In un giorno del 1993 un poco noto studioso venezuelano, Jorge Giordani, chiese ed ottenne di poter visitare in carcere Hugo Chavez, l’ufficiale che l’anno prima aveva tentato un colpo di Stato, colpo fallito per mancanza, fra l’altro, di una seria preparazione. Giordani trovò Chavez che stava leggendo testi di economia ed un libro di Antonio Gramsci. Oggi Hugo Chavez è il presidente del Venezuela e Jorge Giordani è il ministro della Pianificazione e capo dell’Osservatorio contro la corruzione. Giordani non potrebbe presentare credenziali migliori. Suo padre era un muratore romagnolo che riparò in Francia al tempo del fascismo, combatté in Spagna nelle Brigate Internazionali, ed alla caduta della Repubblica spagnola se ne andò in America. Il giovane Jorge è diventato un economista, insegna all’Università ed ha, già da tempo, fatto una scoperta sensazionale: tutta l’economia del Venezuela è basata sulla truffa. Tanto per fermarci al petrolio (il Venezuela è il più grande fornitore di greggio degli Stati Uniti subito dopo l’Arabia Saudita) Giordani ha dimostrato che più del trenta per cento del greggio prodotto in Venezuela viene esportato in nero, cioè non si sa chi lo abbia venduto, chi lo abbia acquistato, chi abbia incassato i soldi. Uscito dal carcere nel 1994, Hugo Chavez ha cominciato a tessere una fitta rete di rapporti e alleanze, la maggior parte orientate in un modo o nell’altro a sinistra, ha costituito un cartello elettorale, chiamato Polo patriottico, che comprende i comunisti, e il 6 dicembre 1998 ha vinto le elezioni presidenziali con quasi il 57% dei voti. Il 2 febbraio 1999 ha indetto un referendum per l’elezione di un’assemblea costituente. Il 25 aprile successivo il popolo ha approvato la proposta di Chavez con il 90% dei voti. Qualche mese dopo, il 25 luglio, i partiti che sostengono Chavez hanno ottenuto il 93%; l’assemblea costituente si proclama “originaria e sovrana”, dissolve tutti i poteri costituiti e decreta la riorganizzazione di tutti i poteri dello Stato. Dalla caduta della dittatura militare di Marcos Perez Jimenez nel 1958, il Venezuela ha vissuto quarant’anni di quella caricatura di “democrazia” tipica dei Paesi del subcontinente americano, quei Paesi che, come amaramente dicono i messicani ma non soltanto loro, sono così lontani da dio e così vicino agli Stati Uniti. Oligarchie sedicenti liberali ed oligarchie sedicenti socialdemocratiche si sono alternate al potere in Venezuela facendo a gare tra chi rubava di più, meglio e più in fretta. L’unico scatto, ma uno scatto non da poco, la nazionalizzazione del petrolio decisa dal presidente Carlos Andres Perez nel 1976. Un altro “scatto”, ma di segno opposto, è avvenuto nel febbraio del 1989 quando un’ampia e violenta protesta popolare contro la crescente pauperizzazione delle masse venne repressa dal governo “socialdemocratico”: qualche ferito secondo il governo, centinaia di morti secondo l’opposizione. È a questa sanguinosa repressione che Hugo Chavez fa risalire la sua decisione di tentare il colpo, fallito, del 1992. Oggi la nuova Costituzione voluta da Chavez è chiamata la “Cartamagna”, con qualche forse involontario riferimento alla Magna Charta inglese di otto secoli or sono. Involontaria in quanto non si è mai capito bene perché quel famoso documento goda di tanta fama. Era in realtà la libertà che re Giovanni d’Inghilterra concedeva ai baroni, suoi feudatari, nel 1215. La “Cartamagna” di Hugo Chavez è fortemente centralista e quindi limitativa delle prerogative e dei poteri dei governatori (le diverse province del Venezuela). Ma, caso probabilmente unico fra le costituzioni moderne, dichiara guerra alla corruzione. La corruzione in Venezuela, come anche in molti altri Paesi dell’America Latina e non solo, fa parte integrante della vita pubblica e privata, è praticata con la tranquillità della norma, con la sicurezza dell’impunità. Fa parte delle regole, delle leggi non scritte, della politica, delle relazioni, dello Stato. E Hugo Chavez è probabilmente il primo presidente latino-americano che ha iscritto la lotta alla corruzione negli articoli della Costituzione del proprio Paese. I presidenti precedenti meno sciagurati, come ad esempio Carlos Andres Perez, non hanno mai pensato di combattere la corruzione ma pensavano che con i proventi del petrolio nazionalizzato sarebbe stato possibile intervenire per incidere in qualche modo in una situazione che vedeva, e vede tuttora, quasi tre venezuelani su quattro vivere al di sotto della soglia della povertà. Ed il Venezuela è un Paese ricchissimo. A parte il petrolio, possiede risorse minerarie immense e la fertilità di buona parte della terra potrebbe assicurare due se non tre raccolti all’anno. Ed invece il Venezuela deve importare oltre il 70% del fabbisogno alimentare. Quali potranno essere gli sviluppi della situazione venezuelana? Hugo Chavez parla di rivoluzione bolivarista, da Simon Bolìvar, uno dei massimi protagonisti delle guerre di indipendenza contro la Spagna nei primi decenni dell’Ottocento. E il generale Bolìvar nella sua lunga storia di lotta non pensava soltanto alla libertà del Venezuela ma ad uno Stato che comprendesse almeno, oltre il Venezuela, l’Ecuador, la Colombia e la Bolivia (che si chiama Bolivia proprio in suo onore). Chavez parla esplicitamente di un esercito bolivariano in funzione della grande patria latino-americana. Queste le parole. I fatti: al momento il delegato del Venezuela all’Onu non vota più come vuole la signorina Albright, il governo di Caracas ha rotto, e clamorosamente, l’isolamento di Cuba, Hugo Chavez si incontra col presidente Pastana della Colombia e con i dirigenti della guerriglia ai quali ha assicurato di avere chiuso gli spazi aerei ai voli americani che, facendo finta di combattere i narcotrafficanti, organizzavano gli aiuti militari contro la guerriglia. Ma le basi statunitensi sono lì, vicine alle coste venezuelane, nell’isola di Curaçao, una base che assomiglia molto a quella di Guantamano. Il richiamo a Simon Bolìvar da parte di un presidente venezuelano, che sa di vivere nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, è promettente perché è un richiamo a tutta l’America Latina, almeno a quella di lingua e cultura ispanica. Hugo Chavez non può non sapere di essersi posto in rotta di collisione con il potentissimo e spietato vicino del Nord. Si tratta, occorre riconoscerlo, di un fatto nuovo dopo il lento ma inesorabile declino e morte del movimento dei non allineati. Negli anni Cinquanta e Sessanta il movimento nei Paesi del Terzo Mondo era quasi ovunque guidato dalle “borghesie nazionali” alle quali il movimento comunista internazionale concesse crediti (finanziari e politici) forse eccessivi. Eccessivi in quanto era già evidente allora che le borghesie di quei Paesi – si pensi soltanto all’India, all’Indonesia, all’Egitto, ad alcuni neonati Stati africani – si sarebbero staccate, forse anche a malincuore, dall’orbita occidentale soltanto nella misura in cui il blocco contrapposto – quello sovietico – avesse dimostrato di essere il più forte. Ma nella prima metà degli anni Sessanta quattro avvenimenti convinsero del contrario le “borghesie nazionali”: la rottura cino-sovietica, l’assassinio di Patrice Lumumba e la katanghizzazione del Congo, il ritiro dei missili russi da Cuba (se quei missili non si potevano difendere sarebbe stato meglio non averli messi) ed il colpo di Stato fascista in Indonesia (1965) con la conseguente ecatombe dei militanti comunisti: mezzo milione di morti. La reazione dei comunisti nel mondo fu, in sostanza, quella di minimizzare quanto era accaduto. Le “borghesie nazionali” capirono immediatamente da quale parte tirava il vento e decisero di stare ben aggrappate all’Occidente. Oggi lo scenario è completamente diverso e di fronte ad un Paese, come il Venezuela, non vi è la scelta di schieramento fra blocchi contrapposti ma unicamente la scelta di battersi per l’indipendenza, contro la globalizzazione dell’economia, contro il saccheggio esterno ed interno della ricchezza nazionale, contro il pensiero unico, contro il debito estero che lo sostiene ma che al tempo stesso lo soffoca, esattamente come fa la corda con l’impiccato, contro la terrificante corruzione interna che è alimentata dalla dipendenza dalle multinazionali e dal mercato mondializzato le cui regole sono fissate (e cambiate) a seconda degli interessi, immediati ma anche a lungo termine, dei banchieri di Wall Street. In una parola, contro l’imperialismo. Gli elementi in nostro possesso dicono che il nuovo presidente del Venezuela conta su un vastissimo appoggio popolare, anche se, almeno per il momento, difetta di quadri adeguati. La sua ambizione è quella di annunciare il “ritorno” di Simon Bolìvar, il Libertador dell’America Latina, il generale che affermava che le armi dell’esercito non dovevano mai essere impiegate contro il popolo ma contro i nemici che l’affamavano (Hugo Chavez, ricordiamolo, è un ufficiale). Nel trionfale discorso tenuto all’Università dell’Avana, presente Fidel Castro, Chavez ha detto di non avere l’intenzione di assumere per il Venezuela il modello cubano ma di essere fermamente convinto di dover mutuare da Cuba l’assoluta fermezza nel difendere i principi ed il progetto rivoluzionario, lo spirito della Moncada, l’abnegazione e la determinazione della Sierra Maestra, e, ove necessario, la resistenza ad oltranza all’offensiva imperialista.