Il pericolo delle destre e i percorsi per l’alternativa

Tre domande

1. Le destre al governo rappresentano, sia sul piano sociale che su quello degli assetti democratici, un pericolo inquietante, dai caratteri persino eversivi. Tale giudizio è ormai largamente condiviso e si è esteso a grandi masse popolari, al popolo della sinistra, al movimento operaio, al “movimento dei movimenti”. L’esigenza della cacciata del governo Berlusconi è prioritaria e spinge le forze comuniste, di sinistra, democratiche, di movimento all’unità. Ma la costruzione stessa dell’unità non può prescindere – è il nostro punto di vista – da almeno due questioni iniziali : 1) dal considerare i precedenti errori e cedimenti del centro sinistra tra le basi materiali della vittoria delle destre nel 2001; 2) dal considerare il conflitto sociale e l’opposizione di massa al governo Berlusconi come elementi essenziali della costruzione dell’alternativa e, dunque, di considerare insufficiente l’attuale grado di mobilitazione e di lotta condotte dal centro sinistra.
Rispetto a ciò, qual è il tuo giudizio? Quale i percorsi necessari?

2. Crediamo che per battere il pericolo reazionario italiano occorra costruire un progetto di lunga lena che vada persino al di là della peraltro necessaria e decisiva vittoria alle prossime elezioni politiche nazionali. Crediamo che per scongiurare il pericolo di un radicamento di massa e di un’egemonia delle destre italiane occorra avviare un processo d’alternativa. Ma tale alternativa può determinarsi solo ad alcune condizioni: innanzitutto attraverso un radicale cambiamento della politica internazionale, non più subordinata alle strategie di guerra degli Usa e della NATO nè ai dettami di Maastricht e al costituendo progetto di militarizzazione dell’Unione europea. E può determinarsi, questo processo per l’alternativa, solo attraverso l’attuazione di politiche sociali, economiche, istituzionali che mettano al centro gli interessi di massa e la “ricostruzione democratica”: salari, fisco, stato sociale, diritti, legge elettorale proporzionale. Quale il tuo giudizio rispetto a tale analisi ? Ritieni che attorno a
questi obiettivi sia possibile costruire una alleanza che vada dal centrosinistra ai movimenti, sino al Prc ?

3. L’unità è la chiave di volta per battere le destre. Ma oltre a questa deve esserci un’altra consapevolezza: quella della diversità – anche profonda – tra i vari soggetti, politici e sociali, che dovranno concorrere a cacciare Berlusconi. Quali potrebbero essere, a tuo avviso, le condizioni generali, gli appuntamenti concreti per il confronto, le sintesi programmatiche, le mediazioni praticabili a livello politico ed elettorale che potrebbero offrirsi come basi concrete per la costruzione dell’unità tra le forze comuniste, di sinistra, democratiche e del movimento?

Battere le destre con un’alternativa di lunga lena

di Franco Arrigoni
Segretario generale Fiom Lombardia

1. Le destre al governo rappresentano, soprattutto sul piano sociale, un pericolo (su questo concordo con la vostra premessa), che sarei invece più cauto nel definire “eversivo”. Ho l’impressione, infatti, che da un po’ di tempo in qua i termini vengano usati con troppa leggerezza e che questo non aiuti una seria riflessione.
Stiamo vivendo un’offensiva ai diritti, soprattutto a quelli del lavoro e sociali, ed un attacco alle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori che non ha precedenti.
Le misure contenute nella legge 30 e nei decreti che la accompagnano hanno come obiettivo un mercato del lavoro a misura di impresa e trasformano i lavoratori in variabili dipendenti ed i loro diritti in gentili concessioni del datore di lavoro.
In questa cornice il conflitto non è previsto ed il sindacato viene relegato all’interno dell’angusto recinto di relazioni tra le parti completamente scollegate dagli interessi reali dei lavoratori che, qui sta il nodo, non hanno il diritto di decidere su ciò che li attiene direttamente.
Quando nel 2001 decidemmo come Fiom di non firmare un accordo che i lavoratori non avevano avuto la possibilità di votare ponemmo come discriminante all’azione del sindacato la democrazia nei luoghi di lavoro.
In quell’occasione Cisl e Uil finsero di non capire che in gioco non c’erano solo la sacrosanta richiesta di un aumento salariale. Da allora si sono susseguiti una serie di accordi separati che hanno reso evidente la scelta di Cisl e Uil di non coinvolgere i lavoratori e di trattare, per loro nome e conto, con governo e padronato in un rapporto solo apparentemente privilegiato, in realtà subalterno.
Ebbene, io sono convinto che fabbriche e uffici siano il luogo della “democrazia concreta”: quando dall’esercizio del diritto al voto (il più elementare e insieme fondativo dei principi democratici) vengono estromessi i lavoratori, quando si tenta di far passare l’idea della “delega a prescindere” nei luoghi di lavoro, quando la partecipazione non viene più considerata un diritto (ed un dovere) ma un fastidio, si mette in discussione il principio che sta alla base del nostro ordinamento.
E’ il sistema maggioritario (fortemente voluto ed indicato come soluzione di tutti i mali anche da tanta parte del centro sinistra) che sparge il suo veleno.
La Fiom considera la democrazia un valore irrinunciabile e su questo (oltre che sulle reali condizioni di lavoro e sul salario) ha deciso di condurre una battaglia aspra: non sempre abbiamo avuto accanto tutte le forze politiche che pure a parole si richiamano ai valori del lavoro.
Questo non solo perché il principale partito del centro sinistra, i Ds, ha scelto una linea che lo allontana sempre più dalla critica radicale del liberismo, ma anche perché in tutte le forze politiche prevale il leaderismo che annulla il dibattito ed un tatticismo di corto respiro.
Così, ai movimenti che in questi ultimi due anni si sono sviluppati su diversi terreni e da differenti angolazioni hanno posto domande, avanzato rivendicazioni, suggerito risposte alla politica non ha corrisposto uno spostamento a sinistra del quadro politico. Anzi. Cresce, è vero, la sfiducia in Berlusconi e nella sua compagine governativa ma sinistra e centro sinistra politico non paiono impegnate nella costruzione di una proposta alternativa.
Così “l’esigenza della cacciata del governo Berlusconi”, che anch’io considero prioritaria, si traduce in una ricerca di unità “al ribasso”.
Non mi pare che la riflessione sui “precedenti errori e cedimenti del centro sinistra“ sia patrimonio comune delle forze che oggi si propongono di battere le destre. E non può esserlo, perché questo significherebbe, ad esempio, chiedere conto davvero a Massimo D’Alema ed al governo da lui guidato dell’articolo 1 della Costituzione stracciato (come conciliare “l’Italia ripudia la guerra” con la partecipazione del nostro paese ai bombardamenti sulla ex Jugoslavia?), della riforma Dini delle pensioni, delle leggi mai approvate sui lavoratori atipici e sulla rappresentanza, delle aperture sul tema della flessibilità. A me piacerebbe davvero chiedere al centro sinistra una feroce autocritica su tutto questo come premessa per iniziare a discutere di unità. Ma c’è una spada di damocle sospesa su questa discussione che restringe la possibilità di porre condizioni alla futura coalizione di centro sinistra: l’inevitabile domanda che tutti coloro che tentano, comunque, di ragionare, di porre dei paletti si sentono rivolgere “ah! ma allora tu vuoi che vinca nuovamente Berlusconi?!!!”.
C’è poi il sistema elettorale, quel maggioritario che io considero veleno per la democrazia, fortissimamente voluto anche da tanta parte del centro sinistra politico.
Un sistema che porta alla ricerca del leader della coalizione prima che del comun denominatore politico e del programma con cui presentarsi alle elezioni.
Io considero necessario mettere in discussione quel sistema, rompere un meccanismo che porta inevitabilmente all’annullamento delle differenze perché dar cittadinanza alle differenze significa impedire o rompere l’unità della colazione. Un meccanismo dell’alternanza (su stampo anglosassone) che appiattisce, che porta a sacrificare i bisogni e le aspettative delle donne e degli uomini in nome delle esigenze di governo.
Ad esempio, come si potrebbe conciliare – tornando al contingente – la determinazione con cui il sindacato ha giustamente deciso di opporsi alla riforma delle pensioni con la scelta di Romano Prodi a leader della coalizione di centro sinistra? Come spiegare a lavoratori ed ex lavoratori che manifestano contro la revisione del sistema pensionistico che per battere il centro destra dovranno votare colui che più di altri dall’alto dell’incarico che ricopre, ha spinto perché quella revisione diventasse realtà?
Mi chiedete se la costruzione dell’unità possa prescindere dal considerare come elementi essenziali per la costruzione dell’alternativa il conflitto sociale e l’opposizione di massa al governo Berlusconi. La domanda è retorica e la risposta non può che essere: da questi due elementi non si può prescindere.
Credo che la nostra discussione non possa limitarsi a questa enunciazione. Non possiamo, infatti, farci abbagliare dalle suggestioni. In questi ultimi anni migliaia di lavoratori e di giovani hanno riempito le piazze, costruito piattaforme, sono stati protagonisti di mobilitazioni e lotte. C’è stato davvero in un gran numero di persone una sorta di risveglio delle coscienze, una richiesta di giustizia e, soprattutto, di democrazia. Ma questa nuova consapevolezza è di tutti i lavoratori, di tutto il sindacato, di tutti i partiti del centro sinistra? No.
In campo ci sono una pluralità di soggetti, dal movimento dei movimenti ai girotondi, ci sono intere categorie sociali, una parte della magistratura, del mondo della comunicazione, ci sono gli studenti, persino i Cobas del latte.
Il livello della protesta è alto. E quello della proposta?
Esiste una visione d’insieme?
Mi spiego con un esempio che attiene al mio mestiere. La Fiom ha espresso una proposta chiara che non parla solo al mondo del lavoro, che non ha come oggetto solo la contrattazione e la difesa dei diritti dei lavoratori; ha scelto da subito di entrare in rapporto con il movimento dei movimenti, da subito si è opposta alla guerra. Lì sta la sua forza e, contemporaneamente il suo punto debole. Perché nella storia del sindacato non è mai successo che una categoria esprimesse una visione di insieme più alta di quella della confederazione. E allora, o la confederazione si saprà riappropriare del ruolo che le è proprio, oppure anche la Fiom perderà la sua battaglia.
Negli ultimi due anni abbiamo assistito alle più straordinarie mobilitazioni del dopoguerra: per la pace, in difesa dei diritti. Perché milioni di persone hanno scelto la partecipazione? Perché una serie di eventi inediti si sono succeduti e perché la politica ha dimostrato la sua incapacità di risposta. E’ a causa di quella incapacità che le donne e gli uomini hanno deciso di muoversi in prima persona ed è per quella stessa incapacità che i movimenti hanno perso slancio e vigore.
Una cosa ho imparato facendo il sindacalista: che i bisogni si possono trasformare in rivendicazioni, le rivendicazioni devono essere sostenute dalle mobilitazioni, ma poi è indispensabile ottenere un risultato, altrimenti sarà la rassegnazione a prevalere.
Non siamo riusciti ad impedire che le bombe cadessero su Baghdad (forse non lo potevamo fare) ma abbiamo seminato una cultura di pace. E’ un risultato che probabilmente vedrà i suoi frutti in futuro.
Ma possiamo fare molto anche per l’oggi, se sappiamo legarci alle esigenze reali, costruire mobilitazioni, trovare risposte ad un problema concreto per poi inserirlo in un ragionamento generale.
A Scanzano, in Basilicata un intero paese si è mobilitato contro il deposito di scorie radioattive. Hanno ottenuto un risultato: la discarica lì non si farà. Ora la questione dell’eliminazione delle scorie non è più astratta: è possibile cogliere l’occasione per iniziare una riflessione più ampia su energia, territorio e ambiente?
Partire dalla concretezza di una condizione per migliorarla ma, anche per guardare oltre. Questo è un percorso possibile. In fondo è questo che la Fiom sta tentando di fare.

2. Voi dell’Ernesto sostenete che “per battere il pericolo reazionario italiano occorre costruire un progetto di lunga lena che vada persino al di là della peraltro necessaria e decisiva vittoria alla prossime elezioni politiche nazionali”. Io credo che sia indispensabile costruire qualcosa di alternativo che vada al di là…: cancello il “persino”.
Infatti la storia recente ci ha insegnato che non è matematico il nesso tra coalizione di governo e scelte politiche e che molto, invece, influiscono sulla linea politica la storia, la cultura e la presenza oppure no di sindacati e associazioni fortemente radicate.
Tra i principali paesi europei Italia, Spagna e Francia hanno governi di centro-destra mentre Germania ed Inghilterra vedono al potere coalizioni di centro-sinistra.
Se tutto si potesse far rientrare nello schema: centro sinistra al governo = politiche progressiste, centro destra al potere = politiche reazionarie: tutto sarebbe più semplice.
Ma l’equazione non funziona. Il più fanatico sostenitore dell’amministrazione americana rispetto all’invasione dell’Iraq, infatti, è stato Tony Blair, mentre tra gli oppositori della guerra preventiva abbiamo visto la Francia di Chirac. In questo caso, ad esempio, lo storico dissidio franco americano (dal rifiuto di De Gaulle ad accettare i missili americani sul territorio francese, alla condanna della guerra in Vietnam ed al ritiro della Francia dall’Organizzazione militare atlantica nel 1966) ha influenzato le scelte del governo.
Schroeder, alla guida di una coalizione rosso-verde, con la sua agenda 2010, sta proponendo al paese un insieme di misure da far invidia a Berlusconi: pesanti tagli alla previdenza sociale ed al welfare, la riduzione del sussidio per chi è da molto tempo senza lavoro, l’indebolimento delle tutele contro i licenziamenti (soprattutto nelle piccole imprese) e una politica contrattuale che, pur non disconoscendo formalmente i contratti collettivi, prevede di imporre, anche per legge, accordi aziendali al ribasso.
Questa linea scatena dure reazioni anche all’interno di un sindacato storicamente concertativo come quello tedesco e molti dirigenti della Ig Metall (ma non solo) restituiscono la tessera della Spd.
La Ig Metall, però, ha dimostrato di essere un sindacato combattivo e radicato, tanto da poter ammettere una sconfitta.
Nel maggio del 2003, infatti ingaggia la battaglia per l’estensione delle 35 ore lavorative agli stabilimenti dell’est (dove l’orario è di 38 ore), osteggiata da gran parte della maggioranza Spd-Verdi.
“Il nostro tentativo di introdurre le settimana di 35 ore in Germania dell’est è fallito. Domani chiederò al consiglio direttivo di approvare la revoca degli scioperi” così, dopo un mese di mobilitazioni, Klaus Zwickel, leader della Ig Metall comunica la sconfitta.
E’ la prima volta dal 1954 che il sindacato metalmeccanico tedesco interrompe una protesta senza aver ottenuto risultati, e all’interno della Ig Metall si apre una discussione aspra sull’opportunità o meno di ingaggiare una battaglia per estendere i diritti in un’Europa che va in tutt’altra direzione, sul rapporto con il governo e sulla linea da tenere in futuro. Si fronteggiano due opzioni: la prima “contrattualista” e la seconda “filogovernativa”.
Ad agosto il congresso della più grande organizzazione metalmeccanica dell’occidente si conclude con l’elezione al vertice di Jungen Peters, “inventore” nel 1993 della settimana lavorativa di 28 ore alla Volkswagen e maggior sostenitore della battaglia persa sulla riduzione dell’orario di lavoro all’est.
Nel suo discorso programmatico di investitura Peters dichiara l’intenzione di passare, se necessario, anche alla “protesta pubblica” contro le riforme di Schroeder giudicate “prive di prospettive”.
E qui vengo al punto.
Per avviare un processo di alternativa occorre un radicale cambiamento della politica internazionale? Si, ma per imporre una politica internazionale diversa, che rifiuti la guerra come strumento per redimere i conflitti e governare il mondo è necessario che la cultura di pace che abbiamo seminato si sedimenti e che questo condizioni pesantemente le scelte future di qualunque governo. Questo processo di alternativa può determinarsi solo attraverso l’attuazione di politiche sociali, economiche, istituzionali che mettano al centro gli interessi di massa e la ricostruzione democratica? Si, ma perché questo avvenga le forze politiche di sinistra e centro sinistra non possono chiederci di “non disturbare il manovratore”.
Si, ma perché questo avvenga è indispensabile, ad esempio, un sindacato forte ed autonomo da padroni, partiti, governi. Un sindacato organizzazione dei lavoratori che ha una visione del mondo ma che non è una forza politica ed ha per missione la contrattazione delle condizioni di lavoro.
Mi è capitato spesso, in questi ultimi tempi, come sindacalista della Fiom, di sentirmi rivolgere la richiesta di intervenire sui temi più disparati: “cosa pensa la Fiom del buco dell’ozono?” e “del giardinetto tra via XY e via KZ?” e “dell’apertura della casa di riposo?”.
Queste domande, rivolte ad una organizzazione sindacale di categoria nascondono l’inquietante assenza di punti di riferimento che dovrebbe portare le forze politiche ad interrogarsi seriamente. Non mi pare lo stiano facendo.
La Fiom, nel suo ultimo comitato centrale, ha ribadito la sua profonda vocazione all’autonomia e all’indipendenza ma, anche, la sua natura di organizzazione sociale, capace di rapportarsi con i movimenti e di incalzare la politica, ma che non intende sostituirsi ad essa.
A ognuno il suo mestiere. Non è snaturandosi ed assumendo ruoli impropri che si potranno rompere gli schemi e le logiche verticistiche, tattiche e mediatiche da cui oggi scaturiscono le scelte dei partiti e le convergenze tra le forze politiche.
3. Su questo voglio essere telegrafico e dare una risposta da sindacalista.
La Fiom è una organizzazione democratica e unitaria. Cosa significa democrazia: scelte che nessuno ha avuto la possibilità di discutere? Cosa significa unità: alleanze al vertice che la tua base di rappresentanza può solo accettare?
Oppure significa parlare con la propria gente, costruire assieme a loro proposte, piattaforme, mobilitazioni?
Noi abbiamo scelto la partecipazione nella definizione dei percorsi e delle iniziative; abbiamo deciso che il parere di chi rappresentiamo sia vincolante sulle piattaforme, sull’andamento e sulle conclusioni delle trattative; abbiamo scelto di costruire posizioni unitarie del movimento sindacale su basi diverse da quelle che abbiamo vissuto.
Questa prassi si può applicare alla politica? Si, se chi si propone come alternativa al governo di centro destra fa una scelta di campo. Se decide di stare con i lavoratori e con i ceti deboli.
Se davvero quell’alleanza ha deciso da che parte stare si impegnerà: a cancellare, non ad emendare, la legge 30 e i suoi decreti attuativi; a cancellare, non ad emendare, la riforma pensionistica ed il decreto di accompagnamento; ad approvare la legge sulla rappresentanza.
Queste tre condizioni, per me irrinunciabili, sono un tassello di quelle che voi chiamate “le basi concrete per la costruzione dell’unità tra le forze comuniste, di sinistra, democratiche e del movimento” e segnano il confine oltre il quale, per ciò che mi riguarda, non esiste “mediazione praticabile”.

Conflitto sociale e cambiamento della politica internazionale

di Giovanni Berlinguer
Direttivo Nazionale Ds – Presidente associazione “Aprile”

1. Il giudizio fortemente critico nei confronti del governo Berlusconi va ben oltre la sinistra e i movimenti. Anche molti elettori del centro-destra sono delusi e preoccupati soprattutto per il disagio economico e sociale che si estende al ceto medio e che rappresenta per molti lavoratori, disoc-
cupati e pensionati una vera tragedia. Essi però non hanno ancora fiducia in un’alternativa di centro-sinistra, o l’hanno solo nelle elezioni locali.
Non credo che, per costruire un consenso più ampio, il punto n. 1 sia partire dagli errori e dai cedimenti dei nostri governi. Essi ci furono, ne vediamo le conseguenze, ed è giusto criticarli. Ciò che però i cittadini ci chiedono è una maggiore unità, un minore personalismo, volti nuovi; e più ancora ci chiedono: Che programmi avete per l’Italia ? Che cosa vi distingue dal centro-destra? Che cosa fareste voi al governo, se vinceste le elezioni?
Condivido invece il punto n. 2. Il conflitto sociale è una molla per il progresso, e il disagio di cui ho parlato richiede rappresentanza. Oggi c’è una forte mobilitazione sindacale, che dopo molto tempo si esprime in forma unitaria, ma spesso i partiti parlano d’altro. Il percorso consiste essenzialmente nel cambiare l’agenda dei partiti, ma anche nel dar voce alle esigenze che sono orfane di tutela: gli anziani e le anziane sole, i disabili, i giovani costretti alla disoccupazione o al lavoro “usa e getta”.

2. Condivido l’esigenza di modificare radicalmente la politica internazionale. Il neoliberismo, che insieme all’apertura dei mercati ha prodotto abissali ingiustizie e ha aperto la strada alle guerre preventive, è ancora molto aggressivo e devastante ma è in crisi profonda. L’opinione pubblica si sta spostando ora verso l’idea di pace e verso il multilateralismo, e a Cancun hanno ripreso voce grandi e piccoli paesi del Sud, che erano rimasti afoni e divisi per più di vent’anni.
Nel merito delle questioni europee, non liquiderei come “dettami” gli accordi di Maastricht, il cui torto principale è di non essere ancora accompagnati da altri “dettami” riguardanti il lavoro, le politiche sociali e ambientali, l’immigrazione e altre esigenze, certo non meno importanti della stabilità monetaria. E non liquiderei come “militarizzazione” il tentativo di creare una forza europea, con tutte le precauzioni che ciò comporta e con tutti i limti che devono essere posti al suo impiego.
Non vedo poi che c’entri (o che ci azzecchi!), fra le priorità elencate, la legge proporzionale, anche perché non ho mai pensato (forse sbagliando) che i metodi elettorali siano la chiave di volta della democrazia. La riforma della politica, e il suo rapporto con la questione morale, possono convivere con diversi sistemi di voto.

3. La domanda ne comprende almeno quattro (condizioni, appuntamenti, sintesi, mediazioni) e non so rispondere a tutte. Ritengo che i punti fondamentali siano: a) un programma realistico e alternativo, che cominci con le leggi berlusconiane che aboliremmo (l’elenco è lungo, purtroppo) e prosegua con le priorità da affermare; b) un’alleanza di tutte le opposizioni, che costituisca anche un impegno a governare insieme. Bisogna anche parlare più chiaro ed evitare furbizie: per esempio, far passare come “lista unica” quella di tre partiti.
Visto che ho accennato al significato delle parole, aggiungo un’osservazione, forse impertinente, sul linguaggio usato nelle tre domande. Vi compare molto spesso la parola “massa”, e non c’è mai la parola “persona”. Teniamo conto, innanzitutto, che le masse sono costituite da invididui agenti e pensanti. Inoltre, che la tendenza a massificare le persone proviene da quelle forze che vogliono clonarle in senso culturale, ridurle a un solo modello di comportamento e di vita. Infine, che c’è una differenza sostanziale rispetto al passato: un tempo “le masse” erano più omogenee, per ideologia o per mestiere o per tradizione. Oggi ciascuno ragiona come lavoratore, come consumatore, come genitore o come figlio, come utente di servizi, come abitante di una zona, come portatore di proprie idee, e la politica deve pensare di più alle persone e saper esprimere i propri valori in tutti questi campi.

Progettualità alternativa e centralità dei movimenti sociali

di Mauro Bulgarelli
Deputato dei Verdi

1. L’affermazione delle destre scaturisce, a mio avviso, da una complessità di fattori che oltrepassa la specificità del contesto italiano e si inserisce in un quadro – quello segnato dalle politiche neoliberiste – che ha profondamente inciso sulla fisionomia della nuova Europa. La spinta esercitata da tali politiche, soprattutto nel campo dei diritti civili e di cittadinanza, è stata fortissima ed è stata recepita all’interno del processo costituente delle nuove strutture di governo sovranazionale che hanno concepito il portato della Carta europea. Non possiamo dimenticare, in altri termini, che su alcuni terreni – quello dell’immigrazione, quello dello smantellamento del welfare e, più in generale, quello facente capo al modello di società disciplinare avanzata – le coalizioni di “destra” e di “sinistra” hanno proceduto in Inghilterra, Francia, Germania o Italia, lungo un binario unico, secondo una sostanziale comunità di intenti. Fare riferimento agli “errori” o ai “cedimenti” della sinistra come concausa dell’affermazione delle destre rischia dunque di essere fuorviante: Berlusconi non ha vinto perché la sinistra è stata troppo accondiscendente nei suoi confronti ma perché il governo dell’Ulivo non si è neppure cimentato nella costruzione di un’alternativa reale al neoliberismo imperante. E, con tutta onestà, dovremmo riconoscere ad esempio che la riforma Moratti della scuola affonda le sue radici in quella di Berlinguer, la Bossi-Fini sull’immigrazione nella Turco-Napolitano, quella di Maroni sul lavoro nella filosofia della flessibilità, inaugurata nel nostro paese da Tiziano Treu. Ciò non dovrebbe stupire, giacchè in altri paesi europei è accaduta la medesima cosa: non sono certo il solo a ritenere che Tony Blair abbia sussunto e valorizzato al meglio nel suo programma di governo le politiche thatcheriane o che in Francia vi sia sostanziale continuità tra Jospin e Raffarin su molte questioni cruciali, a partire dalla politica estera. Va da sé che una simile constatazione non deve indurre ad alcuna semplificazione; non sto dicendo, in sostanza, che sia ininfluente che in un paese governi una coalizione di centro-sinistra piuttosto che una di centro-destra. Dico però che se non si assume questo orizzonte complessivo come quadro di riferimento, si perde di vista la vera urgenza dei nostri giorni: sviluppare un’azione dal basso, orientata a 360 gradi, capace di condizionare le politiche degli Esecutivi. E qui vengo al secondo punto sollecitato dalla domanda, che penso possa essere riassunto in questi termini: è in grado l’opposizione parlamentare di costruire un argine efficace al governo delle destre? Io penso che non ne abbia assolutamente la capacità e ciò per due ordini di motivi: il primo è che essa non può prescindere e fare a meno della spinta di quei movimenti sociali che in questi anni hanno costruito un’opzione forte e credibile al neoliberismo su terreni cruciali come il rifiuto della guerra, dei diritti civili, della libertà di espressione. Esiste ormai una sfera pubblica capace di porre in prima persona, senza mediazioni, una domanda di qualità della vita radicalmente “altra”, che ha mostrato di sapersi riappropriare dei nessi amministrativi e di condizionare le politiche pubbliche, a partire dal governo del territorio. La straordinaria mobilitazione di Scanzano Ionico è solo l’ultima dimostrazione, in ordine di tempo, che alcune pratiche di disobbedienza civile e sociale sono ormai patrimonio condiviso di larghi settori di popolazione e sono capaci di mettere a nudo le inadempienze e, spesso, i veri e propri soprusi perpetrati da questo governo. Il secondo ordine di motivi risiede nella peculiarità della destra italiana al potere. Essa è la risultante di una miscela pestilenziale di lobby, poteri occulti e interessi mafiosi che non si può sperare di contrastare efficacemente solo in sede istituzionale ma che va destrutturata dalle fondamenta, recidendone i tentacoli che avviluppano le nostre città e gli organismi di rappresentanza e restituendo alla gente la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Su questo terreno i partiti devono fare un passo indietro se vogliono recuperare in futuro un rapporto decente con l’elettorato.

2. Penso di aver in parte già risposto a questa domanda. E’ chiaro che saremo in grado di battere le destre solo se saremo capaci di costruire una progettualità alternativa e se ai movimenti sociali sarà conferita la necessaria centralità. Lo ripeto: senza di loro il centrosinistra è destinato a subire mortificazioni sempre più umilianti e non ha alcuna possibilità di invertire il corso degli eventi. Il dialogo con i movimenti è necessario soprattutto se allarghiamo lo sguardo all’orizzonte europeo. Diciamocelo chiaramente: l’Europa che sta nascendo è quella plasmata dai poteri forti, che ambiscono alla creazione di una nuova superpotenza economica e militare facendo leva sul liberismo selvaggio e sulla privatizzazione di acqua, servizi, scuole, sanità. E’ un’Europa dove non trova posto la partecipazione dal basso dei cittadini e che invece di eleggere il “diritto universale di cittadinanza” a principio fondatore della propria carta costituzionale, invece di mettere in campo politiche efficaci di integrazione sociale – senza le quali è impossibile sconfiggere razzismo, xenofobia e garantire la convivenza civile nelle nostre metropoli – sembra avere a cuore soltanto la circolazione di merci e capitali. L’Europa, ci dicono, aspira ad una nuova identità. Ma un’Europa ricca non solo economicamente ma anche socialmente, non può e non deve costituirsi assumendo come unico parametro per la sua collocazione sulla scena mondiale una linea di demarcazione che separi le proprie istituzioni dai destini dei suoi abitanti e soprattutto da quelli dei paesi poveri del mondo. Purtroppo molte forze politiche, sia a destra che a sinistra, sono prigioniere di questo malsano sogno di grandezza ed è per questo che solo una reale spinta dal basso può mettere in discussione questa “attrazione fatale”. Devo confessare che sono profondamente scettico sulla possibilità che attorno a un’opzione di radicale alterità all’Europa di Maastricht e Schengen sia possibile coagulare l’interezza del centro-sinistra. Né ritengo che siano produttive convergenze di facciata per salvare l’immagine dell’unità e per tentare di vincere le prossime elezioni europee. Tuttavia qualcosa si sta movendo anche sul terreno delle alleanze elettorali. Personalmente reputo positivo che quella parte dell’Ulivo che si riconosce nel progetto di Prodi metta in moto un proprio processo di aggregazione, magari dando vita a un soggetto unitario che sopravviva anche alla scadenza elettorale, mentre quelle forze che non vi si riconoscono – i Verdi, i Comunisti italiani, la Sinistra Ds, Rifondazione, i movimenti – avviino, nel rispetto delle singole individualità, un tavolo di confronto e di cooperazione volto a ridefinire a sinistra un nuovo soggetto politico. Ciò contribuirebbe a “semplificare” il quadro delle forze in campo e potrebbe dischiudere le porte a una collaborazione “di programma” finalmente vincente.

3. L’unità non è una formula magica, che possa prescindere dalle politiche e dalle differenze sostanziali che vivono nell’Ulivo e nelle forze di sinistra. Le opportunità per ricercare l’unità vanno dunque rintracciate all’interno di un paziente e cristallino confronto che senza sacrificare l’autonomia di alcun soggetto politico possa dare luogo a sintesi programmatiche vincenti. Le destre hanno devastato questo paese ed esistono rischi concreti per la democrazia, ormai evidenti a tutti. In più questo governo è allo sbando, sempre più dilaniato da feroci contrapposizioni di interessi al suo interno. Sarebbe dunque assurdo non assumersi le proprie responsabilità e tentare di porre fine a questo scempio. Abbiamo l’opportunità, già a partire dalle prossime elezioni amministrative ed europee, di mettere a punto una strategia di ampio respiro, basata sul ripristino dei diritti civili, sulla tutela del lavoro, dell’ambiente e del territorio, sul libero accesso all’informazione e sul rifiuto del coinvolgimento italiano nelle sciagurate avventure belliche scatenate dall’Amministrazione Bush. Su questi punti esiste la possibilità di convogliare l’adesione della stragrande maggioranza degli italiani e di rimettere in moto un ciclo virtuoso tra istituzioni della politica e cittadini, tra partiti e movimenti sociali. Se ciascuno di noi affronterà questa sfida mettendosi in discussione, accettando il confronto a 360 gradi e arricchendolo delle proprie storie e soggettività politiche, potremo vincere la battaglia contro le destre. Se, viceversa, ricorreremo alle alchimie, ai tatticismi e alle alleanze “usa e getta”, siamo destinati ad erigere l’ennesimo castello di sabbia.

Per l’unità: né in “fuorigioco” né accomodanti

di Bruno Casati
Direzione Nazionale Prc

1. Dall’unità di “tutti quanti vogliono cacciare Berlusconi” non si può prescindere. Chi vi si sottrae rischia il fuorigioco politico. Chi, di converso, carica questa unità di contenuti accomodanti non prepara affatto l’alternativa a un Governo repellente. Rifondazione Comunista, per troppo tempo, ha ondeggiato sul filo di questo fuorigioco prima di cogliere il messaggio che, da tempo, saliva forte e chiaro ora dalle lotte della CGIL e soprattutto della FIOM, ora dai girotondi, ora e infine, dalla parte competente del movimento contro la globalizzazione neoliberista. Era il messaggio che chiedeva risposta a bisogni materiali assai concreti e a diritti calpestati. Era il messaggio contenuto in quegli 11 milioni di SI’ raccolti, contro tutto e contro tutti, nel referendum per estendere l’articolo 18, che in verità rappresentarono 11 milioni di NO secchi a Berlusconi e alla sua politica di rapina. Il messaggio dei fatti e i fatti, come ben si sa, hanno la testa molto dura. Torno a Rifondazione per dire che, oggi, sono proprio questi fatti che emendano una linea di condotta Congressuale che guardava altrove, caricata di un certo populismo di sinistra (che Rossanda ebbe a criticare aspramente). Oggi il Partito rientra, per fortuna, da quel fuorigioco e coglie, come altre formazioni politiche del resto, quel senso comune popolare che esige in modo fortissimo l’unità di “tutti quanti vogliono cacciare Berlusconi”. Non sarà semplice (cacciare Berlusconi). Prima di tutto perché ancora pesano gli errori allineati nel passato e da non ripetere. Errori vistosi e speculari, di un minimalismo neo-riformista e, insieme, di un massimalismo movimentista, che si sono alimentati in reciprocità agevolando le vittorie delle destre.
Il minimalismo neo-riformista fu di quanti, sentendosi assoluta maggioranza di un potenziale schieramento, e forti di una sciagurata legge elettorale, imposero alle minoranze dello stesso schieramento propri programmi di mera mitigazione della politica dell’avversario e propri candidati espressione di quei programmi, agitando il ricatto secondo cui “o si fa così o vince l’avversario” e, quindi, se l’avversario dovesse vincere per davvero, la colpa non sarebbe del contenuto programmatico debole e del candidato sbagliato, ma ricadrebbe sulla forza politica che non ha voluto aderire all’alleanza “comunque”.
Il massimalismo movimentista e speculare è, in contrasto, di quanti né ricercano per principio alleanze ampie su contenuti forti, né incalzano per il confronto di merito, e conseguentemente si consegnano ad analisi devianti, come fu quella, tragica, delle “due destre”, tendendo in conclusione ad isolarsi in una testimonianza che può essere extra-parlamentare.
La sconfitta alle elezioni politiche del 2001 fu proprio il portato di quella dannosa combinazione di errori, con la netta prevalenza negli stessi dell’arroganza del minimalismo neo-riformista. La vittoria nelle elezioni del ’96 fu, invece, resa possibile dal fatto che si trovò un punto di equilibrio nel “compromesso della desistenza”. Quella scelta fu, in verità, anche un guizzo di intuizione politica di gran classe che, purtroppo, fallì quando nel ’98 la maggioranza neo-riformista, dello schieramento che aveva saputo sconfiggere Berlusconi, invece di imprimere, sullo slancio, un carattere marcatamente sociale al programma in direzione, appunto, dei bisogni popolari, ripiegò verso una politica opposta e di apertura alle condizioni che, oltretutto, le destre che erano all’angolo, non avevano nemmeno la forza di dettare. Il risultato fu devastante: si divisero, è vero, i comunisti in un’altra tappa della loro rovinosa diaspora, ma si fece risorgere Berlusconi, allora in ginocchio, e si preparò così la sua rivincita, che avvenne puntualmente nel 2001. Quell’errore fu catastrofico. Oggi, dopo 30 mesi di Governo delle destre e a 30 mesi da nuove elezioni politiche (a meno che eventi imprevedibili accorcino l’attesa) è bene che tutte le correnti di pensiero dell’insieme di “quanti vogliono cacciare Berlusconi”, si guardino negli occhi, riconoscano gli errori, abbandonino velleità tatticistiche tese ad avere leadership di coalizione e definiscano, invece e insieme, le prime bozze di un vero programma di alternativa e si predispongano a sostenerlo con iniziative e lotte di massa.
Sin qui i vecchi errori e come rimediarvi.Ma ci sono anche nuovi errori in cui non incorrere. Un nuovo errore, tuttora in sospensione, sarebbe il consegnarci all’illusione fallace che Berlusconi sia ormai al capolinea. Sbagliato. Ci sono, è vero, crepe nella sua coalizione. La più profonda è data dal procedere del progetto di lungo respiro che Fini mette in campo, prospettando costui una formazione conservatrice in cui possano convergere i cattolici di Casini e Follini. Un disegno, questo, di contenuto assai diverso sia dal partito personale del Cavaliere che dalla lobby padana di Bossi. Ci sono altresì, ed è altrettanto vero, segnali di distacco della Casa delle Libertà dal territorio: le ultime passate elettorali, da Monza al Friuli, lo hanno marcato. Ma, attenzione, le carte in mano a Berlusconi sono tuttora assai pesanti e lo si è visto quando, sullo slancio emozionale dei funerali dei caduti in Iraq, il Governo ha saputo impadronirsene e accreditarsi con la confezione di un evento di fortissimo impatto mediatico. Poi ha fatto altrettanto cavalcando gli umori popolari scatenati dal sacrosanto sciopero dei tranvieri a Milano. I giochi, perciò, non sono fatti. Attenzione poi (di nuovo vecchio errore) a rieditare il ’98 e limitarsi, quindi, a smussare oggi le posizioni dell’avversario pensando che questa dimostrazione di (errato) buon senso sposti, domani, consensi in direzione di chi la manifesta. Ancora fallace illusione.
Sostenere ad esempio, come già echeggia in ambienti del centro sinistra, che “sulla legge 30 si possa anche trattare, così sulle pensioni, che i soldati restino in Iraq perché così avrebbe detto l’ONU e che Fini, da ultimo, è un eccellente stratega” rappresenta una preventiva capitolazione che è in rotta di collisione con il comune senso popolare maturato in questi anni che vuole, invece, siano messe in campo posizioni limpide, moderate pure se non è possibile altrimenti, ma assolutamente non accomodanti con quelle dell’avversario. Queste posizioni vanno assunte e, ripeto, sostenute con l’iniziativa e la lotta di massa. Se non lo si fa, Berlusconi campa cent’anni.
Sintesi della risposta: nello scenario politico che si apre c’è un vuoto che deve essere occupato dalla sinistra, che può ritrovarsi attraverso posizioni costruite con ragionevolezza e realismo ma, contemporaneamente, con una sufficiente razionalità che descriva la sua identità in autonomia e trasparenza.

2. La situazione internazionale in cui si colloca l’Italia è la chiave di lettura più efficace per capire come battere il pericolo reazionario (anche in Italia). Per ragionare di politica internazionale, è bene fare riferimento alla crisi del modello globale imposto al mondo intero dall’egemonia scientifica, tecnologica, finanziaria e militare degli USA. Oggi questo modello globale mostra, appunto, la corda. Il ricorso agli eserciti, nel segno di una coincidenza fatta totale tra guerra e politica, è anche il segno del limite che si occulta dentro il guanto di ferro. Ma la guerra non risolve, semmai esaspera, contraddizioni sempre più esplosive: di una concentrazione delle ricchezze all’interno delle società sviluppate, che blocca i consumi popolari; dell’aggravarsi dell’instabilità degli equilibri tra le aree del pianeta, che crea conflitti e tensioni che, in effetti, poi ingenerano immani fenomeni quali l’emigrazione ed un fondamentalismo che, a sua volta, offre l’acqua di coltura per il terrorismo; delle grandi transnazionali che distorcono equilibri politici e sociali degli Stati-Nazione con grandi deviazioni, come il caso Enron manifestò.
Sono queste le contraddizioni che non solo spazzano gli USA, ma da lì, attraversando i due oceani approdano in Europa ed in Asia. Oggi, in questo contesto, è aperto – ecco il punto – il confronto tra due strategie tese, ognuna, a superare quelle contraddizioni verso un nuovo assetto mondiale e, quindi, tese e ognuna a suo modo, a chiudere la fase di transizione decollata con la caduta dell’Est sovietico. Sono strategie opposte. L’una vuole affermare la concezione egemonica “monopolare” che è prevalsa negli USA ed è scattata con l’11 settembre 2001, e mai attentato fu così puntuale all’appuntamento con il lancio tempestivo della guerra-politica. L’altra strategia è per un assetto “multipolare”, ed è sostenuta da buona parte dell’UE, dalla Russia, dalla Cina. Non c’è perciò, nelle due strategie, nessuna Santa Alleanza Planetaria come si disse a suo tempo in analisi avventurose. L’Italia, con il Governo Berlusconi, è al carro della prima strategia. L’alternativa a questa collocazione, anche in un programma di Governo, sarebbe data dal ritorno dell’Italia di fatto nell’UE, con Francia e Germania almeno. Per difendersi meglio: quando l’euro viene aggredito dal dollaro, vuol dire che gli USA operano per far crollare la competitività dell’UE. Bisogna perciò scegliere ma, sia davanti a Berlusconi che a quanti si propongono di sostituirlo, è dispiegato il dilemma del ruolo dell’Italia in un’Europa e in un sistema mondiale attraversato da questi grandi processi che investono la sfera dell’economia, della società e della cultura.
La parte più consistente del movimento contro la globalizzazione neo liberista – che non sono certo i disobbedienti, mosche cocchiere che, come comparse al ciack, si mettono in moto solo all’accendersi dei riflettori della TV – ha saputo per davvero affrontare questa questione in quella Università Popolare a cielo aperto che fu il Forum Sociale Europeo, di Firenze soprattutto. Vanno ascoltati perché ci spiegano che l’Italia è, oggi, e così ci è stato detto, in una traiettoria di allontanamento dai paesi europei più forti e si è collocata – certo con i governi di destra ma, e va detto, anche con Prodi e D’Alema – sul piano inclinato del declino economico e tecnologico. Pertanto, le tempeste che investono il mondo e squassano anche i paesi forti, possono travolgere i deboli: l’Italia è tra questi. Non siamo ancora all’Argentina ma siamo vicini, soprattutto perché il nostro Paese non ha saldato la sua economia a quelle vicine di Francia e Germania, nell’area dell’euro, ma l’ha offerta allo “shopping” delle transnazionali dell’area del dollaro. Oggi, di fatto, l’Italia è una colonia americana e, come tale, deve anche rispondere al fischio del colonizzatore quando costui chiama alle armi.
Possiamo essere travolti per queste ragioni e anche perché: la struttura economica è polverizzata nelle nicchie del made in Italy, distretti del lavoro a basso contenuto tecnologico che, spesso, sostengono solo consumi di lusso; perché l’occupazione cala anche se la precarizzazione che divide il posto in due, come il leggendario mantello di San Martino, maschera il crollo; perché si tagliano gli investimenti per la ricerca, l’innovazione e di conseguenza l’Università – che almeno finora sfornava laureati di eccellenza che, però, o emigrano o fanno i centralinisti nei call-center – sarà portata ad abbassare il suo livello formativo (e, del resto, il “3 più 2” della Moratti si muove proprio in questa direzione). Perché, soprattutto, manca una strategia di riqualificazione del sistema per muoverlo verso l’integrazione socio-economica con l’Europa più evoluta. Manca una strategia, questa la realtà.
Prima sintesi: è sull’Europa, del lavoro e del ritorno agli Stati, che Berlusconi misura il proprio fallimento. Lo dice il Sindacato, la Banca d’Italia e, oggi, anche l’impresa. Le risposte che danno le destre di Governo non ricercano affatto le condizioni dello sviluppo economico, tecnologico e sociale, non rispondono all’esigenza su cui si misurano Francia e Germania, che provano a sottrarsi alle logiche del monopolarismo USA. Vanno in tutt’altra direzione. Quella del liberismo sfrenato di cui si è impadronito un grumo dirigistico senza alcuna ambizione di sviluppo, senza un’idea generale, con un solo dogma: arraffare. E’ il vetero capitalismo che avanza, ispirato al modello sociale della destra repubblicana USA, nella convinzione che l’azienda sia la forma superiore di organizzazione del paese, e la si sostiene (la convinzione) con l’antipolitica di un’alleanza contro natura tra il populismo iperliberista ed il localismo, bolso ed aggressivo, delle “piccole patrie”.
Seconda sintesi: c’è bisogno d’Europa, certo dell’Europa del lavoro e non della nuova Costituzione Europea, c’è bisogno proprio d’Europa per affrancarsi dagli USA, ma l’Italia con Berlusconi degrada all’opposto in una colonia depredata sia dalle transnazionali che dai mercanti locali.
Le elezioni europee diventano perciò test fondamentale per dire no ai predoni affaristi e, dato che il voto sarà proporzionale, per mettere in luce l’attrattività valoriale dei partiti che sostengono l’alternativa e non l’accomodantismo.

3. L’unità delle diversità si impone, ma bisogna saper fare sintesi delle diversità componendole in un programma in cui tutti si possano ritrovare, oggi, nell’ambizione di governarlo, domani, alla conduzione del Paese. Parta la ricerca, a sbocco assolutamente non dato. Sarà intrapresa assai complessa. Difficile ma obbligatorio (al fine di cacciare Berlusconi) far convergere in uno stesso progetto le opzioni dei neo riformisti di Margherita, DS e SDI, con le opzioni di una sinistra di alternativa che si sta abbozzando e che va da Rifondazione, ai Verdi, ai Comunisti Italiani e può essere sostenuta da settori ampi della CGIL, dalla FIOM, dall’ARCI e da aree del movimento contro la globalizzazione. Di fatto, la novità è data proprio da questo semilavorato di sinistra di alternativa che, si sappia, non era in campo nel ‘98, nella scelta “svolta o rottura” che allora isolò e spaccò Rifondazione,e non lo era nemmeno al voto del 2001. Oggi invece c’è, mettiamola a valore (questa novità) perché bisogna essere in tanti per battere domani Berlusconi e, già oggi, essere in tanti nel contrastare, all’interno, la tendenza neo-riformista del programma mitigato e solo correttivo – Bersani e Treu scalpitano pronti all’uopo- che non è affatto correlato con la voce che sale possente dalle masse popolari.
Dobbiamo insomma contrastare l’idea che il liberismo non si possa contrastare, ma vada “solo” reso più accettabile. Bisogna essere in tanti, perciò, per definire una “carta programmatica minima”, ma netta nei suoi intenti. Una carta che Alberto Burgio, nell’ultimo numero de l’ernesto, tratteggiava con grande nitore, un programma che cerchi il consenso di massa conferendosi un”imprinting” limpido. Si dica ad esempio che, al primo giorno del governo di alternativa: si ritirino i soldati italiani da Iraq ed Afghanistan, si blocchino prezzi e tariffe, si indicizzino salari e pensioni, si cancelli la Legge 30, si vari una legge (sarebbe ora) sul conflitto di interessi, si vari una Legge per la democrazia sui posti di lavoro. Il lavoro ed i bisogni siano il cuore del programma. Il primo giorno, perciò, si dica con questi atti chi siamo noi, e appaia in quel giorno l’imprinting dell’alternativa appunto.
Dal secondo si ricominci a “costruire dalle macerie”, come ebbe a dire anni fa Franco Fortini e, perciò: si metta mano all’informazione per il suo pluralismo (via la Gasparri), alla giustizia, alla Legge per l’immigrazione, alla fiscalità progressiva sul prelievo da introdurre, alla cancellazione di condoni e delle vergognose leggi salva potenti: e la Costituzione antifascista ritorni ad essere il faro orientante della Repubblica.
Nel terzo, si reintroduca il sistema proporzionale.
Nel quarto, la regionalizzazione, che prenda il posto della devolution.
Nel quinto, si riprogetti la sanità pubblica e la politica della casa.
Nel sesto, si introducano elementi strutturali di “economia mista” che non saranno le nazionalizzazioni ma, almeno, una presenza autorevole dello Stato tale da sopperire ai guasti dovuti alla polverizzazioni delle masse critiche competitive in economia e alla fuoriuscita dai settori industriali non maturi, e all’assalto dei mercanti del mondo intero alle nostre public company privatizzate.
Al settimo giorno (se ci si arriva) si fa festa.
Se taluno, dinanzi ad un programma socialdemocratico e neo keynesiano come questo, dovesse dire, e certo lo dirà, “è assalto al cielo, velleitario” ebbene, lo si inviti a ripassarsi il programma del primo centro sinistra del ’62 – nazionalizzazione dell’elettricità, piano delle acque e delle ferrovie, scuola media dell’obbligo, riforma delle pensioni – che il PCI di Togliatti non sostenne perché, appunto, lo ritenne riformatore e socialdemocratico. Si è fatto questo riferimento storico per almeno tre ragioni. La prima è che, anche al di là del programma, nel campo di “quanti oggi vogliono cacciare Berlusconi”, dovrebbe riprodursi quell’impegnativo ed altissimo dibattito politico culturale che attraversò le due sinistre di quarantanni fa, proprio sul ruolo del governo, dei movimenti sociali, dei partiti. La seconda è per registrare, con una certa amarezza, quanto si sia spostato anche il nostro senso comune.
Oggi, ad esempio, si chiama centro sinistra quello che rovescia gli obiettivi del centro sinistra di quarantanni fa, e si chiama sinistra di alternativa quella che avanza talune di quelle proposte in una “carta programmatica”, chiara ma minima.
La terza ed ultima ragione guarda alle forze che sono scese in campo da almeno un biennio, il biennio del risveglio, ed è a loro – a parte della CGIL, alla FIOM, all’ARCI, al movimento, alle associazioni, ai comitati, alle riviste e, certo, anche ai Partiti – che va chiesto in quale carta programmatica riconoscano riversata la loro iniziativa di lotta manifestata nel biennio. La partita è aperta: in campo contro Berlusconi c’è l’opzione del Partito Unico Riformista e c’è, per ora in arcipelago, la Sinistra di alternativa. La ricerca che si avvia è, perciò, competitiva dentro la stessa coalizione.
Concordo con Zipponi quando dice: “battere le destre è indispensabile ma non prendere in giro i lavoratori anche”. L’esito del percorso di questa ricerca che imbocchiamo ora – e che va sottratto ai soli apparati di partito e, invece, decentrato in mille e mille iniziative di territorio e vuole tenacia e passione – ci darà la cifra dello sbocco politico possibile al momento del voto. E il voto potrebbe anche essere anticipato se le lotte operaie, i risultati elettorali del 2004, combinandosi, provocano il corto circuito di questo governo indecente.