Il peso della Superpotenza nel rapporto Usa-Europa-Nato

La chiave di lettura della guerra scatenata un anno fa dalla Nato nel cuore dell’Europa si può trovare negli stessi documenti ufficiali della Casa Bianca.
Nell’ultimo rapporto annuale (A National Security Strategy for a New Century, 5.1.2000), essa annuncia qual è la sua “strategia della sicurezza nazionale per un nuovo secolo”: “In questo momento della storia, gli Stati Uniti sono chiamati a svolgere il ruolo guida”, essendo “l’unica nazione capace di fornire la necessaria leadership e capacità per una risposta internazionale alle sfide comuni”.
Tali “sfide”, precisa il documento della Casa Bianca, provengono da “diversi Stati che hanno la capacità e volontà di minacciare i nostri interessi nazionali e l’accesso internazionale alle risorse”. Per “difendere questi interessi” – a partire dall’“interesse vitale del nostro benessere economico” – “adotteremo tutte le misure necessarie, tra cui l’uso unilaterale e deciso della nostra potenza militare”. Allo stesso tempo, “dobbiamo essere preparati e disposti a usare tutti gli strumenti appropriati della nostra potenza nazionale per influenzare le azioni degli altri Stati: per proteggere il proprio modo di vita, l’America deve essere la guida nel mondo”.
Guardando il mondo attraverso quest’ottica, gli Stati Uniti vedono le “sfide” provenire non solo dai paesi ostili ma anche da quelli alleati, in particolare dall’Europa.
Sul piano produttivo e commerciale, l’Unione europea ha un peso maggiore rispetto agli Stati Uniti. Il suo prodotto nazionale lordo (oltre 8.500 miliardi di dollari annui) ha ormai superato quello statunitense (che è di circa 8.000 miliardi). Per ciò che riguarda gli investimenti esteri, quelli statunitensi sono aumentati nel 1992-98 del 326%, mentre quelli europei sono cresciuti del 1069% superando il 50% del totale mondiale.
L’Unione europea è in testa anche nell’esportazione di merci e servizi. Nell’esportazione di merci, la Ue ha totalizzato nel 1998 il 40% del totale mondiale (compreso il commercio intraeuropeo), in confronto al 16,3% degli Stati Uniti. Anche escludendo il commercio intraeuropeo, la Ue resta in testa con il 19,7% del totale mondiale. Per di più (in base ai dati dello stesso anno) essa ha registrato un surplus commerciale di oltre 19 miliardi di Ecu, a fronte di un deficit statunitense di oltre 235 miliardi.
La nascita dell’euro ha ulteriormente accresciuto il potenziale economico dell’Europa, creando una moneta in grado un giorno di fare concorrenza al dollaro e un’area economica integrata (composta per ora da undici paesi) che accresce la competitività dei gruppi transnazionali europei nei confronti di quelli statunitensi. La battaglia è a tutto campo e si svolge a colpi di fusioni e acquisizioni tra i gruppi transnazionali: tra i 200 maggiori del mondo, 74 hanno il proprio centro direttivo negli Stati Uniti e 70 nell’Unione europea.
Grandi manovre sono in atto, contemporaneamente, sul mercato finanziario mondiale, dove enormi masse di capitali vengono impiegate non solo in operazioni speculative, ma in complesse strategie come quella attuata nel 1997 per colpire le economie asiatiche e ridurre il peso economico dello stesso Giappone.
L’economia globale è sempre più dominata dai movimenti di capitali che, circolando in misura sempre maggiore nel mercato finanziario e valutario, esercitano una crescente influenza sull’economia reale, costituita dalle attività produttive e commerciali. Negli Stati Uniti, in poco più di due anni (dal dicembre 1996 al gennaio 1999), il volume del mercato azionario (calcolato in dollari) è cresciuto del 64 per cento.
Alla New York Stock Exchange (NYSE) – la principale borsa del mondo, dove operano tremila tra le maggiori società, di cui quasi 2.700 statunitensi – sono quotate azioni per oltre 15.000 miliardi di dollari: una cifra equivalente a quasi il doppio dell’intero prodotto nazionale lordo degli Stati Uniti.
Oltre che nel mercato azionario, una crescente massa di capitali circola nel mercato valutario mondiale, il cui volume giornaliero di scambi supera i 2.000 miliardi di dollari, una cifra maggiore dell’ammontare complessivo delle riserve valutarie dei paesi industriali dell’Ocse.
Allo stesso tempo, circolano in misura crescente su scala internazionale capitali presi a prestito e impiegati, attraverso complessi strumenti finanziari, in operazioni speculative che ne moltiplicano i profitti. Si calcola che il valore annuo di tali operazioni abbia raggiunto i 360.000 miliardi di dollari, una cifra equivalente a una dozzina di volte il valore dell’intero prodotto interno lordo mondiale.
Circola così, nel mercato finanziario e valutario mondiale, una massa di capitali di dimensioni tali da influire su ogni aspetto dell’economia. Basti pensare che un aumento del 15% del prezzo medio delle azioni statunitensi può far crescere il reddito degli investitori complessivamente di una cifra superiore al valore dell’intera produzione industriale annua degli Stati Uniti. Viceversa, un calo del 15% può provocare una perdita superiore al valore di tutto ciò che producono le fabbriche statunitensi in un anno.
Dato che questa enorme massa di capitali viene investita in misura sempre maggiore in operazioni speculative miranti a moltiplicarne i profitti, viene a crearsi una lievitazione nella quotazione di titoli azionari e monete che non corrisponde a una effettiva crescita dell’economia reale: una “bolla speculativa” che esplode quando, sempre in base a disegni speculativi, i capitali vengono trasferiti in altri mercati.
Non siamo di fronte a singoli episodi ma alla “prima crisi sistemica dell’economia globale del 21mo secolo dominata dal capitalismo finanziario”, sottolinea Claude Smadja, direttore del Forum economico mondiale che ogni anno riunisce a Davos manager ed economisti di tutti i continenti. In tale situazione, avverte Smadja, “l’economia statunitense poggia su una bolla speculativa che non potrà all’infinito sfidare insieme la legge di gravità e la razionalità economica”.
L’economia statunitense poggia infatti in modo abnorme sul mercato finanziario e, in particolare, su quello mobiliare nel quale il valore delle aziende è determinato non tanto dalla loro reale capacità produttiva e commerciale quanto dalla quotazione delle loro azioni in Borsa.
Decisiva è quindi soprattutto la capacità di Wall Street di attrarre capitali da tutto il mondo.
La retorica della “locomotiva statunitense” che traina l’economia mondiale non può nascondere il fatto che gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo: il loro debito interno ha ampiamente superato nell’aprile di quest’anno i 6.000 miliardi di dollari e continua a crescere avvicinandosi al valore dell’intero prodotto nazionale lordo statunitense.
È qui che interviene con tutto il suo peso la Superpotenza statunitense: sul tavolo della globalizzazione essa gioca – per accrescere la competitività dei grandi gruppi economici transnazionali che hanno la propria base negli Usa e per mantenere il ruolo dominante del dollaro nelle transazioni economiche internazionali – non solo le proprie carte economiche e politiche ma, contemporaneamente, quelle militari che le danno il maggior vantaggio.
Il bilancio statunitense della Difesa (cui si aggiungono altre voci di carattere militare) sta ritornando ai livelli della “Guerra fredda”: secondo le richieste presentate dall’Amministrazione Clinton salirà a 305 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2001 e supererà i 331 miliardi nel 2005. La spesa militare pro capite è negli Stati Uniti di oltre 1.000 dollari in confronto ai circa 370 dell’Unione europea.
Ciò che gli Stati Uniti hanno maggiormente temuto e temono è di veder diminuire la propria influenza in Europa nel momento in cui – dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e del Comecon e la disgregazione dell’Unione Sovietica – si sta ridisegnando la carta geopolitica e geoeconomica dell’intera regione. Essi vogliono evitare che il processo di ristrutturazione politica ed economica della grande regione europea sfugga al loro controllo o, peggio, crei una integrazione tra Europa occidentale e orientale, Russia compresa, da cui nascerebbe un’area economica che lascerebbe di gran lunga indietro quella nordamericana.
Questo spiega perché gli Stati Uniti hanno compiuto negli anni Novanta (con l’appoggio della Gran Bretagna, il loro più stretto alleato) una serie di passi per rivitalizzare la Nato, strumento essenziale della loro leadership nei confronti degli alleati europei, usandola per combattere una guerra sullo stesso territorio europeo.
Il primo passo in tal senso è stato compiuto con la guerra del Golfo del 1991: anche se i membri europei dell’Alleanza atlantica non vi parteciparono in quanto tali, il comando e l’intera infrastruttura militare della Nato svolsero un ruolo effettivo nella sua preparazione e conduzione.
Il secondo passo è stato compiuto con il conflitto in Bosnia: qui, per la prima volta ufficialmente, la Nato è intervenuta “fuori area” in quanto tale. La crisi apertasi con la disgregazione della Federazione jugoslava, accelerata dal riconoscimento di Croazia e Slovenia da parte della Germania (dicembre 1991) e dell’Europa dei dodici (gennaio 1992), è stata abilmente sfruttata da Washington.
Basti ricordare che, quando nell’ambito della conferenza Carrington fu presentato alle parti bosniache il primo piano di pace (piano Cutilheiro), che prevedeva la “cantonalizzazione” della Bosnia su modello svizzero, esso fu in un primo momento (marzo 1992) accettato dalle tre parti, ma subito dopo venne fatto fallire dall’atteggiamento assunto dagli Stati Uniti, determinando lo scoppio della guerra. Tutta la politica statunitense nel corso del conflitto in Bosnia fu orientata a mettere le Nazioni Unite in una situazione di stallo, dimostrando infine che solo l’intervento degli Usa e della Nato poteva imporre il cessate il fuoco.
Il terzo passo è stato compiuto con l’allargamento della Nato a Polonia, Repubblica ceca e Ungheria, cui seguirà l’ingresso di altri paesi dell’Est. La Nato in tal modo non solo interviene ma si estende “fuori area” inglobando paesi un tempo appartenenti al Patto di Varsavia. Non a caso tutti i paesi candidati oggi a entrare nell’Unione europea – Polonia, Repubblica ceca, Ungheria, Turchia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia – sono già membri della Nato (i primi quattro) o candidati all’ammissione.
Gli Stati Uniti legano in tal modo sempre più a sé i paesi che entreranno nella Ue, così da mantenere e allargare la propria influenza in Europa.
Il quarto passo è stato compiuto con la guerra contro la Jugoslavia. Spente le fiamme del conflitto in Bosnia, i pompieri di Washington si sono occupati del focolaio del Kosovo (formatosi per cause endogene, tra cui vi sono responsabilità di Belgrado) usando benzina al posto dell’acqua. Sono stati gli Usa a fornire il 75% dei 1.100 aerei e il 90% delle 23.000 bombe che hanno permesso alla Nato di demolire sistematicamente la Serbia e il Kosovo, e sono stati sempre loro a decidere quali obiettivi dovevano colpire gli aerei europei: dei 2.000 distrutti in Serbia, ha precisato il Pentagono, 1.999 sono stati scelti dall’intelligence statunitense e solo uno dagli europei (The New York Times, 15.6.1999).
Il quinto passo è stato compiuto nel corso della guerra stessa quando gli alleati europei, al summit svoltosi a Washington nell’aprile 1999, hanno accettato di trasformare la Nato in una alleanza che impegna i paesi membri non solo ad assistere (in base all’art. 5 del trattato del 1949) qualsiasi di loro fosse attaccato nell’area nord-atlantica, ma, in base al “nuovo concetto strategico”, a “condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza”. Contemporaneamente gli alleati europei hanno accettato di “costruire l’identità europea della sicurezza e della difesa all’interno dell’Alleanza”.
In base a tale principio l’Unione europea ha deciso nel dicembre 1999 di dotarsi di una “forza di reazione rapida” di 50-60mila uomini per acquisire quella che il ministro Dini ha definito “una vera e propria capacità di potenza”. Ne è espressione nel nostro paese il Nuovo modello di difesa, che attribuisce alle forze armate (in via di completa professionalizzazione) il compito principale di proiettarsi fuori del territorio nazionale a sostegno di quelli che vengono definiti gli “interessi esterni” dell’Italia. Ma, ha assicurato Dini, la Nato resterà comunque “lo strumento essenziale per regolare la sicurezza internazionale”. Capacità di potenza, dunque, ma sempre nel quadro della Nato dominata dalla superpotenza statunitense.
In che modo la superpotenza statunitense giochi sul piano economico il vantaggio ottenuto con l’impiego della forza militare è particolarmente evidente nel settore petrolifero. Qui è stata realizzata la fusione tra la statunitense Exxon – seconda compagnia petrolifera del mondo in termini di fatturato dopo la britannico-olandese Royal Dutch/Shell – e un’altra società statunitense, la Mobil, quarta compagnia petrolifera del mondo. Contemporaneamente la britannica British Petroleum, terza compagnia petrolifera del mondo, ha acquistato la statunitense Amoco, che si trova all’undicesimo posto. Queste fusioni e acquisizioni hanno segnato la fine delle “sette sorelle”, le compagnie che dominavano l’industria petrolifera mondiale. È iniziata l’era delle “tre sorelle” – Exxon/Mobil, Royal Dutch/Shell e British Petroleum/Amoco – che restano le sole compagnie petrolifere di livello globale, mentre le altre operano su mercati regionali.
Le “tre sorelle” hanno potuto imporre il loro dominio nell’industria petrolifera mondiale grazie al sostegno militare e politico dato loro dal governo statunitense che, affiancato da quello britannico, ha prima rafforzato con la guerra del Golfo e l’embargo all’Iraq il proprio controllo delle riserve petrolifere mediorientali e successivamente, approfittando del processo disgregato dell’Urss, è riuscito nel novembre 1999 a far firmare l’accordo sul nuovo oleodotto destinato a portare il petrolio del Caspio direttamente dall’Azerbaijan alla Turchia aggirando la Russia.
Non a caso è proprio la Turchia (stretta alleata degli Stati Uniti e di Israele) che, dopo lo smantellamento dell’economia jugoslava con la guerra e l’embargo, è venuta ad assumere il ruolo chiave nell’area strategica che fa da cuscinetto tra il Medio Oriente e la regione del Caspio, mentre l’ulteriore disgregazione dei Balcani in seguito alla guerra ha di fatto bloccato i progetti di “corridoi” energetici ed economici che avrebbero dovuto, passando dall’area balcanica, rafforzare il collegamento tra la parte orientale e quella occidentale della grande regione europea.
Emblematico è il fatto che ancora oggi, a un anno di distanza, la navigazione sul Danubio, una delle principali arterie commerciali della regione europea, sia interrotta a causa del bombardamento dei ponti di Novi Sad. Il danno è enorme: sul Danubio, reso navigabile da Amsterdam al Mar Nero, venivano trasportate 113 milioni di tonnellate di merci all’anno (per il 36% rumene e il 15% austriache) il cui trasporto via terra è antieconomico. Commenta allarmato lo stesso Sole-24 Ore (29.12.99): “La navigazione commerciale è bloccata dopo la guerra del Kosovo e crea una cortina di ferro che divide l’Unione europea dai Balcani. La pace è incagliata nel Danubio: la via d’acqua consentiva la circolazione dei beni e soprattutto dei valori di tolleranza tra i popoli”.
Dopo aver aiutato gli Usa nel lavoro di demolizione, l’Unione europea viene ora chiamata da Washington ad addossarsi il peso della “costruzione della pace”. Il segretario di Stato Madeleine Albright, intervenendo al convegno dell’Aspen, il 18 marzo a Venezia, ha ricordato agli europei che “il contributo militare e finanziario dell’America deve essere limitato a non più di un settimo dello sforzo internazionale totale”. Il Kosovo, ha avvertito la Albright, “è un test chiave per l’abilità della Ue, e dell’Europa in generale, di condurre una politica estera e della sicurezza che sia non solo comune ma effettiva” (U.S. Department of State, 18.3.2000).
L’Unione europea sta così seguendo le orme degli Stati Uniti, finendo sul terreno in cui a Washington vogliono che si inoltri. La guerra, voluta e condotta soprattutto dagli Stati Uniti, ha demolito non solo ponti e edifici. Ha demolito uno Stato, distaccandone di fatto una parte (il Kosovo) e cominciando a distaccarne un’altra (il Montenegro). Ha favorito in tal modo la formazione di altri “Stati etnici”, che frammentano ulteriormente la regione acuendo le tensioni che la attraversano. Su questo terreno già friabile, che l’intervento statunitense ha reso franoso, l’Unione europea va ora a “costruire la pace”.
In tale situazione altro denaro (preso dalle tasche dei contribuenti europei) dovrà essere gettato nel pozzo senza fondo della ricostruzione balcanica, che ha finora inghiottito 17 miliardi di euro (circa 33mila miliardi di lire) senza produrre apprezzabili risultati. Dei 5 miliardi di dollari dati alla Bosnia – ha ammesso lo stesso responsabile della task force italiana per i Balcani, Franco Bernabè – ne sono arrivati meno della metà, in quanto un 30% è andato a coprire i costi della burocrazia e oltre il 20% è sparito (Il Sole-24 Ore, 29.9.1999). Allo stesso tempo altre forze militari europee dovranno essere dislocate in Kosovo, dove la Ue mantiene già 28mila soldati, di cui oltre 6mila italiani (più di quelli statunitensi).
Il fatto che ora gli Stati Uniti lascino principalmente agli europei il compito della “costruzione della pace” sul terreno minato (in senso metaforico e reale) dove un anno fa è stata combattuta la guerra, non significa che rinuncino alla leadership. “La leadership americana rimarrà indispensabile per assicurare la pace nei Balcani”, si ribadisce nel rapporto annuale della Casa Bianca.
L’Unione europea in tal modo non solo rinuncia al progetto di un nuovo assetto democratico e di pace nella grande regione europea (Russia compresa), ma rischia di ritrovarsi un giorno in prima linea in una nuova e non meno pericolosa guerra fredda. In tale scelta, apparentemente autolesionista, vi sono tutti i limiti di questa Europa nata sulla base di grandi interessi e poteri, che portano di volta in volta i governi a fare individualmente ciò che più conviene.
Questo spiega perché non solo la Gran Bretagna, alleata tradizionale degli Stati Uniti, ma anche Francia e Germania, relativamente più autonome, hanno accettato un anno fa di scatenare una guerra nel cuore dell’Europa. Sicuramente esse hanno contrattato con gli Stati Uniti delle contropartite in termini di spartizione di aree di influenza.
Da parte sua il governo D’Alema – partecipando a una guerra che lo stesso ex presidente del Consiglio ha definito uno “spartiacque” che segna “l’avvento di una nuova era” in cui “la comunità internazionale si arroga il diritto d’ingerenza umanitaria” – si è guadagnato la medaglia sul campo. Intervenendo al convegno dell’Aspen, il segretario di Stato Madeleine Albright ha detto di D’Alema, Dini e Scognamiglio: “Essi hanno contribuito ad assicurare che l’Alleanza atlantica restasse unita nonostante i ripetuti sforzi per dividerla. Si meritano perciò la gratitudine di tutti coloro che hanno a cuore la protezione dei basilari diritti umani e della promozione della pace” (U.S. Department of State, 18.3.2000).
Siamo di fronte a un’Europa che, unita o disunita, sta percorrendo non una nuova strada fatta di allargamento della democrazia, progresso sociale, pacifica coesistenza e cooperazione internazionale, ma la vecchia strada della politica di potenza, resa ancora più pericolosa dall’accettazione del quadro geostrategico statunitense e dal fatto che essa viene portata avanti con l’attiva partecipazione di forze e governi di “sinistra”, che hanno creato consenso (o non dissenso) attorno a tale politica facilitando il compito della destra tradizionale e promuovendone il successo “culturale” e politico. Il bilancio della guerra combattuta un anno fa nel cuore dell’Europa riporta quindi in primo piano non solo la questione balcanica, ma la questione nodale relativa alla nostra democrazia (basti pensare alla violazione dell’Art. 11 della Costituzione) e alla natura dell’Europa che si sta costruendo; e insieme con questa il problema dell’aggiogamento alla Nato e quindi d’un rapporto ineguale con la Superpotenza americana.

Bibliografia essenziale:
The White House, A National Security Strategy for a New Century, Washington, January 2000.
Eurostat, The European Union Figures for the Seattle Conference, Bruxelles, November 1999.
The World Bank, 1999 World Bank Atlas, Washington, March 1999.
Fortune, 1999 Global 5 Hundred, New York, August 1999.
World Trade Organization, Annual Report 1999, Geneva, May 1999.
New York Stock Exchange, Annual Report 1999, New York, January 2000.
Center for Defense Information, Fiscal Year 2000 Budget Uptodate, Washington, December 1999.