Quest’anno il cinema italiano ha festeggiato, ancora una volta, un “restauro”, finanziato dal Progetto Cinema Philip Morris, un film di Ettore Scola di 27 anni fa, C’eravamo tanto amati, per l’occasione oggi accolto su tutta la stampa con il massimo dei voti. Sarebbe quasi il caso di dire che un piccolo restauro sia stato promosso da una restaurazione più grande, una restaurazione politica, anzi da quella restaurazione culturale che ormai da molti anni congela l’atteggiamento della critica italiana, in particolare la critica cinematografica, molto lontana dall’essere – come affermava spesso Fortini – critica della cultura.
In questa delicata fase di crisi del cinema e dei tentativi per superarla, la critica si trasforma puntualmente in assoluta apologia del “prodotto”, abdicando al suo mandato di essere riflessione sul linguaggio del cinema, sull’arte e sulla storia, sulle sue forme e sul significato dei messaggi. E ancora, specularmene, i personaggi del mitico film di Scola vivono nella storia ufficiale, ma è come se corressero sul binario morto dell’impotenza e dell’incoscienza critica. Questi ex-partigiani della Resistenza protagonisti del film di Scola, dopo anni di vita in un dopoguerra “trasformato” vedono morire in loro ogni ideale politico, e l’inattualità di un possibile nuovo impegno è una circostanza storica che lo stesso Scola di allora, e con le sue riflessioni critiche di oggi, tendeva e tendono a considerare decisamente ineluttabili.
C’eravamo tanto amati era un film “apocalittico” e con tutti i suoi limiti, non soltanto perché rifiutava qualsiasi ipotesi d’indagine progressiva all’interno del contesto storico-politico, ma soprattutto perché la sua ironia attingeva solamente a quegli elementi di critica sociale che emergevano dalla stessa struttura del racconto, cucito con una serie di “gags” particolari che, troppo implicitamente, rimandavano a possibili significati politico-ideologici trascendenti lo stato esistenziale dei personaggi.
Scola ci restituiva più la caduta, la decadenza ideologica dei personaggi, la loro passività all’interno di un sistema di cui erano vittime, piuttosto che una lucida riflessione storico-politica concreta sulla crisi ideale alla luce di un progetto ideologico-culturale più spregiudicato. L’ambiguità dei personaggi , in sostanza, non era altro che l’ambiguità del loro autore. E il “Boh!” finale di Antonio e Nicola, di fronte al tuffo di Gianni nella sua piscina da miliardario, suggeriva più una capitolazione, una chiusura nichilistica, una sconfitta irreversibile e disperata, in agguato permanente nella vita di ognuno, davvero un destino non emendabile, piuttosto che l’immagine critica e dialettica di uno scetticismo attivo che volesse mutare il mondo e gli uomini.
Tuttavia Scola evitava, in quel suo viaggio nel dopoguerra, ogni caduta moralistica e, quindi, generazionale. Una battuta, verso la fine, sembrava illuminante: “Credevamo di cambiare il mondo, e invece il mondo ha cambiato noi stessi”. Era ed è una battuta chiave, sulla quale ancora oggi i cronisti s’interrogano. Ancora oggi Scola offre risposte ambigue, teorizzando persino la positività di un cambiamento, mentre sarebbe più opportuno riflettere sul condizionamento e sulla trasformazione delle coscienze in una società dove il capitalismo avanzato lavora quotidianamente non per il superamento delle ideologie ma per il trionfo incondizionato della sua.
Nel 1974 C’eravamo tanto amati era un amaro racconto su una distruzione ideale, allora burocraticamente “registrata” e che oggi ancora continua, una trasformazione e una distruzione che non tutti avevano il coraggio o il buon gusto di riconoscere in quella stagione di storici compromessi da cui sembrava impossibile uscire. Molto più tardi, con Mario Maria e Mario narrerà la morte del comunismo incarnandola nel “ménage a trois” di ragazzetti militanti combattuti tra il “sì” e il “no”, e davvero era l’espressione di un degrado culturale che aveva ormai perso ogni riferimento, proporzione e misura.
Le stagioni delle crisi del cinema italiano si sono alternate in questi ultimi anni, offrendo speranze e disillusioni, creando miti e una storiografia che della parzialità faceva la sua bandiera. Mai come in questi anni, è stato il mercato a instaurare le leggi dei valori, della bellezza e delle forme estetiche. Il “cinema politico”, naturalmente, ha segnato il passo, trasformandosi nel migliore dei casi in “cinema civile”, e i maestri sono scomparsi, lasciando spazi vuoti al giovane cinema italiano che, pur nella esiguità degli esiti, trova oggi dei sostenitori entusiasti. Si tratta di un’apologia indistinta fondata su un’operazione critica che tende alla non distinzione dei valori e alla diffusione dell’idea che sia in corso una “rinascita” del cinema italiano, mentre si tratta soltanto della produzione di opere fortunate, nate per il concorso di cause singolari e forse irripetibili.
Continuano le sopravvalutazioni, gli equivoci e le esclusioni nel mercato della critica, e mai come in questo fine millennio i giudizi subi-scono il condizionamento delle ragioni della politica. Tuttavia, se La vita è bella di Benigni riscuote un successo straordinario, un paragone con Jona che visse nella balena di Roberto Faenza vedrebbe quest’ultimo vincere la partita con molte lunghezze di vantaggio. Non molto entusiasmo abbiamo colto nelle cronache che si occupavano di La mia generazione e di Domenica di Wilma Labate, di Giro di Lune tra terra e mare di G.M. Gaudino, quando era proprio in queste opere il nuovo del cinema italiano, come tra i film più importanti del “cinema politico” degli ultimi anni si è rivelato I cento passi di Marco T. Giordana.
Un discorso particolare per L’ultimo bacio di Gabriele Muccino e per La stanza del figlio di Nanni Moretti, messi in pista per una gara di corsa ad ostacoli dalla stampa nazionale, secondo le regole del buon Mer cato.
Anche in questo caso l’apologia nazionalistica e militaresca, salvo in alcune recensioni, ha sostituito una riflessione profonda sui “testi” filmici di Muccino e Moretti, mentre sarebbe stato oltremodo produttivo non solo sottolinearne le differenze ma mettere in evidenza i limiti formali e ideologici di opere che sono state indicate come tipiche della rinascita del nuovo cinema italiano. Si poteva rilevare la “chiusura” di classe dell’ambiente osservato da Muccino, anche se le storie di altmaniana memoria erano positivamente intergenerazionali. Si poteva rilevare che Moretti non aveva rinunciato affatto alla centralità del suo “io”, e che la “commovente” tragedia familiare di Giovanni (Nanni) Sermonti, certamente partecipata dai protagonisti e dal pubblico, non trasforma sostanzialmente la coscienza di Giovanni (certamente il dolore divide e basta, sottolinea giustamente Moretti l’ateo, tuttavia apprezzato dai cattolici), la sua insularità familiare, il suo chiudersi sempre in sé stesso, i suoi tormenti assolutamente privati, il suo personalismo cronico, come prima della tragedia non era certo molto interessato alle nevrosi dei suoi pazienti, al suo prossimo.
Non si tratta di un mero appunto moralistico, ma della sostanza (a)sociale della poetica del nostro autore, oggi interpretata dalla critica in una chiave decisamente innovativa, anche se sarebbe stato difficile elogiarne lo stile, davvero ancora senza qualità. Accenti molto diversi si coglievano nel Decalogo n° 1, nella tragedia familiare della casualità di K. Kieslowski.