Il proletariato come esistenza naturalizzata, il dominio capitalistico come esercizio di sovranità

“Se il baco da seta dovesse tessere per campare la

sua esisteza come bruco, sarebbe un perfetto salariato”

K. Marx

Lo scambio tra capitale e forza lavoro compare nella produzione soltanto come sussistenza, il lavoro necessario non è infatti altro che la riproduzione del salario che è, a sua volta, la riproduzione dell’operaio nel consumo individuale immediato. Come Marx afferma “Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza […]”. Lavoro salariato e capitale, pag. 34, ed. it.

Il salario è considerato da Marx come l’unica forma pura di capitale circolante, peraltro “simultanea ed intrecciata” al processo produttivo. Essa, egli scrive, “pur non entrando nemmeno per un attimo nel processo di produzione stesso, lo accompagna costantemente. È quella parte del capitale che non rientra nemmeno per un attimo nel suo processo di riproduzione, cosa che non si verifica quando si tratta della materia prima. La sussistenza (approvvisionement) dell’operaio scaturisce dal processo di produzione come prodotto, come risultato; ma non vi entra mai in tale veste, perché è un prodotto finito per il consumo individuale, entra immediatamente nel consumo dell’operaio e viene immediatamente scambiato con esso. È questo dunque, a differenza tanto della materia prima quanto dello strumento di lavoro, il capitale circolante kat’exochèn (per eccellenza, n.d.r.)”. Grundrisse, Quaderno VI, p. 365, ed. it.

Come identità sociale data la classe operaia non è dunque che un soggetto di bisogni auto- riproduttivi immediati, una esistenza che può conservarsi solo alienandosi nello scambio con il capitale. In tale alienazione quel soggetto si conserva solo annientandosi, degradandosi a mera esistenza naturale che può riprodursi per mezzo di una determinata quota del prodotto sociale, calcolabile come frazione della giornata lavorativa. Ancora Marx: “L’esercizio della forza-lavoro, il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha […]. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto”. Lavoro salariato e capitale, pag. 34, ed. it. Così ancora nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, pag. 197, ed. it: “Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. […]

Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale etc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare etc. sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici”.

La vita del salariato viene dal capitale scissa ed opposta a se stessa. Una parte della sua vita, il lavoro, si presenta, infatti, come mezzo per l’altra: il consumo riproduttivo individuale e immediato. L’attività umana viene dunque qui ridotta al lavoro e, nello stesso tempo, non è più fine in sé, dipende da bisogni e da oggetti posti fuori di essa (il lavoro vivo sociale è solo un mezzo per procurarsi individualmente lavoro morto in forma di merci).

La riproduzione immediata ed individuale, a sua volta, in quanto isolata e contrapposta alla produzione, si presenta come inattività, inerzia spirituale, mera riproduzione animale. Ciò che è posto come vita spirituale dell’operaio (nell’etica del lavoro) non gli appartiene e gli appartiene soltanto ciò che deve apparire sua vita bestiale. Così Marx sintetizza, altrove, questo concetto: “Questa comunità, dalla quale il suo lavoro lo separa, è la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l’attività umana, l’umano piacere, la natura umana. La natura umana è la vera comunità umana”. Glosse marginali a Ruge, in “La questione ebraica”, p. 135, ed. it. Nel processo produttivo di capitale in tanto compaiono equivalenza e scambio in quanto entra in gioco questa figura della vita umana informe perché inattiva, identificata dal consumo individuale e immediato dei risultati della produzione, consumo ottenuto contrattualmente, a latere della produzione e come condizione di essa. Identità sociale e soggettività contrattuale si presentano nell’immediata esistenza del proletariato radicalmente svuotate , ricondotte all’imperativo della sopravvivenza, della conservazione della vita in quanto tale.

Nell’Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel , pagine 108/109, ed. it., dice Marx della classe operaia: “…è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato”. […] “Se il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo”.

Nel suo libro “Homo sacer” (1995) Giorgio Agamben ha impareggiabilmente ricostruito, dal punto di vista storico-filosofico, la logica giuridico-politica dell’eccezione come fondamento della sovranità statale moderna e la sua ascendenza metafisica. Così egli riassume la struttura logica paradossale del potere sovrano: “Non è l’eccezione che si sottrae alla regola, ma la regola che, sospendendosi, dà luogo all’eccezione e soltanto in questo modo si costituisce come regola, mantenendosi in relazione con quella. Il particolare “vigore” della legge consiste in questa capacità di mantenersi in relazione con un’esteriorità. Chiameremo relazione d’eccezione questa forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione”. Home sacer, p. 22. Nello stesso tempo Agamben ha mostrato l’intimo nesso della sovranità con ciò che Foucault definì “Biopolitica”: l’insieme delle pratiche istituzionali moderne volte a catturare nella comunicazione politica ciò che essa precedentemente giudicava incomunicabile. Si tratta dei mondi vitali, e delle pratiche comunitarie, irriducibili all’agire etico-discorsivo della tradizione politica pre-moderna: riproduzione sessuale, cura del corpo, trattamento della sofferenza mentale, erranze territoriali, ecc. Tutte dimensioni sociali, queste, che tradizionalmente la politica separava da sé come sfere di pura riproduzione vitale e che il potere statale moderno sempre più, invece, istituzionalizzerà e regolerà.

Agamben ha riconosciuto la comune radice assolutistica di sovranità statale moderna e “Biopolitica” nella logica di “eccezione”, di esclusione-inclusione, che esse stabiliscono rispettivamente verso l’ordinamento giuridico e verso la pratica riproduttiva umana assunta come “nuda vita”, socialità astrattamente naturale. Egli ha, soprattutto, indicato, attraverso ed oltre la moderna coappertenenza di norma ed eccezione e di devianza e conformità sociali, il fallimento storico del tentativo statuale di rispondere alla scissione metafisica originaria che inaugura in Occidente le prestazioni del potere: quella opposizione aristotelica di “vita” e “vita buona”, cioè di vita naturale ed esistenza politica che è, al fondo, opposizione di vitalità pratica e pratica linguistica. A giudizio di Agamben, tuttavia, il marxismo, come l’anarchismo, ha ignorato la struttura “biopolitica” del potere moderno e ne ha, perciò, condiviso il presupposto radicale e gli esiti totalitari. Credo, invece, possibile dimostrare che la critica marxista della dialettica nihilistica della valorizzazione, inseparabile dalla critica marxista del diritto e dello Stato, contiene tutti gli elementi essenziali della critica del fondamento “biopolitico” della sovranità e ne costituisce la più profonda determinazione strutturale e storico-epocale.

Scrive Marx: “il pagamento del salario è un atto di circolazione che si svolge simultaneamente e parallelamente al l’atto di produzione”. Grundrisse, Qua derno VI, p. 367, ed. it..

Dunque il lavoro necessario che, in quanto tempo di lavoro equivalente del salario, vale come lavoro oggettivato, valore, è per il capitale innanzitutto uso della forza-lavoro, lavoro vivo creatore di valore e fonte dell’accumulazione.

Come avviene tale rovesciamento?

Ancora Marx: “Il capitalista non scambia direttamente capitale con lavoro o tempo di lavoro; bensì un tempo definitivamente elaborato contenuto in merci, con un tempo elaborato contenuto nella forza-lavoro viva. Il tempo di lavoro vivo, che egli riceve nello scambio, non è il valore di scambio, bensì il valore d’uso della forza-lavoro”.

Grundrisse, Quaderno VI, p. 363, ed. it.

Ciò significa che lo scambio tra capitale e forza lavoro (“piccola circolazione”) viene dal capitale mantenuto formalmente all’interno del processo produttivo, ma in realtà sospeso; tale sospensione determina il passaggio dal valore al capitale, cioè dal salario come valore di scambio della forza-lavoro al lavoro vivo come valore d’uso della forza-lavoro nelle mani del capitalista.

Il dominio del capitale non è altro che il suo esercizio di sovranità sulla dimensione giuridica dello scambio che viene mantenuta ed insieme soppressa. Il contenuto dello scambio capitale-forza lavoro è per il capitale appropriazione, senza scambio, di lavoro vivo perché la classe operaia all’interno di quello scambio è inclusa come esclusa, cioè vi entra come merce perché sia capitale.

In quanto “soggetto produttivo” la classe operaia rappresenta nella forma più estrema l’oggetto immaginario del potere: la socialità ridotta ad astratta naturalità. Nello scambio capitale- forza lavoro il valore della forza-lavoro, la sua identità strutturale, è presente come assente, incluso ed escluso ad un tempo nella totalità sovrana del capitale. La riduzione della classe operaia a mera riproduzione fisica è, infatti, la condizione dello sfruttamento, dell’appropriazione capitalistica del suo lavoro vivo.

Come l’esercizio statale della sovranità, lo schimittiano potere di decidere lo Stato d’eccezione, la sovranità del capitale sul lavoro si dispiega con la logica giuridica della “exceptio” che lo Stato moderno interiorizza come principio di decisione politica: anche nel processo produttivo la norma (il contratto), come i rapporti sociali che esprime, viene sospesa per essere riprodotta, e con essa corollari quali relazione e riconoscimento, scambio e reciprocità. Si deve, anzi, dire che l’affermarsi della sovranità come tratto dominante della statualità moderna riposa interamente sulla reciproca implicazione di socialità naturalizzata e società civile.

Nello scritto “Sulla questione ebraica”, pagine 77/78, ed. it. Marx mirabilmente così riassumeva questo concetto: “La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione della società civile negli individui indipendenti – il cui rapporto è il diritto, così come il rapporto degli uomini degli stati e delle arti era il privilegio-si adempie in un medesimo atto. L’uomo in quanto membro della società civile, l’uomo non politico, appare perciò necessariamente come l’uomo naturale. I droits de l’homme appaiono come droits naturels, dacchè l’attività autocosciente si concentra nell’atto politico. […] La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza, come verso un presupposto non altrimenti fondato, perciò, come verso la sua base naturale.”

La relazione del capitale alla classe operaia come soggetto meramente contrattuale è la forma strutturale della sovranità giuridico-statuale. La logica dell’eccezione, l’inclusione-esclusione, è d’altra parte cooriginaria al diritto che è innanzitutto sotto questo riguardo presupposto e risultato dello Stato. Come Agamben dimostra: “Per riferirsi a qualcosa, una norma deve, infatti, presupporre ciò che è fuori dalla relazione (l’irrelato) e, nondimeno, stabilire in questo modo una relazione con esso. La relazione di eccezione esprime così semplicemente la struttura formale originaria della relazione giuridica”. Homo sacer, p. 23. In generale nel riconoscimento giuridico, come nello scambio mercantile, l’altro, il termine opposto della relazione, esiste in quanto cessa di esistere, riconoscere l’eguale diritto dell’altro significa soltanto una limitazione del proprio, indifferente alla vita e all’attività dell’altro.

Se io, perseguendo il mio diritto, posto come universale, non impedisco all’altro altrettale perseguimento, p.e. del diritto alla proprietà e al suo uso legittimo, rispetto la sua libertà; quale sia poi la vita dell’altro, cosa realmente faccia o possa fare è giuridicamente irrilevante. Commentando l’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese, Marx afferma: “La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il limite tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta delle libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. […]

Ma il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso. […] Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell’altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà”. La questione ebraica, p. 71-72, ed. it. Allo stesso modo nello scambio di valori la proprietà dell’altro, e quindi l’altro come proprietario, esistono per me in quanto non sono più tali, in quanto diventano mia proprietà ed esistenza proprietaria, e viceversa. Contratto e diritto come cardini della società civile sono, pertanto, l’intima scaturigine della decisione sovrana. Le figure, le pratiche e le teoriche dello Stato d’eccezione, di conseguenza, non comportano l’invalidazione della logica dello Stato di diritto ma il suo sviluppo critico ed effettuale. Per questa stessa ragione la problematica storica e teorica della transizione al socialismo e concetti come “dittatura del proletariato”, “egemonia operaia”, ecc. non possono essere compresi nella categoria di “Stato d’eccezione” poiché essi comportano il rovesciamento della logica strutturale della società civile.