L’ultimo di una lunga fila di «penultimatum» dei neocomunisti a Romano Prodi è la verifica di gennaio. Ma rinvio dopo rinvio Rifondazione è sempre più in crisi: la base è in rivolta e gli elettori l’abbandonano. «Ogni volta che i dirigenti nazionali vanno nelle sezioni» confida il deputato Marilde Provera «rischiano l’incolumità fìsica». Una situazione insostenibile.
La verità è che l’appoggio a un Prodi condizionato dalle minacce e dai ricatti di Lamberto Dini è un lusso che Rifondazione non può più permettersi. Si tratta di un’analisi condivisa da buona parte del gruppo dirigente (15 deputati su 35 erano pronti a sfiduciare il governo sul welfare) e dalla stragrande maggioranza della base del partito.
Non per nulla l’idea di un referendum sulla permanenza nel governo il segretario Franco Giordano l’ha riposta prudentemente nel cassetto. La questione, però, è rimasta all’ordine del giorno. Basta leggere la stampa comunista.
Piero Sansonetti sulle colonne di Liberazione si chiede se valga la pena di morire per questo governo. Mentre sul Manifesto Valentino Parlato lancia una provocazione: per salvare la sinistra forse c’è bisogno di un ritorno del Cavaliere.
Solo che il desiderio di mollare un’esperienza che sta logorando l’identità stessa di Rifondazione si infrange sugli scogli di un deficit strategico: l’operazione di disimpegno da Prodi, infatti, può farla solo un leader con il carisma di Fausto Bertinotti. «Non bastano certo» osserva il sottosegretario Alfonso Gianni «le interviste poco accorte di Giordano, che prima parla di senso di responsabilità e poi lancia ultimatum. O le dichiarazioni di Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena che affollano le agenzie. Semmai queste danno il senso di una grande confusione e di impotenza».
Appunto, con Bertinotti che si trastulla nel suo eremo dorato di Montecitorio Rifondazione traballa. Eppure, nella testa dell’uomo che mandò a casa Prodi nel 1998 un piano strategico c’è: «Noi» è la sua tesi «non possiamo fare la crisi ora perché c’è il rischio di andare al voto con l’attuale legge elettorale e saremmo costretti ad allearci nuovamente con il Pd. Perderemmo la faccia. Se, invece, riuscissimo a ottenere una riforma sul modello tedesco, saremmo liberi di andare da soli e a quel punto anche a liberarci di Prodi».
Un discorso che non fa una piega se non per i tempi, magari troppo lenti. A quel punto, infatti, per Rifondazione potrebbe essere tardi. «A sinistra di Rifondazione» ricorda il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto «già c’è il partito di Franco Turigliatto o quello di Marco Ferrando. Finché esistiamo noi sono poca cosa. Ma se mi candidassi io a guidare una nuova forza comunista. ..».