi proprietari con quote azionarie di rilievo). E in effetti è stato rilevato che nel mercato azionario inglese “la proprietà è solo apparentemente diffusa”, e che “in realtà pochi grandi conglomerati finanziari e assicurativi, raccogliendo le attività (e quindi i voti) dell’80% dei fondi pensione e di gran parte dei fondi minori e dei fondi esteri, di fatto hanno la possibilità di esprimere, attraverso veri e propri ‘oligopoli del controllo’, una ‘voce’ influente sull’intero sistema delle compagnie quotate inglesi”. In definitiva, “anche nella patria del capitalismo popolare un gruppo ristretto di grandi istituzioni finanziarie controlla, con un impegno finanziario relativamente modesto, una larga parte del sistema della proprietà delle imprese quotate”. Tanto che i primi 50 manager dei fondi di investimento (soprattutto le società di assicurazione) controllano di fatto – direttamente o attraverso le deleghe di voto – oltre l’85% del mercato azionario inglese (17). Si noti l’inciso “con un impegno finanziario relativamente modesto”. Questo è possibile p recisamente a causa del frazionamento dell’azionariato, che consente di controllare una società anche con pacchetti azionari relativamente piccoli. Pertanto, la presunta “democrazia del piccolo investitore” si rovescia nel suo contrario, e si rivela come lo strumento attraverso cui il grande capitale riesce a controllare anche società quotate di imponenti dimensioni con una soglia di possesso azionario ben inferiore al 51% del totale delle azioni. Ora, non si vede quale differenza sostanziale esista tra l’influenza che un odierno fondo di investimento inglese riesce ad esercitare su una società di cui detiene una quota azionaria e quella dei “sindacati azionari” di Morgan.
c) La via italiana alla concentrazione del controllo. Vale la pena di spendere qualche parola anche sulla variante italiana della concentrazione del controllo societario. Va detto, intanto, che in Italia la proprietà è già di per sé molto concentrata. Come ha ricordato nel 2002 Luigi Spaventa, all’epoca Presidente della Consob (l’organo di vigilanza delle società quotate in borsa), “nel 60 per cento delle società quotate in borsa un socio ha la maggioranza assoluta; nella media ponderata, la quota del primo azionista è risalita oltre il 42 per cento; il flottante [ossia la quantità di titoli di una società che sono effettivamente scambiati in borsa e non stabilmente posseduti da un socio] è diminuito” (18). Ma non è tutto: ci sono gruppi (industriali o, più spesso, finanziari) che controllano le società quotate pur senza possederne neppure lontanamente la maggioranza delle azioni. Come è possibile questo miracolo? Con un trucchetto che lo stesso Spaventa ci spiega: “l’esercizio del controllo con un impegno più modesto nella proprietà viene sovente ottenuto ricorrendo a lunghe e complicate strutture piramidali” (19).
È il sistema delle scatole cinesi: io sono padrone di una società non quotata in borsa, che a sua volta possiede il 51% di un’altra società non quotata; questa società possiede a sua volta il 51% di una piccola società quotata in borsa; quest’ultima ha in portafoglio il 29,9% di un’altra società quotata, ecc. In questo modo è possibile la concentrazione del controllo anche di molte società senza che ci sia la concentrazione della proprietà. Con questo sistema gli Agnelli hanno il controllo della Fiat, Tronchetti Provera di Pirelli e di Telecom (20). In questo contesto, quale ruolo giocano i risparmiatori, i piccoli investitori che dovrebbero costituire il pilastro vitale della nuova democrazia economica? Il ruolo di mettere i soldi nella società e di rendere possibile agli azionisti di controllo di… controllarla senza doverla possedere. È interessante notare che, anche in questo caso, non vi è nulla di nuovo sotto il sole. Tant’è vero che lo stesso fenomeno nel 1916 fu osservato da Lenin, che ne trasse le seguenti conclusioni: “La ‘democratizzazione’ del possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti ‘pseudo-socialdemocratici’ si ripromettono (o fingono di ripromettersi) la ‘democratizzazione del capitale’ l’aumento di importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia finanziaria” (21)
d) Le banche controllano le società di gestione del risparmio. Quanto sopra ci insegna che il potere dei piccoli investitori non è affatto aumentato negli ultimi anni. In compenso, quello degli intermediari non è affatto diminuito. Questo per due motivi. Il primo è che, come abbiamo visto più sopra, gli investitori istituzionali (che sono comunque a tutti gli effetti intermediari tra il risparmio e l’investimento!) hanno sulle società un potere non inferiore a quello dei capitalisti industriali tradizionali. Il secondo motivo è che a loro volta questi investitori istituzionali sono controllati dalle banche (sia nella forma tradizionale di gruppi bancari che di conglomerati finanziari). In Italia, in particolare, le banche, direttamente o indirettamente, controllano in massima parte le società che gestiscono il risparmio: in questo modo, la quota del risparmio finanziario gestita dal sistema bancario si attesta oggi ben oltre il 90% (22).
e) I processi di concentrazione nel settore bancario e finanziario. Per avere un’idea dell’entità di questo fenomeno basteranno pochi dati: dal 1990 al 2000 sono state effettuate nel mondo 7.500 fusioni e acquisizioni tra banche, del valore di 1.600 miliardi di dollari; questo processo ha avuto una notevole accelerazione all’interno del periodo considerato, ed in particolare negli ultimi 3 anni (23); per quanto riguarda l’Italia, infine, basterà ricordare che dal 1987 al 2000 il numero delle banche è sceso da 1.200 a 864; e, soprattutto, che si sono formati 4 gruppi che da soli hanno il controllo del 50% del mercato del credito. Roba da fare impallidire Hilferding…
Se si chiede a un “esperto” del set-tore quale sia il movente di questa intensa attività di fusioni e acquisizioni, si otterrà invariabilmente questa risposta: per conseguire “guadagni di efficienza”. Una ricerca condotta nel 2000 dalle banche del G-10 ha posto in luce che il movente più plausibile è un altro: quello dell’”aumento del potere di mercato” (quest’ultima è una locuzione eufemistica a cui si fa ricorso per evitare anche solo di pronunciare espressioni disdicevoli quali “monopolio” e “rendita monopolistica”) (24).
Si tratta in ogni caso di un fenomeno di portata internazionale. Così, secondo dati del FMI (2001) in Europa “il sistema finanziario è in mano ad un numero ristretto di grandi banche: nella maggior parte dei casi i 5 maggiori istituti gestiscono più del 50% degli assetti totali”. Se poi ci volgiamo a considerare il settore dell’investment banking, vediamo che quanto a concentrazione la situazione è ancora peggiore: basti pensare che le “tre grandi” (Morgan Stanley, Goldman Sachs e Merrill Lynch) gestiscono il 50% delle quotazioni in borsa, il 30% delle emissioni obbligazionarie, e il 75% delle fusioni e acquisizioni transnazionali. Questo ci conduce ad un aspetto cruciale del processo di concentrazione nel settore bancario- finanziario-assicurativo: esso è un fattore chiave della concentrazione nel settore industriale. Questo era vero ai tempi di Hilferding. Ed è ancora più vero oggi.
7. CAPITALE FINANZIARIO E IMPERIALISMO NELLA FASE ATTUALE
Per verificare punti di contatto e differenze tra la fase storica attuale e quella che diede origine alle prime riflessioni sulla centralità del capitale finanziario, c’è un modo molto semplice: riprendere l’opera a carattere divulgativo che Lenin scrisse su questi temi e che intitolò L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. In essa, Lenin individuò dapprima la caratteristica di fondo della fase imperialistica del capitalismo nella centralità assunta dai monopoli nell’economia: “se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo” (25). Lenin però non si limitò a questa definizione e, dopo aver richiamato “il valore convenzionale e relativo di tutte le definizioni”, propose “cinque principali contrassegni” che a suo avviso dovevano essere contenuti nella definizione di “imperialismo”. Eccoli:
1. la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2. la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria; 3. la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4. il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5. la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.” (26).
La questione che ci interessa è la seguente: questi 5 aspetti hanno oggi perso la loro validità o possono essere ravvisati anche nella fase attuale? Vediamo.
Prima caratteristica: La concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica. A questo riguardo è facile constatare che stiamo attualmente assistendo ad un processo di concentrazione tra le imprese che non ha eguali in nessun altro momento della storia del capitalismo, né per numero di imprese coinvolte da processi di fusione e acquisizione (M & A), né per il loro valore, né quanto alla portata transnazionale delle concentrazioni. Spettacolare, in particolare, l’incremento del volume totale di queste transazioni negli anni Novanta: 500 miliardi di dollari nel 1990, 2.500 miliardi di dollari nel 1998, 5.000 nel 2000. Lo scoppio della bolla speculativa ha temporaneamente rallentato questo processo. Ma l’attuale crisi di liquidità di molte aziende (sia tradizionali che del settore hi-tech) prepara un’ulteriore ondata di fusioni. Quanto al fatto che i monopoli abbiano una “funzione decisiva nella vita economica”, sarà sufficiente ricordare pochi dati riferiti alla zona Euro: tra le 274 principali multinazionali mondiali, le 18 tedesche nel 2001 hanno fatturato 737 miliardi di euro; le 24 francesi, 478 miliardi di euro; le 15 italiane, 170 miliardi di euro (27).
Questo processo di concentrazione (e centralizzazione) della produzione e del capitale, come aveva già osservato Karl Marx, non è una patologia transitoria, ma, al contrario, una tendenza immanente al modo di produzione capitalistico. “Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico – scriveva Marx – cresce il volume minimo del capitale individuale, necessario per far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali”: infatti, “contemporaneamente alla caduta del tasso di profitto, aumenta il volume minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera produttiva del lavoro” (28).
E oggi? “L’omogeneizzazione dei mercati mondiali ha determinato in molte industrie un sostanziale aumento delle economie di scala e un incremento delle dimensioni minime di investimento. […] Tutto ciò richiede di norma risorse finanziarie eccedenti quelle aziendalmente disponibili per la crescita […]. In tal modo il mercato internazionale dei capitali diviene il vero giudice del merito e della fattibilità delle strategie e dei progetti di impresa. Per l’Europa continentale ciò significa sottrarre il giudizio sulla condotta delle imprese ai gruppi di controllo che l’avevano tradizionalmente esercitato in modo esclusivo” (29).
Le ultime parole, in particolare, esprimono in maniera esemplare il nesso tra concentrazione e centra-lizzazione dei capitali da un lato (in una parola: formazione dei monopoli) e “finanziarizzazione” dall’altro. Siamo al “secondo contrassegno” della definizione di imperialismo di Lenin.
Seconda caratteristica: la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario, di un’ oligarchia finanziaria. Che “la fusione” – o, come preferiva dire Bucharin, “simbiosi” – del capitale bancario col capitale industriale” sia un fatto ce lo dicono le percentuali delle partecipazioni detenute dalle assicurazione e dalle banche tedesche in imprese industriali del Paese economicamente più importante dell’Unione Europea. Ad esempio, la sola Allianz all’inizio del 2001 aveva 29 partecipazioni industriali, del valore di oltre 51 miliardi di dollari, tra cui Beiersdorf, Basf, Bayer, Siemens. Ad esse, dopo la fusione con Dresdner, si sono aggiunte le 10 partecipazioni di quest’ultima, del valore di 19 miliardi di dollari, tra cui Continental e BMW. Sempre all’inizio del 2001, il valore complessivo delle partecipazioni in mano alle 10 società finanziarie più importanti della Germania ammontava a 170 miliardi di dollari.
In Italia le cose non sono sostanzialmente diverse: i principali gruppi bancari hanno oggi partecipazioni significative (perlopiù assunte di comune accordo) in tutte le più importanti imprese manifatturiere e dei servizi del nostro Paese. Tanto che a questa situazione il settimanale economico il Mondo ha dedicato una copertina dal titolo esplicito: I sei banchieri padroni d’Italia (30). Non solo: in questi ultimi anni vi è stato – a motivo della crisi che ha investito numerose imprese – un rafforzamento di questi rapporti di partecipazione e controllo. Insomma, appare difficile negare che il panorama economico sia a tutt’oggi – e in misura crescente – caratterizzato dal dominio del capitale finanziario (31). “Dominio” che oggi si esprime non solo e non tanto attraverso l’erogazione del credito, ma per mezzo dell’acquisizione di partecipazioni azionarie e nell’attività di advisory per operazioni transnazionali di fusione e acquisizione tra imprese. A quest’ultimo proposito basterà ricordare che la sola Morgan Stanley Dean Witter, nel 2000, ha fatto attività di advisory per operazioni di M&A di un valore totale superiore ai 1.000 miliardi di dollari (32).
Terza caratteristica: la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci. Non è un mistero per nessuno che i flussi finanziari internazionali siano oggi un multiplo (e per giunta elevato) dei flussi commerciali. Basti pensare che già nel 1998 il movimento giornaliero di capitali a livello mondiale si aggirava intorno ai 2000 miliardi di dollari: ora, solo 1/50 o addirittura 1/100 di questa cifra (a seconda della stime) si riferiva a scambi di merci. Non meno impressionante è la progressione di queste cifre, calcolate su base trentennale. Le transazioni finanziarie mondiali giornaliere nel 1970 erano pari a 10-20 miliardi di dollari; nel 1980 a 80 miliardi di dollari; nel 1990 a 500 miliardi di dollari (33). Ma veniamo ai motivi dell’esportazione dei capitali. La spiegazione data a questo fenomeno nel 1929 dal marxista Henryk Grossmann è talmente calzante (e attuale) che tanto vale riproporla tal quale: “I paesi più importanti hanno raggiunto un alto livello dell’accumulazione, in cui la valorizzazione del capitale accumulato incontra sempre maggiori difficoltà… Il capitale privo di investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’estero con l’esportazione di capitale, sia all’interno con la speculazione di borsa, canali appropriati ad assicurarne la valorizzazione”. E già Lenin aveva affermato: “la necessità dell’esportazione del capitale è creata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato ‘più che maturo’ e al capitale …non rimane più campo per un investimento redditizio” (34).
Quarta caratteristica: il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo. Anche in questo caso, la situazione ci mostra una conferma (ed un rafforzamento) della tendenza evidenziata da Lenin. I processi di concentrazione sono talmente imponenti che hanno dato vita a transnazionali per le quali le stesse autorità Antitrust di un singolo Paese risultano totalmente inefficaci. Ed anche gli Antitrust più potenti (quelli degli USA e dell’UE) spesso scendono a miti consigli, soprattutto in questi tempi di crisi: basterà ricordare il procedimento aperto negli Stati Uniti contro la Microsoft, conclusosi sostanzialmente con un nulla di fatto.
Quinta caratteristica: la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. La ripartizione del globo terrestre tra le più grandi potenze imperialistiche è oggi inequivocabile. Quanto al carattere necessario della battaglia per tale ripartizione, è difficile negare l’attualità di quanto Lenin affermava a proposito delle colonie: “quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie”(35). Il problema, semmai, riguarda l’identificazione degli attori di questo processo.
A questo proposito è utile fissare qualche punto, per meglio caratterizzare la fase attuale dell’imperialismo.
a) Le più grandi potenze capitalistiche oggi non sono identificabili con gli stati. Ma non nel senso che gli stati non contino più nulla: nel senso che essi tendono ad unirsi in coalizioni regionali, legate da accordi economici esclusivi, da politiche economiche in qualche modo coordinate da una comune moneta di riferimento. (36)
b) L’aspetto dell’egemonia valutaria è essenziale per capire le attuali forme di dominio imperialistico e di conflitto interimperialistico. I conflitti interimperialistici oggi non hanno più luogo tra nazioni, ma tra aree valutarie. Queste ultime hanno carattere sovranazionale, e il loro riferimento geografico è solo grosso modo coincidente con un insieme di stati confinanti tra loro (37). L’equivalente odierno delle vecchie politiche di “contenimento” esercitate da un paese imperialista contro l’espansione territoriale di un altro paese imperialista è quindi rappresentato dalle iniziative volte ad impedire l’espansione di un’area valutaria. E i mezzi attraverso cui questo obiettivo viene oggi perseguito non sono meno violenti di quelli di un tempo. Questo è vero non soltanto nel senso che ogni crisi finanziaria ed economica fa molte vittime; è vero anche nel senso che per impedire l’espansione di un’area valutaria concorrente si può fare ricorso – oggi come ieri – alle armi in senso proprio. E’ possibile dimostrare che proprio l’intendimento di contenere l’espansione dell’euro in Medio Oriente, oltre a quello di scongiurare l’effettuazione dei pagamenti di petrolio in euro anziché in dollari, abbiano rappresentato i moventi fondamentali della guerra all’Irak.(38).
c) Se quanto sopra è vero, oggi abbiamo 3 principali blocchi imperialistici che si fronteggiano, e che corrispondono alle aree valutarie del dollaro, dell’euro e dello yen. Particolarmente virulento è oggi lo scontro tra dollaro ed euro, in quanto quest’ultima valuta sta erodendo il primato del dollaro come valuta internazionale di riserva: primato assolutamente cruciale in quanto consente agli USA di avere una bilancia commerciale in passivo da quasi trent’anni. Ossia di vivere al di sopra dei propri mezzi e a spese del resto del mondo.
8. CONCLUSIONI
Da quanto precede non sembra si possa trarre la conclusione di una perdita di peso e di significato del “capitale finanziario” nell’odierna fase di sviluppo della società capitalistica. Al contrario. La novità più significativa, in questo quadro, è semmai quella offerta dall’affermarsi dei “conglomerati finanziari”, che concentrano in sé tutte le funzioni di banca, di società finanziaria e di società assicurativa.
Questo mutamento morfologico non comporta alcuna novità dal punto di vista funzionale né rispetto alle teorie classiche sull’imperialismo, né rispetto a quanto già Marx aveva posto in luce. In particolare, non ha perso nulla della sua validità quanto Marx affermava in relazione al “sistema creditizio” (certamente da intendersi come un concetto che include “non solo le banche, ma anche gli organismi dell’intero mercato finanziario”, come puntualizzò Pietranera (39)), sistema inteso come “disposizione del capitale altrui” e come “immenso meccanismo sociale destinato a centralizzare i capitali”. Del pari, di perdurante attualità risultano le riflessioni leniniane sulle caratteristiche della fase imperialistica del capitalismo, ed in particolare sul nesso tra crisi dell’accumulazione, concentrazioni monopolistiche e centralità del capitale finanziario.
“I capitalisti”, osserva Lenin, “si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti.
E la spartizione si compie ‘proporzionalmente al capitale’, ‘in proporzione alla forza’, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione.
Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. Per capire gli avvenimenti, occorre sapere quali questioni siano risolte da un mutamento di potenza; che poi tale mutamento sia di natura ‘puramente’ economica oppure ‘extraeconomica’ (per esempio militare), ciò, in sé, è questione secondaria, che non può mutar nulla nella fondamentale concezione del più recente periodo del capitalismo” (40).
Note
1 Ron Chernow, Il tramonto del banchiere. Dal declino delle grandi dinastie finanziarie al trionfo del piccolo investitore [ma il titolo originale era The Death of the Banker], 1997; tr.it. 1998, Milano, Il Sole 24 Ore, pp. 10-11.
2 “Questa ‘banca centrale’ eserciterà quindi il controllo su tutta l’intera produzione sociale”: R. Hilferding, Il capitale finanziario, 1910; tr.it. Milano, Feltrinelli, 1961, p. 280. 3 G. Pietranera, “Il pensiero economico di Hilferding e il dramma della socialdemocrazia tedesca”, in Il capitalismo monopolistico finanziario, a cura di N. Bellanca e G. Pala, Napoli, La Città del Sole, 1998, p. 205.
4 P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, tr.it. Torino, Einaudi, 1951, p. 332.
5 N.Colajanni, Storia della banca in Italia da Cavour a Ciampi, Roma, Newton Compton, 1995, p. 50.
6 A questo riguardo l’attualità offre una ricca messe di esempi. Il fallimento Enron, ad es., ha messo in evidenza in un colpo solo: le truffe colossali costruite da un management onnipotente, la connivenza tra società di revisione e società controllate, i limiti dei principi contabili USA (così dettagliati da essere facilmente aggirabili…), l’assoluta irrazionalità economica dell’investimento dei fondi pensione dei lavoratori in azioni della loro stessa azienda, gli effetti perversi dell’orientamento esclusivo a risultati economici di breve periodo, ecc. ecc. Sugli insegnamenti del caso Parmalat rinvio a N. Nesi, “Scandalo Parmalat”, l’ernesto, 1/2004, ed al mio “ Parmalat”, la Contraddizione, n. 101, 2/2004.
7 P.M. Sweezy, op.cit., p. 193. Non si ripeterà mai abbastanza che soltanto attraverso la Seconda Guerra Mondiale, e non attraverso i mitizzati investimenti in infrastrutture di Roosevelt, gli Stati Uniti usciro n o dalla crisi del 1929.
8 R. Chernow, op.cit., p. 70.
9 Lo stesso vale per le quotazioni di Borsa, che soltanto nel 1954 tornarono ai livelli del 1929. E’ questo il motivo per cui i buontemponi che vogliono magnificare la superiorità “nel lungo periodo” dell’investimento azionario assumono un orizzonte di investimento di 25/30 anni…
10 Per cui, ad es., il Banco di Napoli non poteva aprire sportelli in Sicilia, ed il Banco di Sicilia non poteva aprirne in Campania.
11 Inoltre BNL creò Efibanca, e le banche popolari Centrobanca.
12 G. Roma, I controlli sull’attività bancaria, Roma, Edibank, 1999, p. 27.
13 G. Roma, op.cit., p. 30.
14 R. Chernow, op.cit., p. 12; ma brani di intonazione simile si trovano anche in altre parti del libro. Nonché nella gran parte della pubblicistica dei tardi anni Novanta. Per quanto riguarda specificamente l’Italia, va aggiunto che l’investimento borsistico è stato, per molti piccoli risparmiatori, un passo quasi obbligato. Infatti nel corso dell’ultimo decennio uno dei tradizionali beni di investimento dei risparmiatori italiani, ossia i BOT, ha perso praticamente ogni attrattiva; inoltre nei primi anni Novanta il (primo) Governo Amato ha imposto una tassa del 27% sugli interessi dei conti correnti, a fronte di una tassa di appena il 12,5% sui guadagni da investimenti borsistici. Altro che “spontaneità del mercato” e “libertà del consumatore/risparmiatore”! In questo modo ingenti quantità di risparmio privato in fuga dal debito pubblico sono state spinte a riversarsi nei mercati di borsa.
15 La Commissione Europea ha emanato solo di recente (16/12/2002) la Direttiva 2002/87, relativa alla vigilanza supplementare sugli enti creditizi, sulle imprese di assicurazione e sulle imprese di investimento appartenenti ad un conglomerato finanziario.
16 Vedi G.M. Gro s – Pietro, E. Reviglio, A. Torrisi, Assetti proprietari e mercati finanziari europei, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 112-4.
17 Consob, Incontro annuale con il mercato finanziario, Discorso del presidente Luigi Spaventa, Milano, 8 aprile 2002, p. 10.
18 Ivi, p. 11.
19 In questo modo, rileva M. Mucchetti in un suo recente libro, “la famiglia Agnelli governa su un impero che vale cento rischiando di tasca propria, in proporzione, non più di dodici” (Licenziare i padroni?, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 52).
20 V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916; tr.it. in Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma, 1977, p. 535.
21 P. Ciocca, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 20.
22 Dati citati da R.W. Ferguson jr. , “Understanding Financial Consolidation” (pp. 2-3) e da D. Clementi, “Recent developments in financial markets: some implications for financial stability” (p. 1), nei loro interventi alla International Banking and Financial Systems Conference, Roma, 9 marzo 2001.
23 Ne Il processo di consolidamento nel settore finanziario. Summary Report (gennaio 2001) si legge che “gli studi empirici suggeriscono che le fusioni possono forn i re l’opportunità di incrementare i ricavi attraverso aumenti di efficienza o un rafforzamento del potere di mercato” (tr.it. a cura della Banca d’Italia, p. 21). Poi però R.W. Ferguson jr., nell’esporre in sintesi i risultati della ricerca, afferma (eufemisticamente) che “the overall evidence in favor of efficiency gains is weak”: “Understanding Financial Consolidation”, cit., p. 10. Nella stessa sede il governatore della Banque de France, J.-C. Trichet ha motivato le fusioni del settore con “la ricerca di un potere di mercato e/o di economie di scala”; poi ha aggiunto: “noi dobbiamo essere coscienti di certi pericoli derivanti da questa rincorsa della dimensione (course à la taille), la cui logica ultima [sic!] sare b b e quella di dar vita ad un oligopolio” (“L’évolution récente du système financier international et ses répercussions sur l’efficacité et la stabilité des intermédiaires et des marchés”, pp. 6 e 12, corsivi miei).
24 V.I. Lenin, op.cit., p. 571.
25 V.I. Lenin, op.cit., p. 571. E’ interessante notare che nella caratterizzazione leniniana dell’imperialismo l’aspetto politico (o politicomilitare) gioca un ruolo assolutamente marginale e comunque derivato: quella di “imperialismo” è insomma una categoria economica e non politica.
26 Cfr. R & S, Multinationals: Financial Aggregates (274 Companies). 2002 edition, Milano, 2003.
27 K. Marx, Il capitale, l. III, cap. 15, par.
28 Da questo discende la necessità, notata da Henryk Grossmann nel 1929, che “parte crescente del capitale sociale complessivo rimanga nella forma di denaro, come capitale monetario, per la continuità del processo di riproduzione”.
29 G.M. Gros-Pietro, E. Reviglio, A. Torrisi, op.cit., p. 347 (corsivi nostri). E’ appena il caso di notare come il passo citato riprenda di fatto (poco importa se consapevolmente o meno) l’analisi marxiana.
30 Numero del 9 maggio 2003. Non meno chiaro il sottotitolo: “Unicredito, Intesa, Sanpaolo IMI, Capitalia, MPS e BNL controllano grande industria e finanza”.
31 Lenin, op. cit., p. 533.
32 The Economist, 13 gennaio 2001.
33 L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 17 e 111.
34 Lenin, op. cit., p. 548.
35 Lenin, op. cit., p. 566.
36 Non credo sia fuori luogo porre in parallelo questo ampliamento della dimensione statuale ad un livello sovranazionale con i giganteschi processi di concentrazione monopolistica che hanno luogo tra le imprese.
37 Ad esempio, molti dei cosiddetti Territori d’Oltremare, che fanno parte a tutti gli effetti dell’area dell’euro, si trovano a migliaia di chilometri dall’Europa.
38 Su questo rinvio ad alcuni miei articoli: “Irak: una guerra e i suoi perché”, “Guerra tra capitali – Dollaro contro euro: ultime notizie dal fronte”, comparsi rispettivamente sui nn. 93 e 96 de la Contraddizione; “La debolezza della forza. L’imperialismo americano e i suoi problemi”, in L. Vasapollo (a cura di), Il piano inclinato del capitale, Milano, Jaca Book, 2003, pp. 167-190; ” Petrolio e non solo. Cause ed effetti della guerra all’Irak”, l’ernesto toscano, giugno 2003.
39 G. Pietranera, op.cit., p. 208.
40 Lenin, op.cit., p. 559.