L’Italia ha pianto i suoi morti. Per la maggior parte erano uomini del Sud, della Sicilia, della Sardegna, della Campania. Ancora una volta nella tragedia di Nassiriya si è mostrato il volto di un Sud povero che cerca il suo riscatto nei carabinieri e nell’esercito, ed è sempre il primo a morire. Ma l’abbraccio, come è stato chiamato, è stato di tutto il Paese, che dal Nord al Sud ha espresso una stessa coscienza nazionale e ha dato un segnale di unità, contro l’ideologia secessionista di Bossi e contro una politica che ha preteso di spaccare l’Italia in due campi contrapposti, per rendere più incondizionato il potere.
Ma in quale mondo si è compiuto il grande rito del dolore collettivo? Il giorno dopo quello dei funerali, nella trasmissione di Giuliano Ferrara su La 7, Adriano Sofri ha detto che il mondo è spacciato; e a Bertinotti che parlava di un movimento per cambiare lo stato di cose presente, che lui chiamava comunismo, Giuliano Ferrara ha replicato che il comunismo del sogno è peggio del comunismo reale, perché nessun altro mondo è possibile; e Barbara Palombelli ha bollato anche il risveglio religioso, che avrebbe sostituito a suo parere le morte ideologie, come matrice e ingrediente del terrorismo. Dunque la cultura che circola e che fa scuola è una cultura disperata; dice che il mondo è perduto, e non c’è niente da fare. Ma allora si capisce come in un mondo vissuto come insanabile, come ostile, come un oscuro intrico di mali, viga il principio del “si salvi chi può’”; e perciò Israele alza il Muro, illudendosi di riversare il male solo sui palestinesi, mentre nello stesso Israele si avverte che questo è un suicidio; perciò l’America teorizza che per lei non c’è altra sicurezza che nel dominio del mondo e nella guerra portata fino all’estremo, e fallisce, non essendo mai stata più insicura e infelice di ora; e perciò in Italia si riconsacra e si fa tornare al centro di tutti i simboli il sacrario dei Caduti, il Vittoriano, e il rito collettivo in cui si celebra la ritrovata unità nazionale è un rito funebre. Consapevoli o no, abbiamo messo non l’immaginazione, ma la morte, al potere.
Eppure l’alternativa c’è, ed è quella della pace, senza nichilismo e senza codardia.
È molto significativo che per poter celebrare i morti di Nassiriya si è dovuto dire che essi sono morti per la pace, e che la spedizione italiana in Iraq era una missione di pace. Naturalmente non è vero; si partecipa a un’occupazione militare, frutto di un’aggressione, e la guerra è ripresa in piena regola, con bombe missili e aerei; e anche se la percezione soggettiva dei soldati italiani era, almeno fino alla strage di Nassirya, di essere lì per la pace e per fare il bene degli iracheni, gli iracheni non li considerano così e il Tigri ha il diritto di mormorare, come mormorava il Piave, “non passa lo straniero”. Per il governo c’era perciò il rischio che si risolvesse in una catastrofe politica una missione che esso aveva deciso alla leggera, senza immaginare, come hanno detto Berlusconi e il suo ministro della Difesa dinanzi ai feretri, che sarebbe stata così pericolosa. Così, per venirne fuori, il governo ha dovuto alzare un monumento alla pace e officiare una liturgia di pace; anche se ciò è costato a Berlusconi dover cedere la scena a Ciampi, e nascondersi dietro l’inaudito “Non fuggiremo” del cardinale Ruini, per dire che ormai non sa come uscire da questo vicolo cieco; e anche se l’ex Presidente Cossiga e il ministro degli Interni Pisanu deferiscono grottescamente all’autorità ecclesiastica i vescovi che invece annunciano la pace.
Ma se per elaborare il lutto nazionale è stato necessario viverlo come un lutto di pace, e se la gente ha dovuto assolutamente credere che i giovani carabinieri, e i quattro soldati di scorta alla troupe cinematografica, e i due civili morti per girare il film sul contingente italiano, siano caduti per la pace, allora la pace deve essere ora presa sul serio; allora la pace deve adesso diventare una politica, deve cessare di essere usata come un altro nome della guerra. E mentre le scelte di Bush, di Blair, di Sharon hanno fatto saltare tutti gli argini, e hanno scatenato una lotta di tutti contro tutti in tutto il mondo, riportandolo a quello “stato di natura” precivile ipotizzato da Hobbes, prendere sul serio la pace vuol dire rientrare nella Costituzione, rientrare nella legalità internazionale, ristabilire il diritto, ripristinare il ruolo dell’ONU, riconoscere gli avversari come interlocutori, e non come “belve” o terroristi assassini “a cui non si possono mandare fiori”, come dice il ministro Martino a “Porta a porta”.
Prendere sul serio la pace non vuol dire “affrettare il ritiro dall’Iraq”, visto come scotta; vuol dire recedere dall’invasione, ritirare tutte le forze occupanti, e attraverso questa necessaria discontinuità lasciare i poteri a un governo iracheno, e in forza di una nuova risoluzione dell’ONU inviare, per la transizione, una forza effettivamente di pace, di caschi blu, formata da Paesi non belligeranti, che non hanno partecipato né all’invasione né all’occupazione successiva. Prendere sul serio la pace vuol dire riparare il male inflitto all’Iraq, fin dall’embargo, vuol dire togliere l’assedio ai palestinesi, vuol dire credere che il mondo si può salvare.