Imperialismi e movimenti di Resistenza

*Docente a “La Sapienza” di Roma

L’aver trascurato il lavoro teorico volto all’aggiornamento dell’analisi marxista, la sola in grado di ricomprendere nel loro insieme le contraddizioni del mondo contemporaneo nella prospettiva di una loro soluzione rivoluzionaria, è tra le cause principali della crisi dei movimenti sociali. Mediante il ripensamento del concetto di imperialismo alla luce degli attuali conflitti, in Competizione globale, imperialismi e movimenti di resistenza, (Jaca Book, euro 24 – pagg. 333) Vasapollo, Casadio, Petras e Veltmeyer si propongono di contribuire allo sviluppo del marxismo.
Pur mostrando la continuità dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo con le precedenti, gli autori ne fanno emergere i tratti di discontinuità, di contro ad ogni imbalsamazione dogmatica del concetto di imperialismo. Il processo di centralizzazione e concentrazione capitalistico – indicato da Lenin come il primo connotato dell’imperialismo – si è tanto sviluppato nell’ultimo ventennio da travalicare i confini nazionali, senza perciò ricomporre le contraddizioni interimperialistiche. Al contrario, si profila un ulteriore livello di conflitto globale nel processo di sviluppo imperialistico del capitale concorrenziale. In tale prospettiva, il concetto di imperialismo deve risultare assai più complesso, tanto della vulgata ideologica che ne riduce la portata al militarismo, quanto di ogni astrazione economicista.
Nella prospettiva del materialismo storico, tale concetto rimanda alla specificità delle società a capitalismo avanzato, in cui l’aggressività militare è certo un elemento importante, ma insufficiente a dar conto della totalità contraddittoria dell’attuale fase di sviluppo. Il militarismo, piuttosto, manifesta la profonda crisi economica e sociale, politica ed istituzionale, in cui gli assetti oligarchici della proprietà entrano in contraddizione sempre più stridente con la socializzazione della produzione, frenandone o impedendone l’ulteriore sviluppo. L’aumento della composizione organica e la conseguente caduta tendenziale del saggio di profitto comporta, per uscire dalla crisi di sovrapproduzione, la distruzione del capitale in eccesso, anche umano («effetto collaterale» di guerre, embarghi, disoccupazione), indispensabile al rilancio del processo di accumulazione.
Tale improcrastinabile esigenza rende necessarie forme di conflitto sempre più acute, sino a pregiudicare lo stesso sviluppo scientifico-tecnologico nei suoi scopi universali e pubblici, mediante la sottomissione di uomo e natura al distruttivo dominio del profitto privato. Non solo, dunque, tale modo di produzione non è volto all’appagamento dei bisogni reali, per oltre due terzi dell’umanità non ancora soddisfatti, ma il militarismo stesso deve esser considerato, in qualche modo, quale una componente necessaria del suo contraddittorio sviluppo. All’interno dei poli imperialisti, la vittoria di forze legate alla borghesia imprenditoriale piuttosto che ai rentiers o di forze condizionate dalle lotte sociali presenti in Europa – disponibili ad una gestione consociativa e neocorporativa – non può costituire una reale alternativa alla guerra globale Usa.
Il fine assoluto di rilancio del processo di accumulazione e la conseguente dinamica di crisi finiscono per necessitare il costituirsi di blocchi imperialisti contrapposti, dotati di autonome sfere d’influenza, in primo luogo valutarie. In tal modo gli Usa, sorti quale aggregato di stati, tendono ad unificare sotto il loro controllo i paesi del Nord America attraverso il NAFTA, del Centro mediante la dollarizzazione delle economie locali e, con crescenti difficoltà, del Sud per mezzo degli accordi di «libero scambio» dell’ALCA. Egualmente in Europa si è venuta creando sul modello degli Usa, mediante la progressiva federazione politica degli stati dell’a di «libero mercato» egemonizzata dall’asse franco-tedesco. Il costituirsi di un simile blocco rende ancor più evidente l’immanente tendenza dell’imperialismo a mutare la struttura statuale in mero «comitato d’affari» della borghesia.
Oligarchie di tecnocrati esercitano il loro dominio oltre qualsiasi controllo democratico delle masse, che eleggono parlamenti nazionali ed europei con poteri sempre più ridotti ed incapaci a condizionare qualsivoglia decisione, sempre più calate dall’alto e deliberate dietro le quinte del potere finanziario. Più complessa la situazione nell’estremo oriente: la zona d’influenza economica e valutaria del Giappone risulta sempre più efficacemente contrastata dall’emergere della Cina, portatrice di un progetto politico- economico in certa misura alternativo ai blocchi imperialisti.
Senza sosta i paesi a capitalismo avanzato precipitano nel totalitarismo: incede la militarizzazione della società, in contraddizione sempre più evidente con la «missione universale» del mondo occidentale «esportatore di democrazia ». Le stesse libertà formali borghesi – prima fra tutte l’informazione – sono negate in nome di uno «stato d’eccezione permanente».
Avanzano parallelamente l’attacco ai diritti dell’individuo e la compressione del costo del lavoro e della spesa sociale. Nei paesi del terzo mondo, infine, ogni forma di resistenza nazionale, popolare o socialista all’imperialismo finisce demonizzata quale «terrorismo», mentre negli stati imperialisti il diritto di sciopero viene progressivamente limitato e la struttura produttiva gradualmente delocalizzata in paesi privi di qualsiasi legislazione sociale.
Lo scenario di bellum omnium contra omnes consentirà la sopravvivenza alle sole nazioni in grado di trasformarsi in «imperi» mondiali. Solo mediante tale superamento dialettico dei limiti nazionali si potrà conseguire la possibilità di competere per l’egemonia sui mercati mondiali, sulle materie prime e sulle regioni geopoliticamente strategiche. A dispetto delle pie illusioni dei cantori delle sorti progressive di un «impero » – versione post-moderna dell’ «ultraimperialismo» kautskiano – che avrebbe dovuto portare mediante il superamento degli stati nazionali alla fine delle guerre, i blocchi giungono a confliggere inevitabilmente. Prodotto della mondializzazione economica non è il dominio assoluto di una «mano invisibile » capace di risolvere qualsivoglia contraddizione: l’acuirsi dei contrasti, piuttosto, obbliga i più accesi liberali a ricercare il sostegno dell’apparato militar- industriale dello stato quale volano del rilancio del ciclo accumulativo. Dunque, la concorrenza fra monopoli spinge le multinazionali, dotate in ogni caso di base nazionale, a richiedere l’intervento dello stato a protezione delle operazioni commerciali. E ben si può ricordare l’esito, in passato, delle tanto invocate politiche keynesiane: l’impennarsi della spesa militare ha riassorbito la disoccupazione e rilanciato l’accumulazione al prezzo del riacutizzarsi dei conflitti globali.
Il rafforzarsi dell’unità di intenti degli stati imperialisti, pur contrapposti in blocchi, procede parallelamente all’indebolimento, il frazionamento e la contrapposizione, secondo il principio del divide et impera, degli stati del «terzo mondo». Tale proposito spinge i paladini dei «diritti umani» a finanziare e sostenere ogni forma di sciovinismo, tribalismo e fondamentalismo religioso, in nome dello stato etnico. Non di rado, in tali condizioni, le popolazioni delle «piccole patrie» finiscono con l’affidarsi a presunti «combattenti per la libertà», avventurieri privi di scrupoli e signori della guerra. Le microentità regionali, sorte dai tragici conflitti interetnici e religiosi, sono costrette a sperperare il miserevole bilancio statale nella compera d’armi, prontamente offerte dall’apparato militar-industriale imperialista in costante crisi di sovra-accumulazione. L’esigenza di mantenere la mobilitazione bellica e l’unità nazionale le costringe a richiedere la presenza di istruttori e basi militari dei paesi imperialisti ed, infine, a rendersi dipendenti dalle politiche di ristrutturazione, privatizzazione ed indebitamento endemico ad opera degli istituti finanziari internazionali. Occorre, dunque, istituire uno «stato d’eccezione permanente» allo scopo di militarizzare la forza-lavoro, d’imporre preventivamente la pace sociale, per ampliare gli investimenti volti alla ricostruzione dei paesi devastati dalle «guerre umanitarie».
Sul piano geopolitico, proprio la fine della guerra fredda sancisce non il pacifico affermarsi del cosmopolitismo borghese, ma il rinvigorirsi delle lotte interne per la spartizione del mondo tra «i fratelli nemici» imperialisti. I conflitti che spingono innanzi la storia non sono venuti meno con lo sciogliersi del fronte controrivoluzionario, funzionale alla sconfitta dell’Urss. Di contro al progressivo accentuarsi delle contraddizioni fra i diversi blocchi, ogni soluzione pacificatoria ricercata sulla base del «diritto internazionale » non potrà che rivelarsi temporanea. Tale diritto è, infatti, il prodotto dei rapporti di forza reali tra le classi sociali e tra le nazioni e i blocchi imperialisti. Egualmente gli organismi internazionali, i quali sarebbero tenuti ad arginare la volontà di potenza delle nazioni – prime fra tutte gli Usa, trasgressori d’ogni trattato internazionale che ostacoli i propri interessi – sono quasi interamente subordinati agli interessi imperialisti, tanto da un punto di vista economico quanto politico. L’ONU, dopo un blando monito agli Usa – dietro pressione francotedesca – sull’illegalità della «guerra preventiva», ha in seguito progettato una «riforma» del suo statuto in grado di offrire copertura legale alle «ingerenze umanitarie» degli stati imperialisti. Nel migliore dei casi, gli appelli ad un «mondo multipolare» si rivelano edificanti ma illusori propositi, quando non celano brama di potere o esigenze di consolidamento della cooperazione inter-imperialista di contro all’unilateralismo likudnik.
Sulla base dei nuovi rapporti di forza ad essa favorevoli, la borghesia transnazionale torna a mettere in discussione il precedente compromesso tra le classi, rivolgendo ininterrotti attacchi al cosiddetto «stato sociale». Egualmente, dinanzi alle aspirazioni dell’euro di sostituirsi al dollaro quale valuta mondiale – e alla conseguente occasione di sottrarre agli Usa sfere di influenza di mercato e materie prime – la «guerra preventiva » degli Stati Uniti si mostra decisa a fare a brandelli l’intera tradizione del diritto internazionale, dalla Pace di Westfalia ad oggi. Illuminante il passaggio, citato nel testo, di un rapporto segreto del Pentagono reso noto nel 1992: «Dobbiamo scoraggiare le altre nazioni industrializzate dallo sfidare la leadership americana e dobbiamo mettere in questione l’ordine economico e politico stabilito.
Dobbiamo mantenere una supremazia militare tale che potenziali rivali siano dissuasi dall’aspirare ad un ruolo regionale e globale più ampio ». Europa occidentale e Giappone non possono giovarsi della potenza militare statunitense che, fino ad ora, aveva permesso ai suddetti blocchi di dedicare le proprie risorse allo sviluppo economico. É proprio la sfida lanciata dai blocchi imperialisti emergenti al dominio statunitense nel settore produttivo e finanziario a portare gli Usa ad abusare della propria incontrastata supremazia militare.
Nel volume viene respinto l’atteggiamento teoreticista, da §anima bella§, che pretende di ricondurre ogni conflitto a scontro inter-imperialista o tra aree valutarie. Invero, pur riconoscendo la rilevanza per il movimento operaio dell’analisi dei contrasti tra i blocchi, gli autori stimano altrettanto decisiva la contraddizione tra lavoro e capitale all’interno della competizione mondiale. Nella sezione conclusiva del volume, viene rilevato come le politiche imperialiste confliggano inevitabilmente con le nazioni che respingano ogni forma di ingerenza e con le resistenze popolari rivitalizzate da tale brama di dominio.
Certo, resta essenziale la critica delle tesi – Impero e dintorni – volte a cogliere unicamente la convergenza di interessi fra i diversi settori della borghesia internazionale. Altrettanto unilaterali appaiono, tuttavia, le tesi di chi affida le sorti della pace mondiale a l’emergere di blocchi imperialisti antagonisti allo strapotere Usa. Lo sviluppo della crisi conduce ad un acuirsi dei conflitti tra poli imperialisti, ma essi restano sempre pronti a fare causa comune di fronte ad ogni resistenza popolare o tentativo di autodeterminazione nazionale.
Tale unità d’azione è oggi volta ad arrestare la sfida lanciata dalla Cina e, in misura minore, da India, Russia, Brasile e Sudafrica, alla completa spartizione del globo tra potenze imperialiste. Inevitabile, dunque, chiedersi se tali paesi, per divenire protagonisti nella competizione globale, saranno costretti a sacrificare i tratti distintivi della propria storia politico-sociale, spesso divergente dal modello imperialista tradizionale, oppure li rafforzeranno, facendosi portatori di un modello di sviluppo alternativo. Interrogativi che gli autori del libro lasciano necessariamente aperti, dato che la soluzione sarà determinata dal risultato del decisivo conflitto di classe che si svolge in tali paesi. Del resto è proprio l’accentuarsi della politica aggressiva dell’imperialismo a far rinascere, in tutte le nazioni da essa investite, fronti uniti di resistenza popolare, che parevano definitivamente scomparsi in seguito al trionfo della controrivoluzione nell’Europa orientale. Quel che l’idealismo hegeliano definì l’astuzia della ragione e Marx la contraddizione fondamentale del capitalismo mostra ancora la sua inconciliata attualità: lo stesso apparente trionfo dell’imperialismo ed il costituirsi del mercato mondiale riporta in auge i suoi becchini. La mondializzazione del capitale transnazionale, inderogabile premessa al pieno dispiegarsi del processo rivoluzionario, ci invita a riorganizzare la soggettività in grado di abbattere e superare il modo di produzione capitalistico, abbandonando ogni consolatoria teodicea «crollista » .