Il “popolo di Genova”

Ognuno di noi ha compiuto, nella propria vita, alcune esperienze che si sono rivelate decisive sia da un punto di vista personale che politico. Quando queste travalicano i confini della soggettività individuale e sono vissute come una vicenda collettiva, arrivano allora a segnare, se non un’intera generazione, quantomeno una sua avanguardia, che finisce per riconoscersi mediante la loro condivisione e a rielaborare proprio a partire da esse la propria identità. È quanto è sempre accaduto nei momenti di eruzione dei grandi movimenti di massa, manifestazioni degli spostamenti tellurici che avvengono negli equilibri dei rapporti di forza sociali. Ed è quanto è avvenuto – in maniera insperata, in quest’epoca di ritirata e di difensiva delle classi subalterne – anche con le giornate di Genova del luglio 2001.
Muovendo dalle motivazioni più disparate, “la meglio gioventù” di questi ultimi anni si ritrova in quella città – insieme a migliaia di altre persone, testimoni di altre gioventù e altre lotte – per immergersi, suo malgrado, in un’esperienza vissuta dalla quale verrà fuori irreversibilmente scossa e trasformata. E così quest’esperienza, segnata dall’inattesa scoperta del volto più brutale e repressivo del monopolio statale della forza, diviene un rito di passaggio che dà consapevolezza di sé ad un’intera generazione e la fonde con quelle precedenti, dando vita al “popolo – senza limiti di età – di Genova”.
A due anni di distanza da quegli avvenimenti è possibile oggi tentare un primo bilancio di quel passaggio e riflettere sull’incontro di queste generazioni e sul loro nuovo percorso comune. È ciò che tenta di fare Vittorio Agnoletto, uno dei principali protagonisti delle mobilitazioni degli ultimi anni, con il libro Prima persone. Le nostre ragioni contro questa globalizzazione (Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 245, Euro 14). Agnoletto – che a Genova, come è noto, era portavoce del Genoa Social Forum – si misura qui con una serie di questioni. Anzitutto, un tentativo di definizione del movimento noglobal, o, per meglio dire, newglobal: le sue origini, i suoi caratteri, le sue novità rispetto ai movimenti dei cicli precedenti. In secondo luogo, un’analisi ragionata dei temi politico-sociali fondamentali di cui esso è portatore. Infine, egli tenta un bilancio delle iniziative effettuate e delle prospettive che si delineano dopo la fine “ufficiale” della guerra – in realtà tutt’altro che conclusa – all’Iraq.
Le questioni che il movimento ha da qualche anno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica sono note: l’analisi critica della “globalizzazione neoliberista”, la denuncia della natura antidemocratica delle istituzioni internazionali (G8, FMI, BM, WTO) e del loro funzionamento perverso, il ruolo dello Stato nazione, i grandi problemi globali come l’ambiente e le risorse idriche, il diritto universale alla mobilità delle persone e le connesse questioni di cittadinanza, l’avvento della “società del rischio” (per usare un’espressione di Ulrich Beck) per via delle logiche di precarizzazione impostesi sul mercato del lavoro mondiale… Sul merito di questi punti, il dibattito è ovviamente tuttora aperto, le opinioni sono diverse e in confronto tra di loro, e nessuna prospettiva – nemmeno quella di Agnoletto – può essere considerata definitiva. Più interessante e difficile, piuttosto, è tentare di fornire una definizione del movimento e una sintesi della sua natura, a causa dell’intrinseca e conclamata “pluralità” che sin dall’inizio lo caratterizza.
È proprio su questo punto che le parole di Agnoletto sono particolarmente interessanti e aprono una prospettiva nuova di riflessione dal punto di vista storico. Il movimento nasce – è quanto ci pare di capire – dalla spinta etica e persino religiosa che anima le nuove generazioni, ma esso suscita rapidamente, a partire dall’incontro con esperienze e storie diverse e più antiche, e soprattutto dal confronto con le contraddizioni reali, un processo di maturazione politica. Un processo di crescita che lo fa andare oltre queste radici originali, spingendolo a coniugare l’esigenza di un’assunzione di responsabilità individuale rispetto ai modelli di vita e di consumo vigenti nelle società occidentali con quella, ben più importante per noi, di una trasformazione generale del mondo. Esso va inteso sostanzialmente, dunque, come una radicale esperienza di (ri-)politicizzazione di massa.
La dimensione religiosa cui abbiamo accennato (religiosa, s’intende, in senso lato, e non certo in senso confessionale) è esplicita a nostro avviso sin nel titolo che Agnoletto ha dato al suo libro. In esso viene colto “l’obiettivo ultimo del nostro movimento”, dice egli stesso. E cioè, “ogni persona, indipendentemente dal genere, dalla religione, dal colore della pelle e dalla regione del pianeta dove ha avuto il destino di nascere, deve essere il centro dei nostri progetti e delle nostre preoccupazioni per il mondo futuro che stiamo costruendo”. In altre parole, “Prima di essere consumatori siamo persone. Prima di essere italiani o africani siamo persone. Prima di professarci cristiani o buddisti siamo persone. Una globalizzazione che cancella la nostra dignità di persone in nome dell’ideologia del mercato va combattuta” (p. 5).
Esiste, come è noto, una lunga e articolata tradizione di affermazione dei diritti universali, così come esiste un’altrettanto ricca critica dell’alienazione e dei processi di reificazione capitalistica. Agnoletto però non parla in questo testo di “uomo”, e non si ricollega dunque all’umanesimo marxista; né egli parla mai di “individuo”, contestando implicitamente l’accezione che questo termine ha assunto nella vulgata liberale. Egli parla, piuttosto, di “persona”, finendo per svelare un’ispirazione latente che risale ad un filone culturale ben preciso. Si tratta, ci sembra, di quel personalismo che, elaborato in maniera diversa negli anni Trenta da Mounier, Marcel e altri autori, nel corso del Novecento è stato alla base delle più importanti esperienze di critianesimo progressista in Europa. Una posizione che ha trovato terreno fertile anche nel nostro Paese, e che ha vivificato quella sorta di abbozzo di “rivoluzione cattolica” rappresentata dal Concilio Vaticano II e dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. È a questa linea – capace in passato anche di un proficuo dialogo con la cultura marxista – che non nasconde di richiamarsi, per capirci, un altro importante testimone dell’impegno sociale di questi ultimi anni come Alex Zanotelli.
La dimensione etica che ispira il movimento è certamente più facile da scoprire. “Dal 1950 ad oggi”, dice Agnoletto, “il commercio mondiale si è moltiplicato per 11 e la crescita economica per 5, ma, nello stesso periodo, si è verificata una crescita senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente”. Il risultato è che “negli anni Sessanta il divario tra il 20% più ricco e il 20% più povero era di 1 a 30, nel 1995 di 1 a 82, con il 20% della popolazione mondiale che consuma l’86% delle risorse complessive” (102). Risuonano evidenti, in queste parole, lo sdegno morale per il funzionamento perverso della distribuzione mondiale delle risorse e l’esigenza di regole di una giustizia pur minima nel rapporto tra Nord e Sud del mondo. La cosa importante è però, per quanto ci riguarda, il fatto che questa spinta etica non rimanga tale ma si trasformi, sino a diventare una potente esperienza politica.
Per capire questo passaggio è necessario risalire alle radici del movimento, ripercorrendo sinteticamente la dialettica storica dalla quale esso è nato. Particolarmente importante è a tal fine questo brano: “In Italia il movimento affonda le radici della sua attuale conformazione almeno nella seconda metà degli anni Ottanta, quando decine di migliaia di donne e di uomini abbandonano, delusi e bruciati dalle sconfitte, la militanza politica tradizionale. Molti scelgono di proseguire il proprio impegno nella militanza sociale; concorrono così ad animare centinaia di associazioni di volontariato e di solidarietà, di cooperative sociali, di organizzazioni non governative, di luoghi dell’agire collettivo competente ove s’incontrano con tanti altri, provenienti da ambienti cattolici o da specifiche esperienze professionali, che non erano mai stati coinvolti in precedenti militanze politiche” (p. 12).
Ci sembra una contestualizzazione corretta. A metà degli anni Ottanta si consumava in Italia l’esaurimento di un ciclo ventennale di lotte, che, cominciato con l’irrompere del Sessantotto e con l’autunno caldo, aveva attraversato gli anni di piombo ed era ormai giunto irreversibilmente al capolinea, seppur dopo aver inciso in profondità sulla realtà sociale del Paese. La sconfitta operaia alla Fiat, il fallimento del referendum sulla Scala mobile, la morte simbolica di Enrico Berlinguer: erano tutti chiari sintomi di un profondo riaggiustamento nei rapporti di forza sociali che stava conducendo alla riscossa padronale e alla sconfitta delle classi subalterne. Una sconfitta sul piano della lotta di classe che mostrava una portata planetaria, e che porterà di lì a qualche anno allo smantellamento degli stessi sistemi socialisti. Reagan e la Tatcher, e Craxi in Italia, erano i battistrada di quell’involuzione generale in ambito politico e sociale che accompagnerà un nuovo ciclo. Quel ciclo liberista di cui oggi le classi subalterne di tutto il mondo soffrono gli effetti, e rispetto al quale il movimento newglobal rappresenta la prima forma esplicita di contestazione.
Quando ad un potente movimento di lotta non resta altro che ammettere la propria sconfitta politica, il riflusso di massa nella dimensione privata costituisce – per fasi più o meno lunghe – un esito normale e per lo più inevitabile. È quanto era avvenuto, per citare un esempio illustre, al termine della grande vampata rivoluzionaria del 1848. Le più avanzate condizioni sociali e culturali dell’Italia degli anni Ottanta – e lo sviluppo concomitante di tutta una rete di associazioni, alcune maturate nel corso delle esperienze di mobilitazione di quegli anni, altre già consolidate nell’alveo di quel grande “organizzatore di società” che è stato il PCI, altre ancora nate dopo – impedisce una dispersione totale del vissuto elaborato nella fase precedente e ne consente la conservazione in forme diverse. Forme che presentano, ovviamente, un grado di politicità minore – ispirate come sono “all’idea della praticabilità di progetti parziali e settoriali in grado di incidere sulle situazioni di malessere e ingiustizia presenti nella società” (ibidem) –, ma che consentono all’istanza politica di continuare a covare, nonostante tutto, sotto la cenere.
Ecco che si costituisce la figura di un “nuovo militante”, dei “militanti sociali” (p. 13), concentrati a sviluppare le loro “competenze specifiche” e il “fare” su singoli progetti. È chiaro che si sconta qui la perdita di quell’orizzonte complessivo che è il presupposto di un’azione politica generale. E però la tensione politica permane, come è messo in evidenza dalla diversa scelta terminologica che Agnoletto compie rispetto ad un altro interprete di questi fenomeni, Marco Revelli (il quale, in Oltre il Novecento, aveva invece affermato la definitiva scomparsa del “militante” nella nuova figura del “volontario”). Si può dire che la militanza sociale conservi in chiave etica la spinta politica, impedendone una completa dissoluzione e consentendone poi il risveglio, nel momento in cui le condizioni saranno mature. Ecco infatti che, ad un certo punto, si innesca “un processo di crescita che finirà per determinare una svolta” (p. 13). Emerge “una nuova consapevolezza della necessità di un approccio non settoriale”. Le parti in causa comprendono il nesso tra i problemi particolari e le “trasformazioni globali” e dunque avvertono la necessità di superare “l’approccio settoriale” in quanto “inefficace rispetto agli obiettivi”. Esse riscoprono la necessità di “un percorso collettivo più ampio”, nonché di “alleanze sempre più vaste”, con lo sforzo di organizzazione che ciò comporta. Riscoprono, in altre parole, la necessità della politica, come già era avvenuto in passato – ad esempio dopo la Prima guerra mondiale –, dopo altre e altrettanto gravi sconfitte del movimento dei lavoratori.
È per questo che è possibile, a nostro avviso, parlare del movimento attuale come di un’esperienza politica che – nonostante le dichiarazioni di principio di alcuni – si pone in piena continuità con quelle del passato e con la tradizione della sinistra novecentesca. Un’esperienza di ripoliticizzazione per le vecchie generazioni, che portano su di sé il retaggio delle precedenti lotte; un’esperienza di politicizzazione integrale per le nuove generazioni, che per la prima volta si affacciano sulla scena pubblica. Il problema è semmai – ma su questo non è certamente ad Agnoletto che è bisogna chiedere spiegazioni – lo stato di sostanziale impreparazione e inadeguatezza che, all’interno del più vasto fronte della sinistra, caratterizza i comunisti e le loro organizzazioni politiche nel momento del primo risveglio dei movimenti di massa.
Questa capacità politica progressiva del movimento si manifesta chiaramente, del resto, nell’atteggiamento verso la stessa “globalizzazione”. Non senza contraddizioni e difficoltà il movimento ha saputo superare ogni rischio di chiusura reazionaria e di arroccamento nostalgico, sviluppando una critica razionale dei processi di mondializzazione capitalistica che non si rifugia nelle mitologie premoderne ma afferma risolutamente la necessità di una globalizzazione “diversa”, non subordinata alle logiche del profitto. Esso, poi, fa un ulteriore salto di qualità nel momento in cui è costretto a confrontarsi con quel fenomeno che è il vero convitato di pietra del mondo post-Guerra fredda, e cioè la guerra guerreggiata. La riflessione sulle radici politiche ed economiche dei conflitti degli anni Novanta, e in particolar modo di quello contro l’Iraq, costringe le molteplici componenti in cui esso si articola ad oltrepassare l’inevitabile genericità e ingenuità con cui inizialmente venivano posti certi temi, per spingersi all’individuazione del nocciolo della questione, a partire dall’individuazione dell’avversario principale nella strategia statunitense di dominio planetario.
Questo percorso di politicizzazione è ancora ampiamente in corso. Esso sembra tuttavia irreversibilmente incamminato sulla strada di una coniugazione sempre più spinta della motivazione etico-religiosa originaria con una crescente consapevolezza dei problemi reali. È quanto emerge, ad esempio, quando Agnoletto affronta la questione della “nonviolenza”, che a lungo è stata occasione di equivoco ma anche di confronto polemico all’interno della sinistra, dividendo i settori più esplicitamente politicizzati da quelli più interessati ad una dimensione puramente etica.
È impossibile qui argomentare il fatto che la versione italiana del concetto di nonviolenza è ampiamente preparata e assimilabile al concetto gramsciano di egemonia e consenso. Ci limitiamo semplicemente a notare come Agnoletto, nel discutere questo punto, arrivi a queste conclusioni: “Il medesimo atto compiuto in contesti storici diversi può richiedere giudizi etici del tutto differenti “ (pp. 161-2). Gli stessi valori etici richiedono, cioè, un’”incarnazione storica” che comporta la necessità della scelta e dell’azione. A questo punto interviene “l’analisi del contesto storico nel quale si agisce”, anche in riferimento all’”efficacia” dell’azione stessa. In altre parole, l’analisi concreta della situazione concreta. È chiaro, allora, che al mutare dei contesti mutano anche le pratiche: ciò che è valido – e che è valido ora – nell’Occidente industrializzato, ad esempio, non è senz’altro trasponibile in altre aree e, di conseguenza, “non si possono… giudicare eventuali ricorsi a lotte di liberazione anche non pacifiche attraverso la semplice trasposizione delle nostre elaborazioni sviluppatesi e consolidatesi in un’esperienza locale totalmente differente”. Come si vede, la questione del rapporto mezzi-fini nell’azione politica è qui affrontata in maniera molto diversa da quella, semplicistica, astratta e moralistica, in cui viene discussa da Revelli.
Proprio questa attenzione alla situazione concreta consente ad Agnoletto, per fare un ultimo esempio, di collocarsi su un piano nettamente diverso rispetto ad altri settori del movimento, che, per ingenuità ma anche per via di una precisa impostazione culturale, non presentano la stessa accortezza politica e hanno spesso rischiato di causare danni e spaccature. Per le “ex Tute bianche” – oggi “Disobbedienti” –, dice, i mass media sono “l’elemento per eccellenza da utilizzare e da privilegiare”. Per loro, “la forza del mezzo… compenserebbe un possibile snaturamento del messaggio e renderebbe superati gli strumenti classici della comunicazione” (p. 188). È a partire da questo equivoco che è stata possibile una cosa come la famigerata “Dichiarazione di guerra” di Genova, dove il gesto estetico diventava fine in sé, arrivando a spogliarsi di ogni contenuto politico fino a divenire controproducente. In questo modo, denuncia Agnoletto, “Si rischia… dopo il partito leggero, di propugnare il movimento leggero”, riducendolo “a un logo”.
Nel percorso che va da Genova alla grande manifestazione di Firenze contro la guerra all’Iraq, la composizione del movimento, insieme ai temi da esso sottolineati, si è allargata ed è profondamente mutata. Il libro di Agnoletto ce ne dà la conferma: esso ci dice che la riflessione sulle prospettive di una critica di massa all’attuale forma del capitalismo mondializzato non si esaurisce qui, così come non si è ancora esaurito il percorso di crescita e maturazione che il movimento sta affrontando. Quando esso è apparso sulla scena politica italiana, non pochi – spinti dall’entusiasmo, ma anche dalla prospettiva di mettere con facilità a frutto il consenso che da esso promanava e il capitale simbolico che esso costituiva – se ne sono arrogati la rappresentanza quasi esclusiva. Chi manifestava un entusiasmo minore ma una maggiore urgenza di comprendere, veniva accusato di non ascoltare il “popolo noglobal”, di essergli persino ostile, e di ragionare secondo categorie superate. Sin dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels, in realtà, la posizione dei comunisti nei confronti dei grandi movimenti sociali è stata chiara. Essi stanno già al loro interno, radicati nel “movimento presente”, cercando sempre di rappresentare “l’interesse del movimento complessivo” a partire da uno sforzo di comprensione razionale delle sue “condizioni” e del suo “andamento”. Oggi, però, essi sono tutt’altro che in grado di svolgere questo compito. Non ha reso un buon servizio al movimento, allora, chi nell’esaltarlo lo ha ridotto ad un insieme di slogan, dedicandosi più a praticarne messianicamente le retoriche che ad indagarne la natura e le ragioni, le novità ma anche le continuità con il passato. Non è semplicemente stando all’interno del movimento, o identificandosi addirittura con esso, che si risolve il problema dello scarto drammatico tra la crescita delle mobilitazioni di massa e un’organizzazione comunista asfittica e incompiuta. Se la tentazione di ricorrere a scorciatoie sembra superata, rimangono oggi intatti i nostri problemi e la necessità di riflettere sull’identità e sul ruolo politico dei comunisti.