Nel leggere le dichiarazioni di questi giorni di autorevoli esponenti del Partito Democratico, dallo stesso Prodi, al candidato alla segreteria del partito Veltroni, per passare a Rutelli e via via agli altri, se ne potrebbe dedurre che è in atto uno scontro titanico, in vista della prossima finanziaria, sulla questione delle tasse o, per meglio dire, sulla riduzione delle stesse. Si fronteggerebbero insomma due partiti: i “rigoristi” da un lato, intenzionati a salvaguardare il dogma della priorità assoluta della riduzione del debito, ed inclini per questo a soprassedere alla riduzione delle imposte, e i sostenitori della defiscalizzazione, dall’altro, le cui finalità non sono peraltro univoche. In questo secondo schieramento, infatti, si ritrovano personalità diverse: Veltroni, Rutelli, Montezemolo, perfino qualche sindacalista.
Che c’è di vero in questa rappresentazione? Probabilmente molto poco, nel senso che questa contrapposizione in realtà è più apparente che reale, come giustamente ha sostenuto sulle pagine del Corriere Salvati. In realtà quello che potrebbe essere in discussione è – al limite – l’entità dello sgravio fiscale, non certo la sua assunzione nell’orientamento di governo. Se Padoa Schioppa e Prodi sono così cauti è semplicemente perché una escalation nelle richieste di riduzione delle tasse potrebbe provocare un effetto indesiderato sulla manovra finanziaria. Ma c’è da scommettere che, alla fin fine, i vari attori di questa querelle estiva si metteranno d’accordo.
Più che concentrarsi sulle supposte divisioni presenti nel governo, converrebbe allora riflettere attentamente sul senso di questa offensiva fiscale e sulle sue implicazioni sul complesso della manovra economica. L’impostazione generale del Ministro dell’economia, contenuta nella proposta di DPEF e rafforzata dalle ultime dichiarazioni, è nota. Per rispettare gli obiettivi macroeconomici dati è necessario contenere la spesa pubblica ai livelli attuali, conseguentemente se si debbono fare spese aggiuntive a quelle ordinarie si deve procedere contestualmente a tagli in altri settori. Il dibattito sulla riduzione delle tasse muove da questo vincolo.
Le implicazioni sono diverse.
La prima riguarda gli effetti che si producono sulla spesa pubblica. Infatti, secondo l’impostazione richiamata più si comprimono i vari tributi, più si deve comprimere la spesa pubblica. Ma a tal proposito se il richiamo alla necessità di una razionalizzazione della spesa può apparire in astratto convincente, ben si sa che non solo essa è molto difficile da ottenere per le resistenze che inevitabilmente scatena – come giustamente sottolinea Salvati – ma, soprattutto, è assai dubbio che alla fine non si traduca in abusi e distorsioni. La vicenda delle pensioni non ne è forse una dimostrazione? Non è forse vero che l’analisi dei bilanci dell’INPS poteva benissimo giustificare il non allungamento dell’età pensionabile ed invece si è voluto procedere in questo senso con l’obiettivo di ridurre comunque la spesa? Il confine fa comportamenti virtuosi e strumentali è dunque molto labile.
A tale proposito, nelle resistenze dei ministri ai tagli, non sta solo una tendenza alla tutela corporativa della propria fetta di bilancio, ma anche considerazioni sacrosante. Basti pensare alla riduzione già subita dal ministero della Pubblica istruzione o alle risorse del tutto insufficienti di quello della Solidarietà sociale. D’altra parte esiste nel paese un deficit di intervento dello stato sociale, ampiamente documentato, per coprire il quale occorrono ampie risorse, ed è assai dubbio che la logica delle compensazioni possa risolvere il problema.
L’intervento sulla riduzione della pressione fiscale reca in sé, quindi, questa sostanziale ambiguità. Verrebbe sostenuto con simmetriche riduzioni della spesa pubblica ed il rischio che in tal modo si dia con una mano per togliere con l’altra è del tutto evidente. Si pensi alla proposta di abbattimento dell’ICI. Come è noto l’ICI costituisce una fonte di risorse tutt’altro che marginale per i comuni. Se si dovesse ridurre, come si compenserebbero gli enti locali delle risorse mancanti? Oppure si considera l’operazione come una stretta virtuosa nella prospettiva della “razionalizzazione” della spesa pubblica locale?
Ma vi è una seconda implicazione che merita di essere richiamata e riguarda l’utilizzo della leva fiscale in chiave redistributiva. Un approccio che naturalmente ha fatto proseliti anche a sinistra, spingendo alcuni a sostenere (a mio avviso incautamente) le ragioni di Veltroni-Rutelli in alternativa a quelle di Prodi-Padoa Schioppa. Il punto è che, anche ammettendo che una politica di riduzione fiscale potesse favorire un’operazione di redistribuzione del reddito, ciò richiederebbe che la stessa fosse praticata con criteri rigorosamente progressivi, evitando le distorsioni provocate nella scorsa finanziaria dal meccanismo di riduzione dell’IRPEF per fasce di reddito e di incremento degli assegni famigliari, che per esempio ha finito con l’escludere dai benefici la fascia degli incapienti. Ma anche su questo non c’è da stare tranquilli.
La questione fondamentale, tuttavia, è che avendo assunto come paradigma la riduzione delle tasse, anziché la redistribuzione del reddito, è fortemente dubbio che alla fine la manovra finanziaria si chiuda con il raggiungimento di una maggiore equità. Sul carro della riduzione della pressione fiscale, infatti, sono saliti tutti, a partire dalla Confindustria. Anche qui vale la pena chiedersi: fino a che punto gli sgravi dell’IRES per le imprese verranno compensati con una riduzione degli attuali incentivi? C’è molto da dubitarne, specie se si considera che la logica vorrebbe che i primi incentivi da sopprimere dovrebbero essere quelli incautamente introdotti – sempre nella scorsa finanziaria – attraverso il taglio del cuneo fiscale. Ma qualcuno ha detto qualche parola chiara a riguardo?