Immigrazione serba a Trieste

Dalla caduta del Muro di Berlino sono passati oltre dieci anni e i più ricorderanno a malapena che Trieste confinava con un Paese, la Jugoslavia, non allineato e non facente parte del Patto di Varsavia, un Paese considerato comunista. Ciò comportò non pochi problemi e momenti di forti tensioni in queste terre di confine; tuttavia, con il passare degli anni, pur in presenza di grosse difficoltà nei rapporti politici tra i due paesi confinanti, gli interscambi economici cominciarono ad intensificarsi e a radicarsi in diversi settori. Tutto ciò fu merito anche dell’impegno dei cittadini italiani appartenenti alla minoranza slovena, che da sempre vivono nella nostra città e che hanno saputo con grande intelligenza avviare in modo corretto questo rapporto di reciproca convenienza ed utilità.
In questa prima fase furono le aziende di “import-export” ad essere le apri- pista di tali scambi, che permisero di superare una barriera confinaria (più mentale che fisica) che fino ad allora sembrava insormontabile. Non tutto però fu così facile, anche perché le forze reazionarie, nazionaliste e fasciste presenti massicciamente a Trieste, si erano da sempre contraddistinte nell’opporsi a qualsiasi tipo di apertura e di collaborazione con la Jugoslavia.
Ma la carenza di determinate figure professionali, aprì la porta a centinaia di cittadini jugoslavi, provenienti dalla fascia confinaria che in virtù degli “Accordi di Udine” attraversavano giornalmente il confine tra i due stati, esibendo semplicemente il famoso e tuttora esistente “lascipassare”, che riconosce pari diritti anche ai cittadini italiani. In tal modo centinaia e poi migliaia di donne e di uomini attraversarono il confine per venire in Italia a cercare lavoro. In particolare, le donne trovarono occupazione presso le famiglie come collaboratrici domestiche o come commesse nei negozi triestini, data la conoscenza di almeno due lingue, requisito indispensabile per lavorare in una zona di confine, dove la clientela proveniente dall’estero raramente conosce l’italiano. Gli uomini furono inseriti in quei comparti dove maggiore era la fatica fisica, come l’edilizia.
In quella fase vi fu un miglioramento delle condizioni economiche generali, che non riguardava solo i paesi occidentali, ma anche i paesi dell’est europeo e le Repubbliche della Jugoslavia più vicine al nostro confine, ove iniziò a manifestarsi il problema della carenza di manodopera, problema al quale si cercò di dare risposta facendo affluire i lavoratori dalle realtà più povere della Jugoslavia. Tale politica portò in queste terre di confine centinaia di lavoratori serbi, montenegrini, bosniaci e macedoni, parte dei quali gradualmente iniziò ad entrare in Italia, dove si poteva guadagnare di più. Da allora il numero di questi lavoratori è costantemente aumentato, portando Trieste ad essere, nel contesto italiano, una delle realtà con la percentuale più alta di stranieri rispetto alla popolazione residente. Attualmente la stragrande maggioranza degli immigrati proviene dalla Jugoslavia, ovvero dalla Serbia e più precisamente dalla zona di Pozarevac, nota in quanto città natia dell’ex presidente Jugoslavo Slobodan Milosevic. Quasi tutti sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno, che permette loro di poter lavorare in regola sotto il profilo assicurativo. Però, come del resto succede anche a molti nostri connazionali, non tutti riescono a trovare un lavoro regolare, pertanto sono spesso costretti ad accettare lavori in nero e sottopagati. Per capire cosa significa per l’economia triestina l’apporto di questi lavoratori è sufficiente evidenziare che, ormai, oltre la metà degli occupati nel settore delle costruzioni sono stranieri.
Una discreta parte di questi si è pienamente integrata nella vita sociale della città: oltre il lavoro, frequentano associazioni e circoli culturali, mandando i figli nelle scuole di ogni ordine e grado, iscrivendoli nelle varie società sportive. Ma al di la di questi casi “felici”, tanti sono i problemi che comunque tutti gli stranieri devono affrontare. Senza considerare l’aspetto burocratico per ottenere – rinnovare il permesso di soggiorno, o i vari documenti da dover esibire per avere diritto all’assistenza medica, la questione più critica è rappresentata dalla ricerca di una casa. Oggi un appartamento decente, ad un prezzo onesto, è quasi impossibile trovarlo e questo ha costretto i cittadini stranieri e le loro famiglie a doversi accontentare di alloggi spesso del tutto inabitabili. Non a caso agli stranieri che risiedono in città vengono offerti quei vani dove gli italiani non vogliono più abitare, in cui i servizi spesso sono in comune, dove spesso vi è un solo rubinetto con la sola acqua fredda, oppure vengono affittate soffitte, cantine o magazzini trasformati abusivamente in alloggi ma per i quali si pagano prezzi spropositati Si sta verificando lo stesso fenomeno degli anni ’60 e ’70 nelle grandi città del nord industrializzato, quando gli immigrati che provenivano dal sud Italia non riuscivano a trovare delle sistemazioni civili. Il fatto che i mariti ed i padri abbiano portato in Italia mogli e figli, ha contribuito a favorire quella integrazione di cui sopra parlavamo. Ormai alcuni immigrati sono nella nostra città da quasi trent’anni, ed erano arrivati quando a governare la Jugoslavia c’era il Maresciallo Josip Broz Tito e non esistevano assolutamente tensioni di alcuna natura tra le popolazioni delle varie Repubbliche che formavano quel Paese. Altri sono arrivati dopo la morte di Tito, quando purtroppo la Jugoslavia incominciò a sgretolarsi; gli ultimi sono giunti quando la loro terra veniva bombardata dagli aerei della Nato che dalle nostre basi partivano alla volta di Belgrado, di Kragujevac, di Pancevo o di Novi Sad, portando distruzione e morte. Pertanto ho ritenuto opportuno ed utile sentire tre lavoratori serbi, che sono giunti a Trieste in tre distinte fasi, ed attraverso le loro testimonianze capire che cosa li ha spinti a venire in Italia, quali siano stati i maggiori problemi che hanno dovuto affrontare e cosa ne pensano della loro condizione di immigrati in Italia.

L’incontro con i lavoratori serbi

Per fare ciò, mi sono recato al “Club associazione culturale serba Vuk Karadzic”, luogo fondato ed autogestito da un gruppo di lavoratori serbi, i quali hanno in questo modo dato la possibilità a tanti loro connazionali di potersi ritrovare in una sala e non per strada o in una piazza, potendo magari bere un caffè alla turca, giocando una partita a scacchi o a domino e guardando (grazie all’antenna satellitare) la televisione jugoslava e sentirsi un po’ come a casa. Particolari e drammatiche furono quelle serate segnate dagli attacchi aerei della Nato contro la Jugoslavia. Alle 19.30, ora del telegiornale di Belgrado, il Club si riempiva di gente che in profondo silenzio e con il cuore in gola aspettava di sapere dove erano cadute le ultime bombe o i missili e quali danni avevano provocato. Le immagini che arrivavano via satellite erano come un pugno nello stomaco per tutti, ma per loro che si trovavano a centinaia di chilometri di distanza dalla propria martoriata terra e che con difficoltà riuscivano a malapena a mettersi in contatto telefonico con le proprie famiglie, quella esperienza fu una cosa veramente traumatica. Diversi decisero di rientrare in Jugoslavia, perdendo in alcuni casi anche il lavoro, altri portarono in Italia la famiglia, altri parteciparono assieme a noi alle innumerevoli manifestazioni contro la vile aggressione della Nato.
Ed è proprio qui, in questo luogo, che incontro i nostri tre interlocutori, che con grande disponibilità hanno accettato di fare quattro chiacchiere con noi. Dopo aver ordinato un caffè alla turca, accompagnato da un tipico dolce, il ratlog, inizia la conversazione con Zile, Zivorad e Dejan.

Il racconto di Zile

Zile racconta che ormai sono passati 25 anni da quando è arrivato a Trieste e che oggi può ritenersi abbastanza soddisfatto di come sta vivendo nella nostra città. Ma prima di arrivare qui, appena finito il servizio militare, aveva avuto una breve esperienza nella “democratica Austria”, dove trovò lavoro in una piccola fabbrica che produceva pezzi di ricambio in gomma per automobili. Una notte, nella casa dove assieme ad altri dormiva, irruppe la polizia che, dopo aver identificato i presenti, rinchiuse in carcere tutti coloro che erano sprovvisti di un regolare permesso e Zile tra questi. Comunque fu “fortunato”, visto che dopo una “sola” settimana, assieme ad altri cinquanta, fu rimpatriato alla volta della Jugoslavia. Meno fortunati furono quelli che dovettero aspettare anche un mese in galera, prima di essere rispediti nel loro paese.
Dopo questa non certo felice esperienza, Zile ritentò nuovamente ed arrivato a Trieste, nel tempo di alcune settimane, riuscì a trovare lavoro presso l’impresa dove tuttora svolge la propria attività. All’epoca tutta la documentazione e le relative autorizzazioni del Ministero, indispensabili per l’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, le procurava l’impresa stessa e al lavoratore non rimaneva altro che recarsi al Consolato italiano di Koper-Capodistria, dove gli veniva rilasciato il visto. Inizialmente la sistemazione alloggiativa gli fu garantita dal datore di lavoro, che gli mise a disposizione una baracca (attrezzata) dove visse per oltre tre anni.
Successivamente, una volta arrivata la moglie, affittò una stanza di un appartamento nel quale, in spazi ristretti, vivevano assieme quattro famiglie, le quali avevano a disposizione un unico gabinetto ed una unica cucina, dove il padrone di casa controllava che l’uso del gas fosse limitato. Anche l’intimità coniugale veniva in tal modo limitata e ciò contribuì ad accelerare la ricerca di una sistemazione più consona alle giuste esigenze di una famiglia. Poi, passando da una finita locazione ad uno sgombero forzato causa l’inabitabilità di una casa pericolante e ad uno sfratto esecutivo, Zile e sua moglie trovarono, grazie anche all’interessamento del datore di lavoro di quest’ultima, un appartamento che finalmente offrì quelle caratteristiche abitative e contrattuali che da tempo cercavano.
Zile ricorda di essere stato tra i primi o addirittura il primo lavoratore jugoslavo ad aver superato a Trieste l’esame per la patente di guida italiana, il che gli permise di acquistare la sua prima automobile, di seconda mano. Zile però si contraddistinse da subito anche sul versante sindacale, pretendendo il rispetto dei propri diritti di lavoratore. Innanzitutto chiarì con l’impresa che gli straordinari dovevano essere fatti solo in casi specifici e non come un normale prolungamento dell’orario di lavoro o addirittura come un obbligo. Pertanto rifiutò in tal senso di lavorare tutti i sabati, come era ormai diventata abitudine consolidata in azienda. Il suo esempio fu a questo punto ripreso anche da altri compagni di lavoro, che presero grazie a lui maggior coraggio nel far valere diritti troppo spesso dimenticati.
Per quanto concerne i rapporti tra lavoratori italiani e stranieri egli stesso conferma che raramente ci sono stati dei problemi e comunque quasi mai derivanti dal loro status di stranieri. Anzi il fatto di aver da sempre lavorato gomito a gomito, ha notevolmente contribuito alla reciproca conoscenza ed al superamento delle diffidenze iniziali.

Il racconto di Zivorad

Zivorad inizia ricordando che nel paesino dal quale è partito per cercare maggiore fortuna in Italia, l’unica fonte di reddito era ed è ancora oggi l’agricoltura e l’allevamento di bestiame(bovini e suini). Già suo padre emigrò in Svezia dove lavorò per ben 28 anni e anche lui, sebbene a malincuore, dovette, dieci anni fa, fare le valige e partire. Essendo riservista dell’esercito jugoslavo, quando iniziarono gli scontri tra serbi e croati, volle in tutti i modi evitare di dover combattere contro chi fino a ieri gli era stato amico e fratello. Ancora oggi non riesce a dare un senso al disfacimento della Jugoslavia e alle migliaia di morti che hanno insanguinato un Paese dove la fratellanza tra popoli diversi per nazionalità, religione, lingua o per tradizioni, avevano trovato nella convivenza e nel reciproco arricchimento culturale la migliore risposta alle divisioni. All’epoca Zivorad, attraverso un familiare che viveva a Trieste, ottenne un permesso di soggiorno turistico che gli dette modo, uno volta arrivato a Trieste, di chiedere di rimanere in Italia per motivi “umanitari”. Da prima fu ospitato presso questo parente e successivamente, dopo aver trovato un lavoro in regola, si sistemò in un appartamento non certo di lusso, situato in un palazzo dove risiedono esclusivamente cittadini non italiani. In Jugoslavia ha lasciato la moglie, due figlie e l’anziana madre, che quando il lavoro glielo permette va a trovare, dovendosi sobbarcare oltre 1200 km all’andata ed altrettanti al ritorno. Prima che il suo Paese venisse smembrato bastava farne 800 di km per arrivare a casa, ora però deve attraversare prima l’Austria, poi l’Ungheria per arrivare in Jugoslavia, anche perché per passare dalla Slovenia e dalla Croazia, come si faceva una volta, bisogna ottenere dei visti di transito molto onerosi (e le pratiche per ottenerli sono alquanto lunghe e complicate). Anche lui vorrebbe ricongiungersi con la sua famiglia, ma le ultime leggi italiane che regolano la materia sono alquanto rigide, riguardo alla disponibilità alloggiativa del richiedente, il quale deve poter disporre di una abitazione che sia in regola con i parametri minimi di abitabilità previsti dalle normative vigenti. Con i soldi che Zivorad guadagna non può permettersi attualmente niente di meglio, il che gli nega ogni possibilità di far arrivare sua moglie e le figlie a Trieste.
Anch’egli spera che la Jugoslavia possa finalmente uscire dall’isolamento internazionale che negli ultimi dieci anni l’ha fortemente indebolita, sia dal punto di vista economico che politico. Ciò che però ha voluto alla fine sottolineare è l’auspicio che il popolo jugoslavo, possa decidere del proprio futuro senza subire condizionamenti, sia esterni che interni.

Il racconto di Dejan

L’ultima testimonianza è quella del più giovane dei tre, Dejan, che ha 36 anni, è sposato, ha due figli di 9 e 14 anni che sono rimasti in Jugoslavia assieme alla madre.
Dejan è arrivato a Trieste nell’aprile di quest’anno, grazie alla richiesta di assunzione fatta da un’impresa artigiana edile, che non trovando manodopera disponibile in loco ha ottenuto l’autorizzazione ad assumere un lavoratore “extra comunitario”. Quando gli aerei della Nato iniziarono a colpire la Jugoslavia non scappò, come altri fecero, ma restò nel suo Paese a coltivare la terra, sfamando la sua famiglia e garantendo in questo modo che il raccolto venisse utilizzato per dar da mangiare a tutto il Paese, martoriato dai bombardamenti e dall’embargo. Proprio l’embargo appesantì ulteriormente la già difficile situazione economica di migliaia e migliaia di famiglie jugoslave e costrinse tanti come Dejan ad emigrare per sopravvivere. A differenza di altri Dejan aveva già un lavoro in Italia che lo aspettava, non aveva però un posto dove poter dormire.
Da prima si arrangiò a casa di amici, poi trovò un “buco” di 25 metri quadrati al costo di 400.000 al mese, senza servizi, senza riscaldamento e con un’umidità tale che i muri sono spesso bagnati. Spera di poter quanto prima risolvere il problema della casa, anche perché vorrebbe comunque che la sua famiglia lo raggiungesse e certamente non potrebbe farlo con l’attuale sistemazione.
Anche Dejan fa alcune battute sulle ultime novità politiche che il suo Paese sta attraversando. Analogamente alla stragrande maggioranza dei suoi connazionali, che vivono e lavorano all’estero, non ha potuto recarsi a votare, in quanto sia la proibitiva distanza che l’elevato costo del viaggio, glielo hanno di fatto proibito. Il risultato del voto non lo ha particolarmente sorpreso, anzi ritiene logico che la gente si sia espressa in tal modo, considerando le promesse che i paesi occidentali avevano fatto in caso Milosevic avesse perso. Contestualmente ribadisce che la popolazione ha voluto anche dare un chiaro segnale di volontà di cambiamento per una Jugoslavia più democratica, ma soprattutto per una politica che sia più vicina alle loro aspettative ed alle loro esigenze.

Un ultimo accenno hanno voluto farlo sulla guerra che l’anno scorso devastò tutta la Jugoslavia e tutti e tre hanno più o meno espresso le stesse opinioni e valutazioni.
1) Le bombe ed i missili hanno colpito principalmente i punti strategici economici e viari, lasciando quasi intatti gli obiettivi militari, a dimostrazione che gli Stati Uniti ed i paesi della Nato volevano soprattutto devastare la loro terra e distruggere la loro economia, oltre che ferire mortalmente l’orgoglio di un popolo abituato a combattere per la difesa dei propri diritti.
2) L’inquinamento dell’acqua, dell’aria e della terra provocata dai bombardamenti e dall’uso di proiettili all’uranio impoverito stanno già causando immensi problemi sanitari, non solo ai popoli della Jugoslavia, ma a tutti coloro che vivono nei paesi confinanti, pertanto sarà necessario che la comunità scientifica internazionale trovi quanto prima delle risposte concrete.
3) La così detta “guerra umanitaria”, scatenata per “aiutare” gli albanesi del Kossovo, non ha minimamente risolto i problemi di convivenza di quella regione: viceversa, dopo i bombardamenti e l’arrivo delle forze militari della Nato, le divisioni etniche si sono ancor più approfondite e le varie mafie che si stanno impossessando del territorio stanno a loro volta condizionando il futuro di quelle popolazioni.
4) Sperano ora che l’intelligenza degli uomini riporti la pace in tutta i territori della Jugoslavia, e che la loro tragedia non si ripeta mai più.