Il valore della nostra Resistenza

Fratelli e sorelle, questo giorno della Resistenza e della Liberazione mi riempie di orgoglio, ma tutti noi abbiamo perduto il senso di gioia e di festa. Vi è senza dubbio un senso di dolore e di afflizione provocato da quanto avviene in questo momento in Iraq come a Gaza e nella Palestina occupata, come nel nord del Libano. Tali avvenimenti non consentono manifestazioni di gioia e di festa. (…). Senza alcun dubbio la data del 25 maggio 2000 segna una vittoria storica sul nemico “israeliano” riconosciuta in ogni parte del mondo come anche dalla classe dirigente dello stato avversario, anche se, però, tale vittoria non è stata ancora compresa in tutti i suoi aspetti. Vorrei, a questo punto, segnalare a tutti voi tre argomenti e parlarvi con il cuore in mano. Il primo di questi argomenti si riferisce a una importante caratteristica qualitativa e alla lealtà della resistenza, se essa, insomma, abbia agito correttamente; il secondo riguarda l’ingresso di Hezbollah all’interno del quadro politico libanese negli ultimi due anni e la fermezza tenuta intorno a questa posizione e linea politica, dal momento che esistono diverse questioni aperte su questo; l’ultimo di tali argomenti concerne i recenti avvenimenti nel nord del Libano, la nostra posizione su tali eventi e le nostre proposte sul da farsi. Partiamo dal primo argomento. Dopo la fase della resistenza nazionale libanese, la resistenza di ispirazione islamica è divenuta la spina dorsale dell’intero movimento, e questo è noto. Una delle sue caratteristiche fondamentali è quella di legarsi ai valori islamici sul piano etico e nazionale. Per la resistenza, per noi, la sconfitta delle forze di occupazione e dell’aggressione nemica come la liberazione della terra e dei prigionieri costituiscono una causa sacra, una sorta di obbligo etico e religioso. Tutto questo si riflette sulla resistenza, su tutti i suoi protagonisti, sulla loro azione, condotta e moralità. Di più, scopriamo che questo obiettivo della resistenza costituisce in realtà la sua vera essenza. Fin dall’inizio, le operazioni militari hanno avuto come obiettivo le forze di occupazione e non i civili innocenti. I combattenti della resistenza, dopo aver piazzato esplosivi contro le forze di occupazione, erano soliti rinviare o cancellare gli attacchi di fronte alla presenza di civili, e l’intera operazione sarebbe stata rimandata. Tale rinvio non era visto come un problema, dal momento che la tattica fondamentale della resistenza era fondata sul logoramento. (…). Questo non è però il modo di agire delle forze di occupazione statunitensi in Iraq, Palestina e Afghanistan. La resistenza ha sempre tenuto in alta considerazione la vita degli uomini e le loro proprietà. I combattenti hanno sempre cercato di assicurare la riuscita delle operazioni con il minimo possibile di perdite: lo spargimento di sangue non è un semplice “effetto collaterale” per la resistenza. Le sue operazioni erano centrate solamente contro le forze israeliane. (…) Dopo la vittoria, noi abbiamo attribuito e dedicato il risultato ottenuto all’intero popolo libanese, all’intera nazione araba e, soprattutto, al popolo palestinese, la più grande motivazione alla base della vittoria. Oggi possiamo dire che non è possibile far arretrare o sconfiggere una resistenza tanto civile, tanto assennata e tanto ardente. Ho voluto richiamare le caratteristiche essenziali della resistenza – l’amore, la dedizione, il senso di affetto e le buone relazioni tra i combattenti e l’intero popolo libanese – per fornire la dimensione – a chi fosse sfuggita – e per interpretare con questa chiave di lettura le vittorie del 2000 e del 2006. Da qui passiamo a ragionare della politica interna libanese. Nel maggio del 2000 mi trovavo a Bint Jubeil, dedicando la vittoria al popolo palestinese e a tutti i popoli che si sentivano onorati da essa. Quel giorno ho sottolineato che non avrei chiesto nessuna ricompensa e nessun prezzo per quello che abbiamo fatto. Ho specificato come tutto questo per noi fosse un dovere. (…). La sola richiesta avanzata in quei giorni allo stato libanese è stata quella di prendersi cura delle regioni di confine intorno a Bint Jubeil, che hanno sofferto a lungo di tante privazioni durante l’occupazione. Questa è stata la sola richiesta avanzata. Non abbiamo provato a capitalizzare la nostra vittoria, al punto da essere accusati da diversi analisti di essere anime semplici e ingenue. Per diverso tempo abbiamo assistito agli avvenimenti interni al Libano, ma il nostro sforzo principale è stato quello di prepararci per i giorni a venire, ben sapendo che i sionisti non avrebbero mai accettato la sconfitta senza prepararsi per nuove aggressioni. Per questo la nostra posizione non ha subito variazioni tra il 2000 e il 2005, fino al 14 febbraio di quell’anno, il giorno dell’attentato contro Rafiq Hariri, il giorno in cui il Libano è stato colpito da un enorme terremoto e sembra essere entrato in un tunnel oscuro, che nessuno è in grado di dire dove possa condurre tutti noi. In quel momento, abbiamo ritenuto fosse nostro dovere fare la nostra parte nella sfera della politica, ma abbiamo compreso ben presto come fosse più chiaro, più dignitoso e più onorevole combattere contro Israele che impegnarsi in quella sfera. Ci siamo resi conto di dover mettere in gioco tutto il prestigio popolare e politico creato dalla resistenza e vi ho detto la verità, anche se è stato difficile. Noi sentiamo la nostra responsabilità e sono molti coloro che si sono sacrificati per amore del Libano, ma noi siamo tra coloro che si sono sacrificati maggiormente. La questione della libertà e indivisibile dall’indipendenza ed è nostro dovere essere presenti dovunque vi sia una battaglia di questo genere. Ci siamo resi conto, fin dal primo momento nel quale abbiamo percepito l’enormità delle nostre nuove responsabilità e scoperto il nostro potenziale, che le nostre priorità avrebbero dovuto essere rivolte a salvaguardare il Libano tanto da dissidi o scontri interni – di natura confessionale come etnica -, quanto da conflitti con i palestinesi. Dal momento che il rumore delle armi nei campi palestinesi era iniziato poco dopo – e questo avrebbe portato a uno scontro -, avrebbe dovuto essere evitato anche l’esplodere di un conflitto tra Libano e Siria, quando un’atmosfera pesante era calata sull’intero paese, soprattutto perché tutti questi scontri e queste accuse erano basati su elementi di natura meramente politica e senza nessuno straccio di prova. Noi ci siamo preoccupati dello stato e delle sue istituzioni, con un riferimento particolare all’esercito, i cui vertici conoscono la nostra posizione e sanno come abbiamo agito in quella fase. L’esercito è l’istituzione di maggiore garanzia all’interno del paese. Uno degli assiomi sul quale abbiamo costruito il dialogo è stata l’apertura nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nella discussione, superando i conflitti passati e richiamandoci al dialogo e alla collaborazione. (…). Noi abbiamo lavorato per consegnare il Libano ai libanesi, dal momento che gli americani erano entrati pesantemente nella vita del paese: si potrebbero fare numerosi esempi di tale interferenza nella sfera politica quotidiana. (…). Abbiamo deciso di far parte degli ultimi due governi e accettato la logica di discutere tutto al tavolo delle trattative. Noi abbiamo rivelato per intero la nostra strategia, che gli israeliani sono stati in grado di comprendere assai meglio di quanto abbiamo fatto alcuni di noi sul fronte interno, traendone non pochi benefici. Il nostro ragionamento di partenza era noto: siamo entrati al governo per esercitare il nostro obbligo etico e spirituale, con la stessa logica utilizzata durante la resistenza. Sfortunatamente, ci siamo resi conto che le dinamiche sul fronte interno si muovevano in tutt’altra direzione, che l’altra parte non aveva alcuna seria intenzione di discutere seriamente i problemi, a partire dalla questione del Tribunale Internazionale, che essi, sfortunatamente, avevano già rinviato clandestinamente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’ultimo dei loro errori è stato quello di inviare una lettera al Consiglio di Sicurezza nell’ambito del Capitolo VII della Carta dell’ONU, con conseguenze potenzialmente assai pericolose. Abbiamo capito che le altre formazioni politiche non volevano e non vogliono una nostra partecipazione e hanno utilizzato la nostra presenza nel governo come elemento di facciata fino ad escluderci, pur rappresentando noi larga parte della società libanese. Subito dopo si è verificata l’operazione di catturare due prigionieri israeliani e la guerra di Israele contro il Libano, che tutti avete vissuto, rendendovi conto di come sono andate le cose. La guerra è terminata con una vittoria, anche se abbiamo visto come il governo Sinora si è comportato nei mesi successivi riguardo la ricostruzione del paese, soprattutto in quei passaggi nodali che avrebbero richiesto ben altra discussione. Quali crimini ha commesso Hezbollah dopo la guerra? E’ un crimine richiamarsi a un governo di unità nazionale? Non abbiamo mai detto di non volere qualcuno di voi, signori dell’attuale maggioranza di governo, come parte di un governo di unità nazionale, nonostante tutto quello che è accaduto prima, durante e dopo la guerra. Non abbiamo mai tradito nessuno e tutto il nostro ragionamento era teso alla solidarietà e all’unità, mentre, per contrasto, durante la guerra ci avete trattato come traditori. Quando abbiamo ragionato di un governo di unità nazionale, in un momento nel quale nessun’altra soluzione se non questa era possibile per il Libano, vi risulta sia stata chiesto un maggior numero di ministri da parte di Amal o di Hezbollah? A me pare di aver più volte fatto appello alla partecipazione e alla costruzione di un governo di unità nazionale, di un esecutivo di solidarietà. Altri, invece, dopo la guerra hanno preferito abbandonare il nostro popolo nelle strade: 100.000 famiglie senza alcun aiuto o assistenza. Noi abbiamo fatto solamente la parte del nostro dovere verso costoro. Siamo stati accusati di essere uno stato nello stato: bene, dov’erano allora il vostro governo e i suoi servizi? Dov’era il governo per quanto concerne i compensi, le riparazioni e la ricostruzione? Abbiamo proposto di fare ricorso alla volontà popolare attraverso un referendum ed elezioni politiche anticipate. La risposta a questo percorso democratico, con modalità e strumenti assolutamente concreti, è stata quella di spingerci fuori dal governo insieme ai nostri fratelli di Amal, ma noi ci stiamo muovendo ancora all’interno di queste coordinate politiche. (…). Nessuno può imporre la propria volontà ai libanesi e in questo Libano; nessun libanese può imporre la propria volontà al resto del paese anche con il sostegno internazionale o regionale. Esattamente in questo punto risiedono il problema e la sua soluzione. Così, non costringete noi e i libanesi a perdere tempo prezioso. (…). Desidero sottolineare ed evidenziare che noi non rinunceremo alle nostre responsabilità in Libano, nulla potrà scalfire la nostra volontà. Ciò che stiamo facendo integra il dovere morale dell’esempio attraverso la resistenza con l’impegno e la pazienza necessari, così come continueremo a rimanere al fianco di tutte le forze di orientamento patriottico al fine di preservare la libertà e l’indipendenza del nostro paese. (…). Quanto sta accadendo a Tripoli e al campo dei profughi palestinesi di Nahr el-Bared costituisce un elemento di straordinaria complessità e contiene implicazioni delicatissime. L’esercito libanese protegge la sicurezza e la stabilità del Libano, essendosi fatto garante e protettore dell’unità nazionale: se non fosse stato per esso, nei due anni passati la prospettiva di una guerra civile sarebbe stata sfortunatamente assai concreta, favorita dall’evolversi drammatico della situazione. Guardando le cose con oggettività, sia le forze favorevoli all’attuale governo sia l’opposizione dovrebbero considerare l’esercito come l’ultima e la sola istituzione rimasta in grado di garantire la sicurezza, la pace e l’unità nazionale, evitando di conseguenza ogni forma di abuso rispetto ad essa. Questo è quanto ci rimane nell’attuale situazione politica, tanto difficoltosa quanto turbolenta, sostenendo con estremo rispetto le forze e gli apparati di sicurezza. (…). Ogni attacco contro l’esercito, le forze di sicurezza libanesi e la stabilità del Libano è condannabile da qualunque parte provenga, dal momento che questa costituisce una sorta di linea rossa che tutti sono chiamati a rispettare: nessuno sconfinamento dovrebbe essere tollerato. (…). Il secondo aspetto riguarda il soggetto Nahr el-Bared, i civili palestinesi, la loro organizzazione: il campo deve essere considerato una sorta di linea rossa, se vogliamo essere giusti ed equi, con i civili libanesi come palestinesi. Se lo stato ha iniziato una vera e propria guerra contro le azioni terroristiche, ciò non autorizza nessuno ad uccidere la gente nelle strade. Voi siete lo stato e dovete agire come si conviene: un mandato di cattura, al quale seguono un arresto con il pieno rispetto delle relative procedure e un processo di fronte a un tribunale. Non una guerra contro il terrore in stile “Bush”. La gente viene uccisa nelle strade, e il fatto che l’agente divenga pubblico ministero, legislatore, giudice ed esecutore è assai pericoloso. Questo potrebbe minacciare la pace e la sicurezza del Libano. Qualcuno, in questi giorni, ha proposto addirittura di radere al suolo il campo, dove vivono tra le 30 e le 40.000 persone non coinvolte negli avvenimenti. E’ immaginabile attaccare 40.000 persone e distruggere il campo per arrestare un manipolo di banditi più o meno legati ad Al- Qaeda? Da un punto di vista umanitario, etico e anche legale, il campo palestinese è identico a qualsiasi villaggio libanese. Questi piani di distruzione provengono da uomini che continuano a vivere in vecchi sogni e progetti, crogiolandosi in un errore assai pericoloso, che richiama alla memoria momenti dolorosi, drammatici e difficili. (…). Dobbiamo fare attenzione all’intervento statunitense in questa vicenda. Occorre condurre una seria indagine sulle cause dell’incidente e sulle successive decisioni. Washington ha istituito un ponte aereo per rifornire di munizioni l’esercito libanese, probabilmente su richiesta del Primo ministro Sinora, e la situazione è assai seria. Durante i giorni dell’aggressione israeliana contro il Libano, il governo libanese – nessuno dimentichi – stava richiedendo agli USA di intervenire per fermare la guerra, ma gli Stati Uniti non solo si sono rifiutati di chiedere a Israele la fine delle ostilità, ma hanno piuttosto spinto per la continuazione del conflitto! (…). Quanto accaduto nel Nord va risolto con gli strumenti della politica, della forza militare come della giustizia in modo tale da preservare l’esercito, i fratelli palestinesi, lo stato, la pace e la stabilità senza trasformare il Libano in un campo di battaglia tra gli USA e Al-Qaeda e altre organizzazioni dai nomi più disparati. La soluzione è rappresentata dall’assenza di tentativi di monopolizzare la vita politica del paese. Nessuno in Libano può cancellare nessun altro. In Libano vi sono diversi movimenti e fedi religiose. Indipendentemente dal loro peso, tutte le confessioni sono centrali nella fabbrica libanese. Nessuno può pensare di cancellare nessuno. Oggi, la soluzione coraggiosa risiede nella formazione di un governo di solidarietà nazionale che non dovrebbe escludere nessuno. E non mi riferisco solamente al piano della rappresentanza e dei suoi criteri. Per quanto ci compete, noi abbiamo il coraggio di assumere tale decisione e collocarci su questo terreno.

*Segretario Generale di Hezbollah