Il tramonto dell’ ”impero”

A PROPOSITO DELL’ULTIMO LIBRO DI MAURO CASADIO, JAMES PETRAS E LUCIANO VASAPOLLO, CLASCH! SCONTRO TRA POTENZE, JAKA BOOK, 2004.

La cruda realtà di questi ultimi anni si è incaricata di screditare le versioni più edificanti e apologetiche delle teorie della ‘globalizzazione’: termine ambiguo – quest’ultimo – che sottende la fallace idea di un’integrazione virtuosa delle economie e dei popoli, sorretta dall’innovazione tecnologica e in positiva rottura con i tempi bui degli stati-nazione e delle loro guerre imperialiste, nonché con gli aspetti più retrogradi della società capitalistica. I dati sull’inabissarsi del Terzo mondo, il mancato consolidamento socioeconomico dei paesi cosiddetti ‘in via di sviluppo’ (strangolati dall’inesorabile cappio del debito estero), il ripresentarsi ciclico della crisi nello stesso ‘primo’ mondo (entro il quadro pluridecennale di una strisciante stagnazione) e, last but not least, i cacciabombardieri di Bush Junior – tutto questo ha rapidamente spazzato via le mitologie della ‘New Economy’ così come le azzardate evoluzioni sull’esaurirsi della fase imperialistica. Come è noto, anche a sinistra c’è chi è rimasto vittima di tale divaricazione tra elaborazione teorica e realtà fattuale. E’ il caso delle principali tesi contenute nell’ Impero di Negri e Hardt: raramente si è potuto assistere ad un’accoglienza così calorosa, tributata dal mondo dell’intellettualità radical e progressista (F. Jameson: “la prima grande sintesi teorica del nuovo millennio”) ma anche dai principali fogli dell’establishment statunitense (Time, New York Times, Wall Street Journal), e ad un’altrettanto evidente smentita dei fatti. Al punto che lo stesso Antonio Negri ha successivamente ritenuto di dover rendere pubblici alcuni salutari riposizionamenti.

MUTAZIONE E RAFFORZAMENTO DEGLI APPARATI STATUALI

Si può dire che Mauro Casadio, James Petras e Luciano Vasapollo, autori di Clash! Scontro tra potenze (Jaca Book, 2004) abbiano voluto porre un ulteriore sigillo critico sulle suddette teorizzazioni, offrendo in alternativa – e nonostante qualche disorganicità inevitabile in un testo scritto a sei mani – un’ampia e documentata sintesi dell’odierno, conflittuale, assetto planetario ed una nozione aggiornata di ciò che è attualmente l’imperialismo. Una delle tesi forti , ma anche tra le più fuorvianti, avanzate dai teorici della globalizzazione (più o meno virtuosa) è quella secondo cui gli stati-nazione costituirebbero ormai un anacronistico residuato in via di estinzione, soppiantati sulla scena internazionale dalle decisioni degli stati-maggiori delle multinazionali e dal ruolo guida assunto dalle istituzioni finanziarie sopranazionali. Secondo Casadio/Petras/ Vasapollo, il ruolo dello stato – più precisamente, di quegli stati che oggi si collocano ai vertici della gerarchia planetaria – è certamente mutato ma, attraverso tale mutazione, si è rafforzato ed espanso. Ai decenni del compromesso sociale e del Welfare ha fatto seguito una fase di accentuazione della polarizzazione sociale, di crisi dei ‘ceti medi’, di liquidazione dei paracadute sociali. Si è così passati dal cosiddetto stato ‘del benessere’ ad uno ‘stato competitivo’, in tutto simile a quello che Lenin definiva il “comitato d’affari della borghesia”, uno stato che “gestisce il continuo trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita finanziaria e al profitto” (p.35). In Italia, gli anni ’90 hanno visto la liquidazione delle Partecipazioni Statali, l’azzeramento del ruolo dello stato nella produzione di beni e servizi, l’epopea delle privatizzazioni. La scure antistatalista si è abbattuta sulla spesa pubblica, guardandosi bene tuttavia dal tagliare le spese di riproduzione degli apparati statali e quelle di sostegno al capitale ed aggredendo in particolare la spesa sociale propriamente detta. La ‘rivolta fiscale’ ha poi ulteriormente caratterizzato in termini di classe la leva della tassazione, orientando il prelievo – sia diretto (Irpef) che indiretto (Iva) – in direzione dei soliti noti: confrontando le imposte sul reddito delle persone fisiche con gli occupati, si riscontra che, nel corso del tempo, un numero sostanzialmente identico di occupati ha pagato un volume sempre maggiore di imposte (nel 1987, 20 milioni di occupati hanno pagato in tasse gran parte della cifra complessiva di 130 mila miliardi di lire; e, nel 1999, un numero grosso modo equivalente di occupati ha sborsato gran parte dei 321 mila miliardi di lire di introito, una cifra due volte e mezzo più grande). Questo vero e proprio processo di spoliazione delle classi popolari si è prodotto parallelamente ad un progressivo rafforzamento degli apparati coercitivi statuali: interni, difesa, giustizia penale e civile, apparati per il controllo e la sicurezza. Peraltro, quanto avvenuto nel nostro paese corrisponde in generale ad un’essenziale funzione degli stati sul loro “fronte interno”. Ad essi sono infatti demandate una serie di costose incombenze: la formazione del capitale umano (attraverso la riorganizzazione secondo canoni aziendalistici dell’ ‘offerta formativa’), l’implementazione della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica in funzione della produzione (di plusvalore), il reperimento di ingenti risorse per il sostegno alla domanda e la stabilità del mercato interno (rottamazioni, cablaggio di aree urbane, ristrutturazione delle reti energetiche ed estensione della rete dei trasporti ecc.). Il tanto sbandierato slogan ‘Meno stato, più mercato’ non è dunque altro che la mistificante rappresentazione ideologica dell’effettiva richiesta padronale: ‘Più stato per il mercato’.

STATI DISGREGANTI E STATI DISGREGATI

Sul piano geopolitico, la tesi dell’azzeramento del ruolo degli stati nasconde la realtà di due tendenze distinte ed opposte che caratterizzano l’attuale mondializzazione capitalistica: da un lato, l’esistenza di “stati disgreganti” sempre più forti e, d’altro lato, quella di “stati disgregati” o in via di disgregazione e dunque sempre più deboli. Non a caso le aggressioni imperialiste condotte nell’ultimo decennio hanno favorito la formazione di stati-protettorato. Esempio emblematico: l’Europa dell’Est e balcanica fino a dieci anni fa includeva una decina di stati; oggi se ne contano circa trenta. Ciò corrisponde ad un preciso interesse degli stati forti: avere a che fare con nazioni molto piccole (dei trenta paesi sopra menzionati, solo undici superano i 10 milioni di abitanti), con economie dipendenti dagli investimenti esteri e subalterne agli ordini degli Istituti finanziari sopranazionali, indulgenti nel tassare gli investitori stranieri e leggere nell’applicare balzelli alla dogana, puntuali nel pagamento del debito e severe nel comprimere la conflittualità interna e assicurare stabilità.
Gli stati forti “disgregano”, ma anche “attraggono” (con le buone o con le cattive maniere). Il testo in questione si sofferma utilmente a descrivere il ruolo di volta in volta militare/eversivo ed ‘egemonico’ esercitato dagli Usa sull’intero continente americano e in particolare sul Latinoamerica. Quanto a quest’ultimo, si tratta di un’area di 16 milioni di miglia quadrate – con una popolazione totale di oltre 400 milioni di abitanti – in cui il 49% di ciascun dollaro speso serve ad acquistare merci statunitensi e da cui arriva negli Usa più petrolio di quanto ne arriva dall’intero Medio Oriente. Non sorprende, dunque, che la superpotenza nordamericana punti a stringere sempre di più il cappio dell’integrazione economica (leggi: colonizzazione), uniformando l’intero continente in un’area di libero scambio (la famigerata Alca) entro cui merci e capitali Usa possano imporsi e circolare liberamente. Ancor meno deve sorprendere che l’Ussouthcom (United States Southern Command) – l’agenzia competente sul piano militare per il Sud America, l’America Centrale e i Carabi – abbia disseminato questo immenso territorio di basi Usa: una vera e propria “rete di basi imperiali ‘contra’ ”, formalmente incaricata di combattere il crimine, la corruzione e la droga; di fatto, impegnata a stroncare manu militari qualunque opposizione che intralci gli interessi a stelle e strisce. E’ dunque lo stato – in questo caso, lo stato collocato al vertice dell’Occidente capitalistico – che organizza la propria sfera di influenza, convoglia risorse, predispone i mezzi (economici ed extraeconomici) necessari al consolidamento della propria posizione dominante. Lo stato “crea la struttura in cui il capitale circola”.

COMPETIZIONE TRA POLICAPITALISTICI

Precisamente la suddetta istanza ad un tempo ‘disgregante’ e ‘attraente’ serve a spiegare l’attuale tendenza alla costituzione di ‘poli’ capitalistici, omogenei al loro interno ed in competizione tra loro, entro cui i singoli stati si coordinano nell’intento di conseguire una dimensione ottimale nell’agone della concorrenza internazionale. Attorno a tali entità continentali e alle principali compagini statuali che le costituiscono (gli Stati Uniti, l’Unione Europea con l’asse franco/tedesco, il Giappone e l’area asiatica) è ridisegnata l’odierna gerarchia capitalistica e – soprattutto a partire dagli anni ’90 e, più recentemente, con l’inaugurazione dell’euro – acquistano nuova visibilità le conflittualità interimperialiste. La statualità resta un elemento chiave e ciascun polo capitalistico protegge le proprie imprese multinazionali, predispone (con gli strumenti della diplomazia internazionale ma, se necessario, anche con la guerra) le condizioni più favorevoli al loro sviluppo: “nessuna multinazionale, da sola o insieme ad altre, ha avuto il potere e l’autorità di trasformare le strutture economiche e sociali che hanno permesso al capitale di affluire in massa nei mercati esteri” (p.28). Le imprese multinazionali producono, comprano e vendono globalmente, ma i loro centri di comando si trovano negli Usa, nei principali paesi dell’Unione Europea, in Giappone; e le loro strategie su investimenti e nuove tecnologie sono coordinate e controllate nei quartier-generali dei rispettivi stati guida. Questi ultimi e la loro politica estera rendono possibile la loro espansione globale: l’economia globalizzata è ben lungi dal poter fare a meno del potere degli stati. Analogamente, non regge la tesi secondo cui ai governi degli stati sarebbe ormai subentrata una sorta di governo mondiale, esercitato nelle sedi degli istituti finanziari internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale ecc.). Coloro che decidono per conto di questi istituti sono diretta espressione degli stati guida e delle multinazionali che li influenzano, sono nominati dai governi di questi stati: così, “tutte le loro cruciali direttive di massima che regolano i prestiti e le condizioni per questi prestiti sono stabilite dai ministri economici, delle finanze e del tesoro degli stati ‘imperiali’ (…). La nomina nei consigli d’amministrazione delle istituzioni finanziarie internazionali è basata sulla proporzione dei fondi concessi da questi stessi stati” (p.74). In definitiva, le istituzioni sopranazionali non azzerano, al contrario consolidano la posizione dei poli capitalistici e dei loro stati guida.

L’IMPLOSIONE DEL “MITO TECNOLOGICO”

Venendo meno la nozione ideologica di un “nuovo capitalismo”, di un mercato mondiale in cui signoreggiano multinazionali globali che hanno ridotto ad anacronismo gli stati e la loro sovranità, si dissolve anche l’immagine mitologica di un sistema imperiale privo di centro, astatuale, non-luogo di un potere disperso, che non invade e sottomette ma include, ritessendo reti in uno spazio aperto e senza confini interni. Gli autori di Clash!, drasticamente e salutarmente, ci invitano ad un brusco risveglio. In particolare, sulla base di una minuziosa raccolta di dati, essi contestano un’altra importante tesi posta a sostegno del “mito acritico della globalizzazione” e attinente l’evoluzione della struttura capitalistica: si tratta di una riedizione dell’idea secondo cui grazie all’innovazione tecnologica possono essere aboliti i rapporti sociali vigenti, può essere trasformato nella sua essenza il modo di produzione capitalistico. Per tutti gli anni ’90, i cantori del pensiero unico (ma anche qualche maître à penser della sinistra) hanno celebrato la rivoluzione informatica come un evento che non solo modifica in profondità le condizioni ‘tecniche’ della produzione, ma contribuisce in modo determinante a liquidare il vecchiume del capitalismo novecentesco (con il suo sfruttamento e le sue crisi cicliche), rendendo obsoleta la ‘vecchia economia’ della manifattura e assicurando con il just in time una crescita continua e stabile. Su tutti costoro la crisi recessiva 2000/2002 è piovuta come un macigno: il crollo dei titoli tecnologici (e segnatamente di quelli del settore informatico, che tra il 2000 e il 2001 hanno perso l’80% del loro valore) ha travolto i sogni apologetici dell’ ‘economia di rete’, l’illusione di quanti predicavano l’avvento della ‘comunità del software free e dell’open source’ sulle ceneri della cosiddetta ‘cultura lavorista e dirigista’, dimenticando che le leggi della creazione di valore (e plusvalore) non dipendono dalla materialità o immaterialità delle merci e dei mezzi impiegati per produrle.
In realtà – sottolineano Casadio/Petras Vasapollo – studi dettagliati mostrano che la produttività dell’industria statunitense nel periodo 1953/1972 (dunque lungo un arco temporale che precede la cosiddetta ‘rivoluzione informatica’) ha fatto registrare un incremento medio del 2,5%, mentre dal 1973 al 1995 è cresciuta meno della metà. Nella fase alta del ciclo, tra il 1995 e il 1999, l’Information Technology (IT) ha succhiato centinaia di migliaia di dollari, sovracapitalizzando un settore che pure non ha generato rendite consistenti o significative ricadute produttive. Indagini empiriche, come quella condotta dall’Istituto Mc Kinsey Global, dimostrano che il miglioramento della performance economica Usa nel suddetto periodo va ascritto ad un piccolo numero di settori industriali e non, specificamente, all’aumento di investimenti in IT. Al contrario, lo studio conferma che in molti settori grandi aumenti di investimenti in IT non hanno comportato aumenti di produttività. Piuttosto, i dati concernenti quest’ultima – che è misurata sull’output per lavoratore – sono stati gonfiati dalla presenza di cinque milioni di immigrati illegali, che le statistiche ufficiali misconoscono e che tuttavia hanno inondato negli anni ’90 il mercato del lavoro Usa. L’esaltazione ideologica delle nuove tecnologie – e la connessa sovrastima della loro profittabilità – si è resa evidente in un altro settore di punta della ‘nuova economia’: tra il 1999 e il 2000 oltre 100 milioni di miglia di fibre ottiche sono state dislocate nel mondo, decine di miliardi di dollari sono stati spesi dalle imprese per la costruzione delle reti di comunicazione. Precisamente tali costi astronomici, insieme ai deludenti risultati aziendali (solo il 5% delle fibre è stato utilizzato), hanno comportato per l’industria della comunicazione declino degli investimenti e perdite colossali come quelle subite dai due giganti del settore Lucent Technologies e Nortel. Così, all’inizio del nuovo secolo, è maturata la recessione, a conferma del persistere del ciclo economico, con i suoi picchi e i suoi minimi, per di più accentuati dalla natura speculativa della cosiddetta ‘nuova economia’: gli alti profitti dei primi in-vestitori hanno trascinato il fallimento di quelli successivi, i mercati si sono saturati, le rendite per pubblicità su Internet sono crollate, la produzione di software e hardware è precipitata in una crisi strutturale, i titoli sono crollati ad una frazione del loro valore. Ed è tornato a prendere quota il dramma del declino della domanda (bassi salari) e delle ristrutturazioni (licenziamenti) : e, con esso, tutto il ‘vecchiume novecentesco’ centrato sul conflitto tra capitale e lavoro.

L’ATTUALE IMPERIALISMO

Di qui, l’impietoso giudizio con cui Clash! conclude la suddetta analisi: le teorie sulla globalizzazione ma anche quella dell’impero rappresentano “una vasta sintesi della schiuma intellettuale sulla globalizzazione, il post-modernismo e il post- marxismo” che però “spiega ben poco del mondo reale” (p.195). L’imperialismo e lo “scontro tra potenze” sono, come si è visto, un dato della realtà attuale, la quale va però descritta nei suoi tratti peculiari, evitando schematismi e dogmatiche generalizzazioni. Quella attuale – insistono i tre autori – è una realtà contraddittoria che non si presta ad esser rinchiusa negli schemi di una storicità lineare: non c’è un’evoluzione per stadi, da un passato selvaggio e retrivo ad una modernità caratterizzata da un nuovo proletariato industriale e da tecnologie innovative. L’odierno imperialismo combina il nuovo con il retrogrado, in società profondamente polarizzate: “Lavoratori senza terra e contadini falliti, che sopravvivono al livello della sussistenza, sono lavoratori temporanei su fattorie societarie esportatrici di agrumi che applicano le più recenti tecniche nei semi geneticamente modificati e nella commercializzazione computerizzata; i più moderni ed eleganti venditori di vestiario importano merci attraverso il subappalto, dove si impiegano giovani donne lavoratrici pagate con salari da povertà, in luoghi in cui si lavora in condizioni terribili; schiavi sessuali, bianchi/ gialli/neri, inclusi dei bambini, sono sfruttati da bande internazionali criminali organizzate che reinvestono in moderni beni immobiliari, obbligazioni di stato e aree commerciali negli Stati Uniti, in Europa e nell’America Latina” (pp.320-1). E il saccheggio che caratterizzò gli albori del capitalismo si ripropone oggi sotto la forma di giganteschi trasferimenti di denaro illecito con la mediazione delle banche, espediente tutt’altro che secondario di sostegno al deficit commerciale Usa: “La portata e la profondità delle frodi fiscali e l’appropriazione di risorse finanziarie da milioni di risparmiatori delle classi medie e medio-basse latinoamericane è di proporzioni sistemiche”( p.318).
Ma anche nelle periferie sociali del Primo mondo cresce l’ “incertezza dell’esistenza” di cui parlò Engels: aumentano i precari e si aggrava il fenomeno dei working poors, processi di deregolamentazione del lavoro investono tutti i settori fino ad arrivare ai servizi e alla pubblica amministrazione, il lavoro autonomo si caratterizza sempre di più come lavoro subalterno e autosfruttamento. Si tratta di sviluppi peculiari all’attuale fase del capitalismo, ma che in generale “ribadiscono una delle tesi fondamentali di Marx, quella cioè dell’intensificazione del processo di proletarizzazione in seno alla società capitalistica, dell’incremento seppur in forme diverse e articolate del lavoro salariato”( pp.371-2). Non è dunque derubricata l’esigenza di una ricomposizione degli sfruttati e, a tal fine, la necessità di un’organizzazione comunista.