Il pericolo delle destre e i percorsi per l’alternativa

TRE DOMANDE

1. Le destre al governo rappresentano, sia sul piano sociale che su quello degli assetti democratici, un pericolo inquietante, dai caratteri persino eversivi. Tale giudizio è ormai largamente condiviso e si è esteso a grandi masse popolari, al popolo della sinistra, al movimento operaio, al “movimento dei movimenti”. L’esigenza della cacciata del governo Berlusconi è prioritaria e spinge le forze comuniste, di sinistra, democratiche, di movimento all’unità. Ma la costruzione stessa dell’unità non può prescindere – è il nostro punto di vista – da almeno due questioni iniziali : 1) dal considerare i precedenti errori e cedimenti del centro sinistra tra le basi materiali della vittoria delle destre nel 2001; 2) dal considerare il conflitto sociale e l’opposizione di massa al governo Berlusconi come elementi essenziali della costruzione dell’alternativa e, dunque, di considerare insufficiente l’attuale grado di mobilitazione e di lotta condotte dal centro sinistra. Rispetto a ciò, qual è il tuo giudizio? Quale i percorsi necessari?

2. Crediamo che per battere il pericolo reazionario italiano occorra costruire un progetto di lunga lena che vada persino al di là della peraltro necessaria e decisiva vittoria alle prossime elezioni politiche nazionali. Crediamo che per scongiurare il pericolo di un radicamento di massa e di un’egemonia delle destre italiane occorra avviare un processo d’alternativa. Ma tale alternativa può determinarsi solo ad alcune condizioni: innanzitutto attraverso un radicale cambiamento della politica internazionale, non più subordinata alle strategie di guerra degli Usa e della NATO né ai dettami di Maastricht e al costituendo progetto di militarizzazione dell’Unione europea. E può determinarsi, questo processo per l’alternativa, solo attraverso l’attuazione di politiche sociali, economiche, istituzionali che mettano al centro gli interessi di massa e la “ricostruzione democratica”: salari, fisco, stato sociale, diritti, legge elettorale proporzionale. Quale il tuo giudizio rispetto a tale analisi ? Ritieni che attorno a questi obiettivi sia possibile costruire una alleanza che vada dal centrosinistra ai movimenti, sino al Prc ?

3. L’unità è la chiave di volta per battere le destre. Ma oltre a questa deve esserci un’altra consapevolezza: quella della diversità – anche profonda – tra i vari soggetti, politici e sociali, che dovranno concorrere a cacciare Berlusconi. Quali potrebbero essere, a tuo avviso, le condizioni generali, gli appuntamenti concreti per il confronto, le sintesi programmatiche, le mediazioni praticabili a livello politico ed elettorale che potrebbero offrirsi come basi concrete per la costruzione dell’unità tra le forze comuniste, di sinistra, democratiche e del movimento?

CACCIARE UN BERLUSCONI OGGI PER TROVARNE UN ALTRO DOMANI?
di Luciano Muhlbauer Segreteria nazionale Sincobas

Nelle discussioni a sinistra torna periodicamente il tema della “pazzia” di Berlusconi e quello dell’anomalia del caso italiano. Premesso che le patologie degli uomini di potere hanno sempre la loro importanza e che il governo Berlusconi presenta tratti di anomalia sicuramente significativi, come ci ricorda il caso del monopolio televisivo, mi pare tuttavia che non è lì che va ricercato il cuore del problema. Infatti, nelle scelte politiche fondamentali del governo prevale piuttosto la sintonia con le tendenze dominanti nel quadro internazionale. Conviene pertanto iniziare la riflessione da una affermazione contenuta nella seconda domanda, circa la necessità di un “progetto di lunga lena”, poiché il problema che abbiamo di fronte non è semplicemente la cacciata di un’anomalia, bensì la produzione di elementi di rottura e discontinuità con la normalità delle politiche liberiste e di guerra.

1. Il governo delle destre non è un incidente di percorso nel cammino di un paese normale, ma in esso si esprime perfettamente la tendenza egemonica del liberismo. Un’egemonia che viene da lontano, in un processo di dimensione epocale e globale, il cui punto di partenza si situa negli anni Settanta; certamente nelle innovazioni sul piano dei processi produttivi, ma soprattutto nelle sconfitte del ciclo di lotte precedente e nella conseguente modifica dei rapporti di forza sociali e politici. Un’egemonia economica, sociale e politica, tradottasi in una egemonia culturale totalizzante. Con l’affermarsi del cosiddetto pensiero unico veniva espulso dall’orizzonte della politica la possibilità dell’alternativa. La Thatcher l’aveva esplicitato nel suo famoso TINA, There Is Not Alternative, e l’amministrazione Reagan lo aveva sintetizzato nella tesi della “fine della storia”. Il problema stava nel fatto che quelle tesi, per assurde che possano suonare alle nostre orecchie, apparivano credibili e in sintonia con il sentire comune diffuso nel corpo sociale. E il problema sta nel fatto che un po’ ovunque le sinistre politiche e sociali tradizionali si erano sottomesse a quelle tesi, in una sorta di interiorizzazione della sconfitta. In questo senso non dovremmo parlare tanto di “errori” o “cedimenti” del centrosinistra nelle sue precedenti esperienze di governo, ma piuttosto della sua caparbia incapacità di sottrarsi all’egemonia delle politiche liberiste, finendo per essere il meno peggio che ha aperto le porte al peggio. La lista è lunga e peraltro conosciuta, quindi basti qui ricordare soltanto alcuni passaggi. La riforma pensionistica del governo Dini, il pacchetto Treu, la legge Turco-Napolitano, la bestialità della “guerra umanitaria” di D’Alema e la consegna di Ocalan al regime turco. E, giusto per non dimenticarlo, potremmo aggiungere il G8 del 2001, portato a Genova dal governo di centrosinistra. Peraltro non dobbiamo fermarci al livello della politica dei partiti, perché il problema è più di fondo. L’interiorizzazione della sconfitta ha coinvolto allo stesso modo le principali organizzazioni sociali, in primis le grandi confederazioni sindacali. Dalla svolta dell’EUR fino all’affermazione del sistema concertativo con l’accordo sulla cosiddetta politica dei redditi del 1993, i gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil hanno viepiù accettato il quadro delle politiche liberiste, abbandonato il conflitto come elemento centrale e rinunciato all’indipendenza da padroni e governi. Anche in questo caso, il risultato finale è quello di non avere contrastato nulla e di aver aperto le porte al peggio. Oggi, il sistema concertativo è fallito definitivamente e le destre cercano l’affondo finale. Infine, se guardiamo all’Europa, le cose non stanno diversamente negli altri paesi. C’è da stupirsi che tutto il processo di unificazione europea e il progetto di Costituzione, per ora naufragato, goda di un vasto consenso bipartisan per quanto riguarda il suo carattere liberista e militarista e che nessuna forza della sinistra moderata europea senta il bisogno di non collaborare all’affossamento del modello sociale europeo? Sì, non è semplicemente questione di cacciare Berlusconi, ma di ricostruire un orizzonte alternativo che rompa anche con le subalternità e le politiche della sinistra moderata, politica e sociale, dei decenni precedenti. Altrimenti, forse riusciremo a cacciare un Berlusconi oggi, per ritrovarne un altro dopodomani.

2. L’alternativa sociale e politica è una necessità impellente, ma dopo decenni di buio e con una realtà sociale modificata, siamo di fronte alla necessità di ricostruirla, sia da un punto di vista materiale che programmatico. E sono altrettanto convinto che occorre calare questo processo nella realtà data, nelle sue ombre e nelle sue luci, poiché oggi la situazione è molto difficile, ma anche carica di nuove possibilità. In altre parole, nella definizione degli obiettivi bisogna partire dagli elementi di crisi delle politiche liberiste e dalla novità politica di questi anni, cioè i movimenti. In questi ultimi anni il liberismo ha mostrato elementi di crisi sostanziali. Mi pare anzitutto una crisi di legittimità, una crisi del suo discorso incentrato sulla promessa di benessere e stabilità. Fatti come la bancarotta dell’Argentina, la crisi del patto di stabilità europeo o gli scandali della Enron e di Parmalat accompagnano l’impoverimento che stanno vivendo milioni di lavoratori italiani. La crisi c’è e soprattutto si vede e si sente. La stessa guerra permanente e il restringimento degli spazi democratici all’interno testimoniano una crisi di governo globale e una incapacità della globalizzazione capitalistica di garantire un quadro di stabilità. Tuttavia, la crisi delle politiche liberiste non significa la loro fine, anzi. I rapporti di forza sociali non sono cambiati sostanzialmente e non c’è una alternativa credibile pronta. Ma c’è un elemento di novità. Seattle, Porto Alegre, Genova, la parziale riattivazione delle mobilitazioni dei lavoratori, il 15 febbraio e così via, hanno rappresentato un elemento di inversione di tendenza, il primo dopo decenni di arretramenti. Il fatto che milioni di uomini e donne in tutto il mondo si siano messi in movimento, contestando le politiche liberiste e la guerra, cioè i due punti nevralgici della globalizzazione capitalistica, hanno prodotto un incrinatura nella egemonia culturale ed ideologica del liberismo e disegnato da sinistra e dal basso un nuovo spazio politico non subalterno e potenzialmente alternativo. Il dirompente grido collettivo “un altro mondo possibile”, che ad alcuni era sembrato terribilmente generico, ha invece relegato nel dimenticatoio la sciocchezza della “fine della storia”. Se vogliamo dunque assumere come possibilità gli elementi di crisi del liberismo e l’insorgenza dei movimenti, credo che gli obiettivi attorno ai quali costruire un percorso di alternativa e di costruzione di unità debbano essere sinteticamente i seguenti. In primo luogo, la questione sociale. La tendenza all’impoverimento di salariati e pensionati e la crescente precarizzazione del lavoro e della vita vanno assunti come centrali e prioritari. La politica dei redditi, con la truffa dell’inflazione programmata, ha provocato un travaso gigantesco di reddito dal lavoro al capitale, semplicemente accelerato dall’introduzione dell’euro. Le destre e i padroni puntano ad un ulteriore salto di qualità, con il superamento del contratto nazionale, la reintroduzione delle gabbie salariali e con i contratti individuali. Occorre archiviare il disastroso accordo del 1993 e va definita una nuovo automatismo, una nuova scala mobile. La legge 30, la peggiore e la meno conosciuta del governo Berlusconi, non va modificata, ma boicottata nella sua applicazione e abrogata integralmente, per invece definire un quadro normativo che riconosca diritti certi ed uguali per tutti e tutte. In secondo luogo, la democrazia, intesa non soltanto come contrasto alle tendenze autoritarie centrali, ma altresì nella sua accezione di democrazia partecipativa. Oltre alla legge elettorale proporzionale occorre aprire nuovi spazi di partecipazione e democrazia nella quotidianità. Da questo punto di vista, la democrazia e la partecipazione sui luoghi di lavoro assumono una centralità assoluta, come ci hanno ricordato le vicende dei metalmeccanici e dei tranvieri. Occorre una legge sulla rappresentanza sindacale democratica, l’obbligo di sottoporre i contratti al voto dei diretti interessati e la tutela effettiva del diritto di sciopero, gravemente manomesso dalla legge antisciopero 146/90. Infine, occorre cambiare radicalmente la politica sui migranti, a partire dall’eliminazione delle norme razziste della Bossi-Fini e dalla chiusura dei centri di detenzione. In terzo luogo, la pace. Il ripudio della guerra, senza se e senza ma, è un principio irrinunciabile e strategico. Questo significa nessuna partecipazione italiana agli interventi militari all’estero e il ritiro immediato dai paesi occupati militarmente, a cominciare dall’Iraq e dall’Afghanistan; messa in discussione del carattere interventista dell’esercito italiano, riduzione delle spese militari, nessuna partecipazione alla costruzione di eserciti interventisti soprannazionali, come le forze Nato e il costituendo esercito europeo e smantellamento delle basi militari Usa e Nato. In quarto luogo, il principio di sussidiarietà, vero e proprio cavallo di troia delle privatizzazioni, va rovesciato. I beni comuni, l’acqua, la scuola, la sanità, le pensioni, i servizi al pubblico, tutto quello che riassumiamo sotto la dizione welfare, vanno sottratti ai processi di privatizzazione. Infine, occorre costruire davvero una dimensione europea della politica di alternativa, costruendo uno schieramento basato unicamente sui contenuti, senza veti ed esclusioni a priori. La bussola non può che essere l’opposizione netta alla costruzione dell’Europa liberista e militarista, così come emerge dai trattati di Maastricht fino al progetto di Costituzione, per invece sostenere una processo costituente democratico e partecipativo, incentrato sull’estensione dei diritti sociali e di cittadinanza, sulla valorizzazione del beni comuni pubblici e sul ripudio della guerra.

3. I punti sopra elencati non sono una particolare novità. Sono punti e temi che erano e sono al centro di importanti mobilitazioni, nazionali ed internazionali, e sui quali forze diverse hanno realizzato delle convergenze. Sono obiettivi in radicale controtendenza con le politiche del governo Berlusconi, ma anche con quanto fatto dal precedente governo di centrosinistra. Segnano quella “diversità” che l’ernesto richiama nell’ultima domanda, anche se io userò il termine “radicalità”. L’esperienza dei movimenti tra il G8 di Genova ed il 15 febbraio è stata segnata profondamente dal binomio unità-radicalità. Una costante ricerca dell’allargamento e dell’unità, ma sempre sulla base di contenuti radicali, antiliberisti e contro la guerra. Un fatto autenticamente nuovo: un’unità costruita da sinistra e sui contenuti, invece che un’unità costruita al centro e a prescindere dai contenuti. Per battere Berlusconi e costruire una prospettiva di alternativa, di “lunga lena”, non abbiamo bisogno di un’unità politicista, ma appunto di un’unità che segni una diversità, una radicalità, una discontinuità. Ma quanto è possibile oggi? E com’è possibile? Dall’ultima estate ad oggi abbiamo assistito ad una modifica della situazione, a mio modo di vedere ad uno spostamento in senso moderato del quadro politico di opposizione. I movimenti, in senso lato, non hanno più determinato l’iniziativa politica e i gruppi dirigenti del centrosinistra hanno invece riacquistato capacità di iniziativa, ma mantenendo una forte continuità con gli orientamenti precedenti, mentre la Cgil sembra aver intrapreso un percorso di riposizionamento politico, assumendo come priorità assoluta la ricostruzione del rapporto unitario con la Cisl. A questo proposito mi pare utile guardare semplicemente a quanto è successo negli ultimi due mesi e in particolare alla vicenda degli autoferrotranvieri, che voglio qui assumere come cartina di tornasole. La generosa lotta dei tranvieri ha travolto a più riprese le “regole”, che altro non sono che la legge antisciopero che prevede mille regole e sanzioni per i lavoratori, ma nessuna regola per aziende e governi. Le “regole” sono state travolte e soprattutto è emersa il loro carattere iniquo. Su alcuni organi di stampa si è aperto perfino uno spiraglio di dibattito. Ma da parte di Margherita e DS sono piovute soltanto condanne sui lavoratori. Nessuna riflessione, nessuna parola su che cosa dovessero fare i lavoratori per ottenere il loro contratto e non perdere salario. Per quanto riguarda la Cgil, il bilancio è veramente preoccupante e non soltanto perché anche essa si è associata al triste coro di condanna degli scioperi. Il 20 dicembre mi pare sia successo qualcosa che c’entra poco o niente con i tranvieri, anche se sono stati i tranvieri a pagarne il prezzo. La Cisl era pronta a firmare il contratto bidone, l’avrebbe fatto comunque. La Cgil era di fronte alla scelta se fare come la Fiom, dando priorità ai contenuti e ai lavoratori, oppure scegliere l’unità a prescindere con Pezzotta. Il fatto che abbia scelto la seconda possibilità, con tutto quello ha implicato in seguito, dalla favola dei contratti locali che hanno aperto le porte alle gabbie salariali fino alla negazione del referendum ai lavoratori, sono un pessimo segnale per il futuro e rischiano di chiudere la salutare dialettica apertasi in campo confederale con la rottura sul Patto per l’Italia, per non parlare della solitudine della Fiom che a questo punto si drammatizza. In tutto questo, salvo qualche rara eccezione, da parte dei gruppi dirigenti del centrosinistra c’era anzitutto un imbarazzato silenzio e, infine, le tristi aperture di Rutelli sulle gabbie salariali. Potremmo a questo punto aggiungere le disponibilità sulla controriforma delle pensioni oppure le incredibili tentazioni astensioniste sulle truppe italiane nell’Iraq occupato. Insomma, mi pare che ci sia un problema. In questi ultimi mesi radicalità e unità si sono allontanate, con il risultato che il governo Berlusconi, con evidenti segni di crisi al suo interno, si trova davanti un’opposizione politica poco efficace e un centrosinistra assorbito dal politicismo dei suoi gruppi dirigenti e sempre disponibile a convergere su qualche cosa. In queste condizioni la strada dell’unità è decisamente in salita e occorre che le forze sociali e politiche antiliberiste e pacifiste ricostruiscano la propria iniziativa, lasciata un po’ troppo al margine negli ultimi tempi. I movimenti erano riusciti a costruire l’unità con radicalità perché c’era iniziativa politica, mobilitazione e conflitto. Senza tutto questo l’unità si sposta verso il centro e rischia anzi di diventare piombo nelle ali del processo di alternativa. Per le mediazioni ci sarà tempo, oggi occorre riprendere l’iniziativa e ricostruire la forza della radicalità.

CONTRO LE DESTRE LA PAROLA D’ORDINE È UNIRE
(E GLI UOMINI E LE DONNE DI SINISTRA HANNO MOLTO DA DIRSI E DA DIRE)
di Fabio Mussi Vicepresidente della Camera e Coordinatore della mozione “ Per tornare a vincere” dei DS

1. Sì, da un po’ di tempo ci sono misirizzi che scattano come molle quando si parla di “regime”. L’anima autoritaria del berlusconismo non si deduce solo dagli elementi di fatto: Forza Italia come “partito del Capo”, folate di nostalgia per il fascismo, intolleranza verso l’opposizione democratica, grovigli di conflitti di interesse, continui attentati alla separazione dei poteri, leggi “ad personam”, controllo quasi totale del sistema dell’informazione. Traspare anche chiaramente dal progetto di sovvertimento costituzionale – chiamato “riforma” – che ha iniziato il suo iter parlamentare: “devolution”, manipolazione della Corte Costituzionale, assoggettamento della magistratura (“riforma dell’ordinamento giudiziario”), superpresidenzialismo che porta ad un grado zero la funzione del Parlamento. Pende sulla testa del Paese una spada di Damocle, ma la temperatura dell’allarme è ancora troppo bassa. C’è qualche imbarazzo. Anche perché un giudizio compiuto e appropriato impone di rivedere anche a sinistra qualche teoria. Non è vero che la questione democratica gravita intorno ad una eccessiva dispersione del potere e ad una insufficiente capacità di decisione. La questione democratica dipende oggi soprattutto da una crisi della partecipazione popolare alle decisioni, e da un fracasso di quel sistema equilibrato di poteri (limitati, indipendenti, reciprocamente controllati) che costituisce l’essenza del costituzionalismo democratico moderno. Il centrosinistra ha dei meriti, soprattutto quello di aver salvato l’Italia, con un certo spirito di equità, da una crisi finanziaria potenzialmente catastrofica, alla metà dello scorso decennio, e di averla portata in Europa. Ma deve pienamente riconquistare una autonomia politica e culturale dal pensiero dominante (il liberismo); “riforma sociale” e “riforma intellettuale e morale”, com’è noto, vanno insieme. Ma non ci si solleva da soli tirandosi per i capelli, come riusciva magicamente a fare il Marchese di Munchausen. Fondamentale è ristabilire pienamente il contatto con quei movimenti (del lavoro, per la democrazia e Altromondialisti) che sono riusciti a scuotere l’opinione pubblica, e rianimare l’opposizione, nei momenti di più bassa marea. Penso ad una rete di partiti e movimenti. Temo fortemente una situazione nella quale i partiti politici possano regredire a maxi comitati elettorali, e i movimenti trovarsi sostanzialmente privi di rappresentanza politica. D’altronde i grandi partiti politici sono figli di movimenti storici, e si sono rinnovati – quando ci sono riusciti – entrando in contatto con nuovi movimenti saliti dalla società. Se si hanno occhi per guardare, si vede bene che il mondo è scosso da nuove contraddizioni, che formano coscienza e che possono produrre nuova politica globale. A volte sembra che tutto precipiti indietro: ma forse è una falsa percezione. E per la sinistra invece si stanno aprendo nuovi campi e nuovi territori. Per quanto mi riguarda, in sintesi, ho tratto dalla sconfitta del 2001, e dalla impressionante sequenza di cadute (ahimè, forse non ancora finita) dei partiti socialisti in Europa, la conclusione che bisogna spostarsi più a sinistra, non più a destra. Lo dico così, in modo un po’ sommario e grossolano, per rendere chiaro il concetto.

2. Se non si costruisce una alleanza che vada dal centrosinistra, ai movimenti, sino al Prc, le prossime elezioni politiche sono perse, e non si mettono i mattoni di alcuna alternativa. La via maestra è quella programmatica. Mi pare evidente che occorre costruire una opposizione democratica mondiale ai neoconservatori americani e alla amministrazione Bush. Non è impossibile che l’ideologia neoimperiale, la politica distruttiva delle istituzioni e del diritto internazionale costruito dopo due guerre mondiali, l’idea (e la pratica) della guerra come sistema principe di regolazione di rapporti planetari – tutti aspetti, permeati di integralismo religioso, destinati nelle intenzioni degli autori a ridisegnare il mondo del terzo millennio – possano essere rovesciati prima del previsto. Basta seguire la campagna per le Presidenziali americana, e la risalita dei Democratici, che con Kerry annunciano: “Abbiamo abbattuto il regime di Saddam, ora abbattiamo il regime di Bush”…. Credo che sia molto importante combattere risolutamente gli attuali gruppi prevalenti, affaristico-militaristi. E’ altrettanto importante mantenere un legame forte con il mondo democratico americano. E far valere una autentica posizione autonoma dell’Europa. Per questo il progetto di una unione politica europea è roba che ci appartiene. E dobbiamo farlo valere in due direzioni: la ripresa di un processo (ormai drammaticamente interrotto e invertito) di disarmo, e uno sviluppo economico centrato sul valore del lavoro e della conoscenza, e sui diritti sociali. Per questo il Patto di stabilità va rivisto: basterebbe riprendere qualche proposta contenuta nel “Piano Delors” di dieci anni fa, e lasciata morire nei cassetti. Non è più tempo di monetarismo. Mi pare del resto che si stia smorzando la grande ondata ideologica (privatizzazioni a tutti i costi, mercato libero da “lacci e lacciuoli”, flessibilità estrema del mercato del lavoro, meno tasse meno welfare più crescita etc.), e che, un po’ per amore un po’ per forza (basta pensare alla clamorosa sequenza che da Enron ci porta a Parmalat), rifioriscano altri valori e altri principi: regolazione del mercato, beni comuni, primato delle politiche pubbliche, rivalorizzazione del lavoro, tassazione sufficiente e progressiva per finanziare lo Stato sociale etc. Ma bisogna estrarre, e presto, da un certo mutamento di clima e di fase il programma comune delle opposizioni politiche e sociali. Di una cosa dubito assai: che il ritorno alla legge elettorale proporzionale sia la Terra Promessa della sinistra. Temo che possa essere l’Eldorado del neocentrismo.

3. Sì, l’unità è essenziale. Abbiamo un dovere, verso le generazioni passate che, con la lotta di liberazione, ci hanno consegnato la Repubblica democratica e antifascista, e verso le generazioni future, alle quali non possiamo lasciare in eredità una società marcata dalle disuguaglianze e un regime regressivo, plebiscitario e populista. Ho sempre creduto alla sinistra e all’Ulivo, e ad una alleanza di cui fa organicamente parte Rifondazione comunista. Per questo non ho condiviso la scelta della “lista unitaria” per le europee: temo che un “blocco riformista” possa, alla fine, complicare piuttosto che sciogliere il nodo dell’unità. Non possiamo aggirarci nel labirinto delle formule, come Teseo in cerca del Minotauro delle diversità, per tagliargli la testa con la spada. Il campo della sinistra e del centrosinistra, su cui occorre edificare il progetto di una alternativa di governo, è segnato da identità – storiche, politiche e culturali – che occorre sapientemente valorizzare. Dobbiamo insistere sui contenuti. Moltiplicando i luoghi – assemblee, iniziative di movimento, Forum programmatici – in cui avvicinare reciprocamente l’interpretazione dei fatti e la visione delle cose, e realizzare un compromesso alto. Decisive non saranno le “aggregazioni-guida”, ma i compromessi alti – sulla guerra e sulla globalizzazione, sulla democrazia e sul lavoro, sui diritti e sulle libertà – che possono cementare un consenso maggioritario. L’atto dell’unire, è anche un atto del rappresentare. Gli uomini e le donne della sinistra italiana, oggi diversamente dislocati, hanno cose da dirsi, e da dire.

PER L’ALTERNATIVA: CENTRALITÀ DEI CONTENUTI, MENO TATTICISMO, PIÙ DETERMINAZIONE
di Gianluigi Pegolo Responsabile nazionale Enti Locali Pr c

Le domande poste da l’ernesto affrontano un insieme di questioni importanti, ponendo il tema della prospettiva a breve-medio termine in un contesto politico–sociale in cui molti elementi sono ancora poco chiari. Si rischia, pertanto, o di finire nel “genericismo” o nell’”azzardo” e, soprattutto, nella ripetizione di formule o proposte anche condivisibili, che tuttavia non ci consentono più di tanto di approfondire alcuni nodi. Per comodità seguirò lo schema dei quesiti che sono stati posti, ben sapendo che per ciascuno le problematiche tendono ad aprirsi a ventaglio e quindi le risposte non possono che essere parziali.

1. In merito alla pericolosità del governo delle destre e della necessità della sua sconfitta non credo vi sia da aggiungere molto. Più che altro varrebbe la pena puntualizzare alcuni aspetti sui quali si è concentrato il dibattito a sinistra in questi anni. La prima considerazione che mi viene spontanea è che a questo giudizio si è arrivati tardi e questo non è slegato dall’analisi di classe che sorreggeva le varie interpretazioni, né tantomeno dai pregiudizi politico-ideologici da cui partivano i vari assunti. Questo ritardo, sia ben chiaro, è imputabile tanto alla sinistra moderata quanto a quella radicale, seppure per ragioni molto diverse. A riprova, pensiamo alla vicenda della “bicamerale” o all’assenza di una produzione legislativa sul conflitto d’interesse o, addirittura, ad errori macroscopici commessi sul piano dell’ingegneria istituzionale (come il caso della legge elettorale) da parte del centro sinistra. In ognuno di questi casi si è presupposto che il nuovo schieramento apparso sulla scena politica italiana (il centro destra) costituisse una variante (seppur estrema) di quel moderatismo conservatore che sempre aveva caratterizzato una parte delle forze politiche italiane (DC in primis). Per questo si è puntato a coinvolgerlo nella prassi istituzionale, se n’è sottovalutata la strategia invasiva e si sono sottovalutati gli effetti disastrosi di alcuni marchingegni istituzionali. Analogamente, nella sinistra radicale, pur avendone colto con più acume la natura, si è comunque teso a respingere ogni impostazione che sottolineasse il carattere eversivo della nuova coalizione e questo non solo perché si è posto molto di più l’accento sul disegno sociale (la scelta liberista) ma anche perché, io temo, per troppo tempo si sono inseguite le suggestioni di teorie come quella delle “due destre” che hanno finito con l’appannare anche la capacità di analisi sull’avversario principale. In ultima analisi, a me pare che sia prevalsa una valutazione congiunturale che abbia finito col far perdere la capacità di cogliere la novità rappresentata dalla coalizione di destra. Sull’analisi di cosa effettivamente sia la destra nel nostro paese, in verità non è stato fatto un adeguato approfondimento, almeno in termini di indagini scientifiche, né i dati elettorali hanno ancora dato delle indicazioni esaustive. E tuttavia, ricomponendo gli elementi di conoscenza, alcuni tratti sembrano delineati. In primo luogo, la coalizione di destra non ha una matrice sociale univoca. Ciò può valere in una qualche misura per figure del lavoro autonomo, specie nel nord est, ma quello che colpisce è la presenza nelle file degli elettori di destra di figure tradizionalmente collocabili a sinistra: una parte significativa dei lavoratori, figure a basso reddito. Il secondo aspetto mi pare sia rappresentato dal carattere essenzialmente laico di quest’aggregazione. Voglio dire che non ci troviamo sic et simpliciter alla riproposizione sotto altre vesti del partito confessionale. La Dc, insomma, è morta una volta per tutte. Questo non significa che nella coalizione di destra la presenza di cattolici conservatori sia irrilevante, tutt’altro, ma che questo non sia l’aspetto determinante. Infine, il radicamento territoriale della destra è assai diffuso e si attenua in presenza delle macroaree in cui sopravvive una cultura di sinistra. Non si notano, cioè, o almeno così a me pare, delle delimitazioni fra aree elettorali così caratterizzate sotto il profilo sociale. E ciò significa che qualcosa di profondo si è prodotto in questi anni, sovvertendo le forme della rappresentanza politica. Mi rendo perfettamente conto che in questa rappresentazione vi sia il rischio di commettere semplificazioni. E’ evidente, ad esempio, che in ciascuno di questi aspetti siano rintracciabili gli effetti di fenomeni strutturali che si sono prodotti in questi anni. Si pensi alla sparizione della Dc e del Psi, o alla trasformazione delle basi produttive del paese, sempre più indirizzate verso una specializzazione flessibile incardinata sulle piccole dimensioni aziendali, così come l’indebolimento subito da alcune organizzazioni della società civile. Se comunque dovessi trovare un minimo comun denominatore a fenomeni così diversi, lo cercherei nel prevalere della dimensione “individuale” su quella “collettiva”, prodotta dall’indebolimento dei fenomeni di coesione sociale, garantiti in primo luogo dal welfare, cui si è accompagnata un’egemonia culturale sulla superiorità dei meccanismi di mercato rispetto alla gestione pubblica. Il fenomeno marcatamente interclassista che accompagna l’affermazione della destra italiana, nasce in primo luogo da qui, giacché la rottura degli elementi di coesione sociale ha spezzato tutte le precedenti aggregazioni e perfino quelle più interne al blocco sociale della sinistra. Mi rendo conto che quest’affermazione può sembrare riduttiva ma non lo è se la intendiamo in un orizzonte più ampio in cui includiamo nel welfare tutto quel sistema di garanzie che non è solo legato alle funzioni garantite dalle istituzioni ma che é anche penetrato nei rapporti sociali in virtù dei risultati ottenuti dal conflitto sociale. Questi fenomeni, peraltro, non sono prerogativa della situazione italiana. Ciò che invece caratterizza la destra nostrana è il suo profilo sovversivo. Il fenomeno è imputabile essenzialmente a due fattori: da un lato l’emersione di nuovi soggetti sociali fortemente dinamici economicamente ma politicamente poco incidenti. E’ il caso della rivolta fiscale (su basi secessioniste) di alcune fasce sociali che hanno alimentato la crescita della Lega Nord. Dall’altro lato: il vuoto lasciato dalla dissoluzione di alcune forze politiche che è stato rimpiazzato da una nuova forma di organizzazione politica, quel partito-azienda che ha finito col far coincidere “in toto” esigenze politiche con esigenze personali. In questo contesto, collocherei il ruolo assunto dal governo di centro sinistra nella recente vittoria elettorale di Berlusconi. Prima di tutto non userei il termine “cedimenti” (mentre mi suona meglio il termine “errori”) perché questo richiamerebbe una sorta di abbandono di principi consolidati. Ciò è vero, ma solo in parte perché se ha un qualche fondamento l’analisi prima condotta, ciò che si è prodotto in questi anni poteva essere contrastato non solo con un’adeguata opposizione al liberismo ma anche con la predisposizione di nuovi e innovativi strumenti. Si pensi quanto ha inciso per il successo delle destre l’assenza di una politica di sviluppo soprattutto al sud o come abbia pesato l’indebolimento o la dequalificazione dei servizi sociali in alcune aree del paese. Il punto vero è che il centro sinistra ha consapevolmente reagito a questi mutamenti tentando un’operazione assurda e cioè salvaguardano una parte del proprio patrimonio politico culturale e assimilando in parte quello dell’avversario (dando luogo a quel liberismo moderato di cui molto si è parlato) nell’illusione che essi fossero non solo compatibili ma che anzi permettessero di risolvere alcuni problemi (la crisi fiscale dello stato o i vincoli macroeconomici posti dalla politica comunitaria) e nel contempo consentissero di sottrarre all’avversario una crescente egemonia su alcuni strati sociali. Qui la disanima potrebbe essere molto lunga e richiederebbe un’analisi di merito, ma non c’è dubbio che si siano commessi gravi errori. Si pensi alla flessibilizzazione del mercato del lavoro (avviata da Treu), alla crescente e spesso immotivata privatizzazione dei servizi pubblici, alla retorica sull’invasività dello stato, che ha condotto alla riforma del titolo V. Il fatto è che questa strategia ha comportato l’indebolimento dei propri referenti sociali e il rafforzamento di quelli dell’avversario ed, infatti, le sconfitte o le vittorie dell’Ulivo sono il risultato per l’appunto di comportamenti differenziati nei due segmenti dell’elettorato. In ultima analisi, la sconfitta del centro sinistra è più che l’affermarsi dell’egemonia conservatrice, il risultato della perdita di identità di una sinistra sempre meno riconoscibile.

2. Non c’è alcuno a sinistra che non rivendichi l’essenzialità del programma, come conditio si ne qua non per condurre una battaglia vincente contro le destre in vista delle prossime elezioni politiche. Che poi questo richiamo corrisponda ad una convergenza di fondo, è un’altra cosa, giacché, come avrò occasione di argomentare successivamente, i punti di vista sono a tale riguardo molto diversi e ciò rappresenta la maggiore difficoltà per ricomporre uno schieramento unitario. Ad ogni modo, per addentrarsi su questo tema decisivo, mi permetto di fare alcune osservazioni. Un programma deve essere segnato in primo luogo da alcune coordinate generali. A mio avviso occorre prendere atto che: 1) Lo scenario economico sociale è cambiato radicalmente e che quindi è impossibile dare una risposta efficace riproducendo semplicemente punti di vista acquisiti senza porsi il problema anche di fare i conti con alcune novità, 2 ) che la cesura prodottasi nell’elettorato, è profonda e non ha caratteri effimeri. Esistono oggi nel paese due orientamenti antitetici nell’elettorato. Per questo la prevalenza in una battaglia per l’egemonia non è cosa né facile né breve perché implica per molti versi la ricostruzione (uso questo termine consapevole della sua pesantezza) di elementi di identità che sono stati spazzati via. 3) Un programma necessita di una scelta consapevole degli interlocutori sociali e politici che si assumono. Un tempo, di fronte ad un’articolazione di classe ben definita, non solo dal punto di vista della collocazione nel ciclo produttivo, ma anche sotto il profilo dell’identità culturale, tutto era più facile. Oggi non è più così, ma non è vero che questi interlocutori, per quanto meno definiti, non siano riconoscibili. In secondo luogo, che una battaglia per l’egemonia, pur se essenziale, deve scontare tempi non necessariamente conformi a quelli dettati dall’agenda politica, per cui (accanto a questo sforzo di lunga lena), ciò che alla fine si renderà probabilmente decisivo sarà la rimotivazione del proprio elettorato di riferimento, anziché improbabili sfondamenti al centro. Infine, che l’elettorato di sinistra può essere individuabile in alcune categorie: alcune definibili per collocazione di classe ( il mondo del lavoro in primo luogo) con i necessari aggiornamenti, una fascia a basso reddito per la quale il clientelismo populista berlusconiano non ha avuto alcuna reale incidenza, un’area senza precise connotazioni di classe o di reddito che tuttavia ha introiettato per ragioni diverse una cultura di sinistra e ha fatto propri alcuni valori, una realtà giovanile di massa che si è accostata recentemente alla politica, spesso sulla base di opzioni etiche, ma anche per il rifiuto di un modello sociale sempre più iniquo e corrotto. Indicare i temi attraverso cui potrebbe articolarsi un programma per l’alternativa non è in sé particolarmente difficile, almeno come operazione astratta. Oltretutto lo sfascio che sta producendo il governo Berlusconi sollecita numerosissimi interventi per porre rimedio alle sue malefatte. Il problema è che un programma per essere effettivamente tale deve intercettare, in primo luogo, la domanda sociale dei soggetti verso cui si rivolge. La prima esigenza che io avverto è quella di uscire dalla condizione di precarietà e solitudine che attraversa il mondo del lavoro. Lascerò nella risposta al terzo quesito il ragionamento sulla funzione dei vari soggetti politici. Per il momento mi limiterò al piano esclusivamente programmatico. Questa condizione del mondo del lavoro si supera oggi solo in due modi: da un lato con un segnale forte sul piano della qualità del lavoro. Un obiettivo per tutti: l’eliminazione (non il furbesco emendamento) della Legge 30 e una legislazione che solleciti l’estensione del lavoro a tempo indeterminato. Il secondo è un programma per l’occupazione e lo sviluppo rivolto in special modo al Mezzogiorno. Questo programma non si sostanzia nelle grandi opere (di cui conosciamo la logica anche per esperienze passate), né nei patti territoriali, fallimentari esperienze di concertazione territoriale, i cui effetti sono stati risibili. Un programma di questo tipo implica l’uso accurato delle risorse (in primis i fondi europei, oggi male utilizzati), l’elaborazione di piani integrati localmente in cui il pubblico, riqualificato e profondamente rinnovato, svolga un ruolo decisivo. Un programma per lo sviluppo implica anche un’idea chiara sul posto che nella divisione internazionale del lavoro intende occupare l’Italia. Su questo tema mi pare che vada fatto un discorso di verità: le politiche per la formazione, gli incentivi alle imprese, la realizzazione di infrastrutture locali adeguate sono tutte cose positive, ma alla fine il problema di fondo è la ripresa di una prospettiva di economia mista per la quale si intervenga da subito nei casi di crisi con un intervento pubblico diretto e per il resto si ricostruiscano nuclei di sviluppo nei settori di punta. La terza questione che pongo è la questione per eccellenza: il salario. C’è poco da dire, in un periodo di ripresa dell’inflazione, con tassi di sviluppo particolarmente bassi, affrontare la questione del reddito è indispensabile. Si può discutere sulle soluzioni ma l’adeguamento automatico di pensioni e stipendi è la prima esigenza. La seconda è di avere pensioni dignitose. Il che implica, prima di tutto, eliminare il progetto Berlusconi sulla previdenza. Per quanto riguarda i disoccupati, premesso che tutti devono avere la possibilità di vivere senza finire nell’indigenza o nella criminalità, ogni distribuzione di risorse svincolata da una prospettiva anche a lungo termine, di inserimento nel mondo del lavoro mi sembra una scelta molto discutibile. Una quarta questione riguarda nello specifico ciò che oggi viene chiamato welfare state e cioè un insieme di servizi (scuola, sanità, assistenza, ecc.) che costituiscono l’ossatura del sistema di protezione sociale. Questi servizi non esauriscono tale sistema. Il campo è molto ampio, specie quando si spazia nei servizi locali. Che sia in atto un attacco allo stato sociale è evidente. Ora, rilanciare l’universalismo dei diritti implica, in primo luogo, una diversa ripartizione di risorse, in secondo luogo il ripristino di un principio di universalità (il che significa anche estensione del tipo di servizi in ragione dei nuovi bisogni), in terzo luogo il ripristino del controllo pubblico. Qui, tuttavia, non si possono porre sotto silenzio anche alcune carenze oggettive. La semplice difesa del pubblico, infatti, non è sufficiente. Per due ragioni di fondo: in primo luogo i servizi pubblici sono in taluni casi non adeguati quantitativamente e qualitativamente e vanno quindi riqualificati, in secondo luogo, la loro offerta non sfugge ad una logica massificata che spersonalizza lo stesso servizio e la loro gestione burocratica esclude quel protagonismo della collettività che è essenziale. Infine, per non farla lunga, due ultime questioni: la politica internazionale e la questione democratica. Sul primo punto già molti sono intervenuti con proposte che condivido. La difesa dell’articolo 11 della Costituzione è la premessa non solo per la salvaguardia dell’autonomia nazionale, ma per un ruolo attivo dell’Europa in una prospettiva multipolare ed, infine, per la ricostruzione di uno spirito di collaborazione con tutte le aree del mondo che è la condizione, non solo per intervenire sulle devastazioni provocate dalla globalizzazione capitalista ma anche per eliminare conflitti e la piaga del terrorismo. E vengo infine alla questione democratica, dove il primo provvedimento non può che essere l’eliminazione di gran parte della produzione legislativa di Berlusconi al fine del ripristino di condizioni essenziali di uno stato di diritto. E, tuttavia, il problema non si risolve solo qui. Perché ciò che pesa nella coscienza della gente non è solo l’abuso, ma anche la sottrazione di potere decisionale (si pensi alla mancata verifica degli accordi sindacali da parte dei lavoratori). Di questo il centro sinistra porta una grave responsabilità. So bene che si tratta di un terreno difficilissimo, si pensi alla lotta al presidenzialismo e alla reintroduzione del proporzionale. Sarebbe assai curioso e certamente politicamente molto dannoso che la Casa delle libertà per introdurre il presidenzialismo assumesse almeno in parte un modello proporzionale, è alle forze della sinistra che compete alzare entrambe le bandiere.

3. E vengo alla terza domanda, quella in realtà più impegnativa perché ci rimanda alla questione delle scelte concrete, del percorso da intraprendere, degli obiettivi possibili per costruire questa alternativa. Condivido l’asserzione contenuta nella prima domanda posta da L’Ernesto e cioè che il governo Berlusconi vada battuto e che questo sia essenziale. Capisco il ragionamento di quanti, prendendo atto delle differenti posizioni presenti a sinistra, sostengono l’impossibilità pratica di determinare un ampio schieramento unitario necessario per battere Berlusconi e, tuttavia, non lo condivido. Per queste ragioni: la prima, più banale, ma non per questo meno rilevante, è che l’unità contro Berlusconi risponde ad una domanda di massa di quello stesso popolo di sinistra che noi abbiamo l’ambizione di rappresentare. Si può dire che ciò non è in sé sufficiente, personalmente mi chiedo che senso abbia una scelta politica che procede a prescindere dal consenso dei propri stessi referenti sociali. La seconda ragione, che ritengo più importante, è che, senza la sconfitta di Berlusconi in tempi rapidi, vi può essere un ripiegamento della protesta sociale. Non illudiamoci troppo sulle controversie scoppiate nella Casa delle libertà: possono ricomporsi. Né sopravvalutiamo la tenuta del fronte sindacale. Siamo così sicuri che in una gestione del governo molto prolungata da parte delle destre terrà questo accordo fra i tre sindacati confederali e, infine, in caso di vittoria di Bush alle presidenziali USA, siamo certi che ciò sarà privo di riflessi sul governo italiano e sul suo consolidamento anche nel quadro europeo? Il problema quindi non è “se” impegnarsi nella costruzione di uno schieramento unitario ma “come farlo”. A partire dalla consapevolezza delle rilevanti differenze che vi sono con l’Ulivo. Se c’è un’evoluzione positiva a sinistra essa si riduce essenzialmente alla consapevolezza dell’indispensabilità dei rapporti unitari. Inoltre, vi è una comune percezione sulla pericolosità delle destre sul piano democratico. Per quanto riguarda il resto, pur non sottovalutando alcuni ripensamenti sulle politiche portate avanti dal centro sinistra nel corso degli anni ’90, tutto si fa molto aleatorio. Gli ultimi sviluppi del dibattito, peraltro, sono di per sé illuminanti dopo le dichiarazioni di Rutelli sulla riforma del sistema presidenziale e di D’Alema sul possibile voto di astensione sulla permanenza del nostro contingente militare in Iraq. Prendiamo quindi consapevolezza che l’Ulivo non è sostanzialmente cambiato, che al momento non ha una posizione adeguata a sostenere un accordo organico di governo con Rifondazione comunista e poniamoci il problema di come agire. Due sono i fattori su cui è possibile agire, da un lato una potenzialità reale rappresentata dall’iniziativa del movimento di massa e, dall’altro, dalla disarticolazione apertasi nell’Ulivo che ha messo in evidenza una parte di sinistra con la quale ci sono molti punti di vista comuni. A cosa si deve questa disarticolazione? Semplicemente alla esplicitazione di due linee configgenti che derivano da un’analisi della situazione molto diversa. A questo punto ritengo sia inderogabile una digressione sulla questione del “partito riformista”, anche perché su questo punto si è parlato molto, ma si sono anche accarezzate aspettative che io giudico poco fondate nella sinistra di alternativa. Talvolta se ne è denunciato il carattere moderato e, in altri casi, si è glissato su questo aspetto, rappresentandolo come una semplice riarticolazione di forze politiche. In alcuni casi se ne è denunciata la pericolosità, in altri si è sottolineato lo spazio che una simile operazione avrebbe aperto a sinistra. Personalmente non ho dubbi: questa operazione ha un significato moderato, si propone esplicitamente come interlocutore del centro della Casa delle libertà, rende assai più difficile un accordo con la sinistra di alternativa ed è del tutto dubbio che ampli, piuttosto che ridurre, lo spazio della stessa sinistra di alternativa. L’obiettivo, infatti, non mi pare sia solo quello di spostare a destra l’asse politico della coalizione di centro sinistra, ma anche di marginalizzare la sinistra di alternativa. Il punto è che lo spazio politico non è un semplice spazio geografico misurabile sulla base della superficie occupabile, ma implica l’esistenza di una soggettività politica in grado di coprire tale spazio e oggi, a sinistra dei DS, non mi pare vi sia ancora nessuno in grado di farlo pienamente. Questa dicotomia, ovviamente, rende assai difficile il raggiungimento di un’intesa su basi politico-programmatiche. La cosa si potrebbe liquidare prendendo atto della situazione e ipotizzare in vista delle prossime elezioni politiche una qualche intesa di tipo tecnico che prenda atto dell’impossibilità di una vera convergenza politica. Non è escluso che a questo alla fine si debba giungere, ma credo sarebbe un errore dando per scontato questo esito, rifiutare un confronto con la sinistra moderata. Infatti, una cosa è giungere ad un accordo come esito di un confronto vero, una cosa e siglarlo dopo aver eluso il confronto. La seconda posizione è difficilmente comprensibile. Inoltre, resta sempre in campo la possibilità, non so quanto remota, che si riproduca quanto verificatosi con la desistenza e cioè l’indispensabilità numerica del sostegno di Rifondazione comunista al governo. Ma la questione principale resta quella dell’aspettativa di un elettorato di sinistra che chiede una svolta nelle politiche e che cerca qualcuno che da subito si batta per questa possibilità, perché, sia ben chiaro, di fronte ad un’eventuale sconfitta di Berlusconi, una riproposizione da parte dell’Ulivo delle posizioni precedentemente assunte durante i governi retti dal centro sinistra, o la continuità con l’ispirazione di alcuni provvedimenti voluti da Berlusconi, alimenterebbe una pericolosa delusione di massa. Per ragioni sia politiche che tattiche, dunque, credo convenga che una sinistra di alternativa faccia da subito la sua parte, battendosi per un’opposizione efficace e per un programma effettivamente alternativo, giacché la battaglia per l’egemonia a sinistra è tutta aperta. Ma è così che stanno andando le cose? Non mi pare. Ogni segmento di questa sinistra di alternativa prosegue in parallelo, spesso dicendo le stesse cose, né si vedono processi di reale convergenza che facciano emergere una posizione unitaria, coesa e determinata. Il metro di misura va ricercato nei comportamenti di massa. Siamo in una fase di conflittualità, è vero, ma esiste in una parte consistente del popolo della sinistra, oltre al rifiuto, questo sì inequivocabile, di Berlusconi, una tensione comune verso una proposta programmatica unificante, alcune proposte di grande impatto di massa, una spinta vera su alcuni contenuti più avanzati di quelli espressi dalla stessa sinistra moderata? Se si esclude, in parte, il movimento contro la guerra in Iraq, a me non pare vi siano questi segnali. Non solo. Qualcuno nel paese sa come procede il confronto sui tavoli programmatici fra centro sinistra, Rifondazione comunista e Italia dei valori? E soprattutto, a questi tavoli, è visibile una battaglia comune della sinistra di alternativa capace di condizionare effettivamente le proposte? Ho l’impressione che si vivacchi sulla base di una considerazione molto pragmatica: al di là delle divisioni, ad un accordo si deve comunque andare, tanto vale non spingersi troppo in avanti alimentando polemiche che potrebbero pregiudicare l’obiettivo finale. Che fare allora? Innanzitutto, credo che l’insieme delle forze che esprimono un punto di vista alternativo, siano esse politiche o sociali, debbano convergere su una piattaforma comune. Questa piattaforma va fatta vivere in un rapporto di massa, deve essere resa pubblica, alimentare un dibattito e soprattutto connettersi con quanto di meglio c’è oggi nel movimento. In secondo luogo, il confronto con l’insieme del centro sinistra deve essere chiaro, senza timori di affrontare anche uno scontro su questioni dirimenti, ma, soprattutto, deve essere reso esplicito e trasparente. In terzo luogo, vanno costruite le premesse per un forte rafforzamento della sinistra sindacale. Il problema, ovviamente, non si riduce alla FIOM, ma investe in primo luogo la CGIL che, pur avendo assunto posizioni coraggiose, nelle concrete esperienze categoriali è spesso ricaduta nella precedente pratica concertativa. Infine, si deve lavorare veramente ad un’unificazione dei movimenti, troppo slegati fra loro, troppo settorializzati e per questo inadeguati. Si prenda l’esempio del “movimento dei movimenti” sul quale si è appuntata l’attenzione di Rifondazione comunista negli ultimi anni. Occorre con franchezza riconoscere che quel movimento stenta ad assumere come questione fondamentale la questione sociale. Mi rendo conto che questo approccio non risolve la questione dirimente di quale possa essere una piattaforma di mediazione accettabile per ricomporre uno schieramento democratico e progressista in vista delle prossime elezioni. Alcuni si sono esercitati in tal senso in maniera pregevole isolando alcuni contenuti di indubbio valore. Ciò vale per l’eliminazione di una parte della legislazione di Berlusconi, per il rispetto dell’art.11 della Costituzione, e via dicendo. Si tratta di uno sforzo pregevole ma sono convinto che senza una battaglia politica esplicita a sinistra sia molto difficile predeterminare il punto di caduta del confronto. Nell’immediato alcuni appuntamenti possono rivelarsi decisivi. Penso alla giornata mondiale del 20 marzo in occasione dell’anniversario dell’occupazione militare americana dell’Iraq, all’estensione di un conflitto sociale che sta toccando nuovi settori, che spesso supera precedenti limiti corporativi, alla partita delle amministrative per tentare di invertire almeno su alcuni punti (pensiamo alle privatizzazioni) le linee perseguite in questi anni dal centro sinistra. Pensiamo alla battaglia contro la riforma presidenziale, al consolidamento in CGIL di una sinistra che non assuma atteggiamenti subalterni. Come si vede non sono i terreni di iniziativa che mancano, occorre solo meno tatticismo e molta più determinazione.

CONTRO LE DESTRE IL VALORE DELL’ UNITÁ
di Cesare Procaccini Direzione Nazione PdCI

1. Le destre, storicamente, hanno rappresentato sempre un pericolo per la democrazia, ma in questa fase, ed in particolare nel nostro Paese, le destre politico istituzionali e quelle economiche rappresentano un pericolo particolarmente grave e inquietante e per diversi motivi. In primo luogo: lo spazio lasciato dalla fine del PCI non è stato, purtroppo, colmato da nessun’altra forza politica; il partito di massa, di classe e nazionale non esiste più e con esso viene meno il più forte argine democratico. Berlusconi e la Confindustria stanno saldando su basi di massa un nuovo blocco sociale e la precarizzazione e la flessibilità totale del mercato del lavoro non solo rappresentano un attacco violento alle condizioni di vita dei giovani e dei lavoratori, ma rappresentano altresì un disegno di disarticolazione e indebolimento, sul piano delle lotte, del movimento operaio e dunque un ulteriore , possibile, elemento di allargamento del blocco sociale delle destre. Destre intrise di un populismo nuovo, in Italia, un populismo tendente a rompere ogni tessuto solidale attraverso una “svolta culturale” di massa volta all’estensione, nel senso comune del nostro paese, del mito americano dell’ “uomo che si fa da sé”; una “svolta” diretta ad imprimere un “senso” liberista ad ogni articolazione della democrazia: dalla giustizia all’informazione, passando naturalmente per l’attacco ai diritti del lavoro. Una destra ferocemente razzista e che aizza i peggiori istinti di massa razzisti e che, assumendo le più oscure pulsioni della storia della reazione, condanna tutti i “diversi”. Una destra, in sintesi, pericolosissima sul piano culturale e su quello economico e sociale. Controriforma scolastica e Legge 30 sul lavoro sono due estremi di un disegno politico teso a cambiare nella sostanza i tratti progressivi della Costituzione italiana. Il centro sinistra, con tutti i suoi difetti, non è affatto uguale a questa destra subordinata alle politiche di guerra degli USA e vera e propria avanguardia della reazione politica e sociale estrema. Né è possibile considerare, come è stato fatto anche a sinistra, che centro destra e centro sinistra siano due poli simili divisi solo dalla battaglia elettorale! Chi ha concepito una simile analisi non ha certo aiutato il movimento operaio a liberarsi del pericolo Berlusconi, né ha aiutato ( sfilandosi dalla battaglia) ad aprire contraddizioni positive all’interno stesso del centro sinistra. Per cacciare Berlusconi sono improbabili le “spallate” o le fughe in avanti: occorre invece consolidare e ampliare lo schieramento politico e sociale di lotta che è cresciuto nel Paese e occorre che il centrosinistra si doti di un programma di opposizione e di governo che – non c’è dubbio – impari la lezione degli “errori e i cedimenti” dei governi di centrosinistra ( anche se va ricordato che le scelte di quei governi erano il risultato dei rapporti di forza determinatisi – i Comunisti Italiani hanno fatto la loro parte, basti pensare alle pensioni – e che se tutta la sinistra fosse stata al governo, e tutti i comunisti, le cose sarebbero state diverse). Con tutte le difficoltà, tuttavia, allora c’erano all’ordine del giorno le 35 ore, adesso c’è la cancellazione dello Statuto dei lavoratori. I comunisti non sono chiamati per legge divina a passare sempre all’opposizione. Essi possono e debbono, per avere una funzione ed un rapporto di massa, lavorare per un governo, quando esso è inteso come mezzo della trasformazione. E’ probabile che il grado di mobilitazione attuale contro il governo sia insufficiente. Vedo però importanti novità, prima fra tutte la ritrovata unità sindacale contro lo scardinamento della Previdenza pubblica, ed è passata l’illusione del Patto per l’Italia. Occorrono non spallate, non fughe in avanti ma percorsi che saldino nelle diverse autonomie le battaglie dei partiti comunisti, di sinistra e democratici, dei sindacati e dei nuovi movimenti. E’ necessaria una traduzione politica ed istituzionale del conflitto, altrimenti il Movimento non si riproduce, la lotta rischia di lasciare il posto alla frustrazione e al riflusso.

2. Non c’è dubbio che per consolidare una cultura democratica bisogna guardare ed analizzare quello che avviene nel mondo, dove la guerra preventiva è diventata un nuovo “diritto” internazionale. La fine dell’URSS – al di là del giudizio sui sistemi statali dei Paesi socialisti – ci consegna un mondo peggiore. E’ in atto una competizione intercapitalista senza quartiere che l’imperialismo degli Stati Uniti gioca e vince scavalcando la fase del dominio economico e con la guerra passa direttamente all’occupazione militare anche delle risorse di altre nazioni. Non crea più i governi fantoccio, li sostituisce con veri e propri protettorati sotto il suo diretto controllo. La guerra all’Iraq assume in questo senso le caratteristiche di guerra neocoloniale. Persino la NATO ( pur rimanendo “l’arma di riserva” dell’imperialismo USA e che attraverso la sua espansione ad est conferma il suo carattere dominante e di lancia puntata contro la Russia e la Cina) viene scavalcata, come si è visto per l’Afganistan e l’Iraq, dall’assoluta autonomia degli USA. E’ in quest’ottica che l’Europa deve dotarsi di una Costituzione democratica che metta al primo punto il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, deve rappresentare una entità sovranazionale non astratta ma politica e deve anche dotarsi di proprie Forze Armate di difesa e di eventuale interposizione. Forze Armate che non siano, certo, complementari a quelle della NATO, ma che siano una Forza che sbocchi da un Patto tra gli stati europei. La necessità che su tutti questi grandi temi, si costruiscano vaste alleanze politiche e sociali (dal centrosinistra, ai movimenti, al PRC) non solo è condivisibile, ma è necessaria, anche se riscontro ancora, per tali obiettivi, una grave inadeguatezza politica. I partiti più “grandi” della sinistra non sono stati in grado di organizzare le lotte sui temi posti dai movimenti, o li hanno evitati o hanno voluto “impadronirsene”. Il nostro Partito, il PdCI, ha avuto all’inizio un approccio troppo prudente e anzi diffidente. E’ stato un errore, ma anche un “bene” perché si è capita meglio la natura e la pluralità di un movimento variegato e grande ma che aveva e ha in parte una visione illusoria di “antipolitica e antipartitismo”, certo non rivoluzionaria. Quindi il problema non è se stare nel movimento ma è come starci. La politica, i progressisti, i comunisti devono sempre saper portare e tradurre anche nelle istituzioni il conflitto ed è per questo che diventa “obbligatorio” il tema del governo come mezzo del cambiamento, senza scorciatoie o illusioni. Dopo il 1989 le forze progressiste e comuniste sono state sconfitte e oggi sono in una situazione di difesa e non di espansione ed è anche per questo che non bisogna mai spezzare il filo con il resto delle forze democratiche, per una battaglia complessiva sui grandi temi della pace, del lavoro e dei diritti.

3. L’unità è la chiave di volta per battere le destre (non solo in Italia): si deve estendere e consolidare l’unità delle forze comuniste, di sinistra, democratiche, politiche e sociali perché sono in gioco gli architravi stessi della Repubblica: la pace, il lavoro, l’antifascismo, i diritti, la scuola, la sanità. Prima di ogni altra cosa deve venire la “disciplina democratica”: non bisogna ripetere l’errore politico compiuto da Bertinotti nel 1998, perché autonomia e unità hanno un senso di pratica politica solo se si esercitano allo stesso modo. Senza l’autonomia si scade nel conformismo e nell’opportunismo, senza l’unità si scade nel settarismo e ci si inibisce anche la possibilità di esercitare una competizione per l’egemonia nello schieramento democratico. Il binomio non deve separarsi mai : ciò non vuol dire togliersi l’arma della rottura, ma bisogna sempre saper prevedere gli esiti dell’ eventuale rottura : se portano ad equilibri più avanzati, come ci dicevano nel 1998, oppure al governo delle destre, come è poi avvenuto. Anche l’unità deve essere funzionale all’obiettivo, anche l’unità dei comunisti se serve a rafforzare la sinistra del centrosinistra va perseguita, se al contrario serve a rompere la “gabbia” del centrosinistra va contrastata. E’ in virtù di questa analisi che non condivido la lista unitaria dei “Riformisti” perché in realtà anziché unire rischia di dividere e non risolvere il problema della rappresentanza. Gli elettori, questa è l’esperienza, sono contrari alla semplificazione, l’unità è cosa diversa dall’unicità. Non è solo un fatto di simboli (importanti) ma di sostanza. La lista unica prelude al soggetto unico, ad una sintesi verso il centro, a programmi spostati al centro (si veda l’idea di Rutelli di rompere il contratto nazionale di lavoro ed innalzare l’età pensionabile), insieme al nome rischia di scomparire anche un po’ di sinistra. Dunque unità nella diversità, ma anche concretezza di programmi per l’opposizione e per il governo. Il passaggio elettorale amministrativo prossimo può segnare un passo avanti sia come contenuti sia come quadro politico. Se c’è la consapevolezza della pericolosità di questa destra si debbono trovare per forza le opportune mediazioni e rappresentanze in un rapporto di pari dignità. Guai a separare la piazza dalla politica.

SE LA “CULTURA DI GOVERNO” È SOLO L’ADATTAMENTO ALLO STATO DI COSE PRESENTI…
di Aldo Tortorella Presidente Nazione ARS

In questo tipo di dibattito dove diverse persone vengono chiamate a esprimersi sui medesimi quesiti si può cercare di evitare le ripetizioni. Ci proverò. Dichiarando subito il mio accordo con l’articolo di Chiarante (L’alternativa non passa per il partito riformista”) e con quello di Dino Greco (“C’è solo un’alternativa: quella antiliberista”). Va da sé che sono d’accordo anche con le affermazioni di altri autori: il pericolo rappresentato da una destra che è venuta smantellando la Costituzione, le responsabilità del centro-sinistra nell’aver spalancato la strada alle destre, la deriva centrista delle forze che sono state chiamate della sinistra moderata, e – dunque – la difficoltà obiettiva di proporre un programma comune che pure tutti ritengono necessario per battere Berlusconi e per durare al governo, ove si vincesse il confronto elettorale. Dunque, concentrerò questo intervento su un punto solo che a me pare essenziale per rispondere alle vostre domande: e cioè quale sia la condizione preliminare per la costruzione di un programma comune. Questa condizione preliminare riguarda il quesito – che, in definitiva, sta sotto tutte e tre le vostre domande – su quel che si debba intendere con la espressione “cultura di governo”. La sinistra moderata o le forze di centro-sinistra che sono maggioritarie in tutta Europa rispetto a quell’altra parte della sinistra che si conviene di chiamare “sinistra critica” o “alternativa” o “antagonista” e che non sono –come si sa – la stessa cosa, hanno inteso per “cultura di governo” quello che si è visto nel periodo in cui esse hanno diretto molti paesi europei. Tutti noi oggi sappiamo che questa cultura, generalmente, non è bastata per mantenere in piedi quei governi. In Spagna, in Francia, in Italia e altrove c’è stata la sconfitta. Ha superato con difficoltà la prova elettorale Shroeder che ha corretto con qualche affermazione elettorale di sinistra (no alla guerra in Iraq, sì alla solidarietà sociale), rapidamente smentita nell’opera concreta di questi ultimi anni tornata ad essere, peggio di prima, quella del “nuovo centro”. Superò la prova elettorale, sebbene in calo, Blair (e ancor oggi pare che mantenga un vantaggio, ma con una mutazione nella base di consenso) con una politica che si è spinta sino al più schietto servilismo verso la guerra preventiva dei neoconservatori americani e con una linea sociale che fu ed è ancora più centrista di quella di Shroeder. Dall’insieme di questa vicenda la sinistra moderata ha derivato in Italia la conclusione che se errori vi furono essi, come dissero, furono per la deficienza di “riformismo”, parola con cui si intende descrivere la capacità di adeguamento alla situazione determinata dalla vittoria del modello capitalistico nella guerra fredda e dal dominio conseguente degli Stati Uniti. In Italia, dunque, nonostante il fatto che gli imponenti movimenti di massa degli anni trascorsi (sui diritti del lavoro, sulla pace, sulla giustizia) abbiano indotto qualche mutamento d’accento su qualche punto specifico, l’asse della “cultura di governo” del centro-sinistra non è mutato. Anzi, il costituirsi di una lista unica (premessa del partito “riformista”) nonostante i dissensi espliciti su materie essenziali – come la fecondazione assistita o le pensioni – conferma e per certi aspetti aggrava l’orientamento neocentrista. Tutte le mosse vanno in questa direzione: sull’Iraq, sul caso Parmalat, sui temi della finanziarizzazione della economia, sulle questioni delle privatizzazioni e del lavoro, eccetera. Nella recente assemblea del listone si sono pronunciate parole autocritiche sul liberismo. Meglio tardi che mai si potrebbe dire se non fosse che la linea della coalizione è quella di prima. Ma uno come me che ha rifiutato questa politica sino a separarsi dai suoi autori deve chiedersi se questa linea venga adottata e mantenuta per insipienza, per spirito suicida o per qualcosa d’altro. Non credo all’insipienza, né alla volontà di farla finita con la propria vita politica. E considero grottesco imprecare al tradimento. C’è, in chi ha scelto questa linea, la convinzione che è pura ubbia tutto ciò che possa distrarre dall’unico criterio che si considera valido per aspirare al governo e governare: e cioè la ricerca attenta di una politica funzionale alla efficienza del modello economicosociale dato. Poiché si considera che vi sia una larga maggioranza la quale ritiene soddisfacente o discreto e comunque non mutabile l’assetto delle cose e poiché non esiste nella realtà (come poteva esserci, anche se non c’era, nel tempo dell’Unione sovietica) un modello alternativo – neppure pensato – l’orizzonte della politica istituzionalmente intesa della sinistra moderata coincide con le opinioni prevalenti in quella parte dei gruppi dirigenti della società che per tradizione o per calcolo rifiutano la linea dello scontro sociale. Come ha sottolineato un quotidiano non certo sospetto di sinistrismo (il Sole 24 ore, organo della Confindustria) l’ingresso nell’establishment ha portato ai D.S. “notevoli vantaggi” anche se sono stati “pagati a caro prezzo”. Non è da ora che si può e si deve constatare – non lo scrivo per menare scandalo – che quella che si chiamava una volta la “borghesia illuminata” costituisce ora il vero nucleo trainante della sinistra moderata o del centro-sinistra: e, anzi, essa è talora più aperta e spregiudicata di molti degli esecutori della sua politica. Come avviene in tutti i paesi di capitalismo sviluppato, a iniziare dagli Stati Uniti, la lotta politica per il governo tende, secondo questa linea, a restringersi tra opzioni diverse interne ad un medesimo progetto di società. La correzione, rispetto agli Stati Uniti, consiste in una sorta di nazionalismo europeo: l’Europa come nuova potenza mondiale, forse con una maggiore socialità (o compassionevolezza), corredata d’armi, seppur ancora munita di basi militari atomiche degli Stati Uniti. La costruzione dell’Europa dovrebbe essere la bussola, come lo furono gli Stati nazionali per quei paesi (Francia, Spagna, Inghilterra) che seppero capirlo quando era il momento. E se si chiede “quale Europa?” la risposta sarà: quella possibile nelle condizioni date. Questa “cultura di governo”, lungi dall’essere insipiente o suicida ha la sua base fornita dalla aderenza ai solidi interessi del ceto imprenditoriale e di tutta quella parte – certamente rilevantissima – degli strati di lavoratori autonomi e anche lavoratori dipendenti, che si sono venuti convincendo della validità assegnata al primato delle imprese, dal cui successo e sviluppo dipende – si sostiene – la quantità e la qualità del lavoro. Il fatto che la sinistra moderata o neocentrista sia forza di maggioranza assoluta in tutta Europa entro lo schieramento che gareggia con la destra è la prova della generalizzazione di questo modo di pensare. Il dramma incomincia non quando c’è chi pensa in tal modo, il che è inevitabile, ma quando coloro che pensano in tal modo ritengono che questa sia l’unica “sinistra possibile”. Allora la “sinistra “o perde oppure decade e scompare, come è avvenuto con Blair, anche se vince. Ma nella deriva centrista della sinistra moderata grande è la responsabilità delle forze che dichiarano di essere della sinistra alternativa. E’ assai difficile capire bene quale sia la “cultura di governo” di queste forze che pure si presentano alle elezioni e partecipano, di conseguenza, alla gara per il governo. Come tutti sappiamo, per una parte di queste forze il problema non si pone: alcune di esse rifiutano la partecipazione al voto, altre, pur partecipando, intendono la funzione di rappresentanza come “uso della tribuna parlamentare” piuttosto che come luogo di possibile esperienza per cercare di modificare la realtà. Non è certamente questa la posizione dei partiti di si- nistra italiani presenti in Parlamento (innanzitutto Rifondazione comunista e, ovviamente, PdCI e Verdi che furono partecipi di governi di coalizione). Ma anche in queste forze in cui una “cultura di governo” si afferma come necessaria, la difficoltà nasce dalla necessità di tenere insieme pensiero alternativo e pratica propositiva istituzionale. Non è vero, lo si lasci dire a chi ha percorso gran parte della sua storia, che il PCI avesse saldato questa dicotomia. In quella esperienza, come si sa, avveniva piuttosto che l’esser comunisti significando quasi la partecipazione a un mondo altro spiegasse e giustificasse qualsiasi politica, comprese quelle che avevano poco o nulla di “alternativo”. Se è così diffusa fra coloro che furono i quadri comunisti di una volta la tendenza ipermoderata ciò è perché essi avevano già esperimentato e vissuto quel cammino. Dunque, “una cultura di governo” per le forze della sinistra critica (indispensabile, ripeto, ove si partecipi alla gara per la direzione del governo e dell’Europa) deve ancora essere in larga misura costruita anche se, lo so benissimo, non si parte certamente da zero. Anche la riconquista dei lavoratori ad una speranza “di sinistra” non può essere affidata ad una certamente sacrosanta denuncia dei diritti vergognosamente calpestati e del blocco o, peggio, della diminuzione in valore reale di salari e stipendi. Certo un grande passo avanti è stato compiuto nella iniziativa del forum programmatico delle sinistre ove si è trovata una piena intesa sulle politiche del lavoro (a partire dalla abolizione delle leggi capestro come la 30). Ma il bisogno di una inversione rispetto alla linea di centro-destra sul lavoro e rispetto all’indirizzo neoliberistico deve oggi misurarsi al livello di una politica economica su scala planetaria e – più immediatamente – a livello europeo. Io non ho alcun dubbio sul fatto che non solo la ripulsa del turbo-capitalismo – come è stato chiamato l’andazzo neoliberistico – sia indispensabile, ma che una capacità critica del modello economico-sociale del capitalismo maturo faccia parte essenziale di una cultura della realtà. Non ho dubbio, cioè, che vada pienamente riaperta una lotta culturale e politica per la egemonia del pensiero critico, il quale – come è ovvio – non consiste nella ripetizione di un qualche salmo, ma in una capacità di comprensione del reale che si giovi di tutta la straordinaria elaborazione culturale delle scienze umane. Ed è già senz’altro prezioso il contributo di pensiero e di proposte che i molti studiosi che lavorano con passione entro il movimento no e new global sono venuti proponendo. Ma quanto più sono assennate e valide molte di queste proposte tanto più esse sono di ardua traduzione nella politica istituzionale europea e nazionale. Non parlo qui soltanto del visibile scontro (si pensi a Cancun) tra protezionismi agricoli e non agricoli europei o americani – che coinvolgono anche interessi di lavoratori – e le istanze legittime del resto del mondo, ma anche della difficile coerenza tra la esigenza di una redistribuzione della ricchezza a livello mondiale (se non si vuole esasperare una tragedia già spaventosa e dirompente) e quella della redistribuzione della ricchezza a livello dell’Europa e delle singole nazioni. Lo stesso movimento dei lavoratori lottando sul terreno delle nazioni, e premendo per la diminuzione dello sfruttamento e una meno iniqua remunerazione del lavoro ha sospinto certamente in avanti, nel corso del secolo passato, la idea della redistribuzione attraverso lo stato sociale e ha stimolato la ricerca scientifica e tecnologica tesa al “risparmio di lavoro” ma si trova oggi stretto tra tecnologia sostitutiva e lavoro sottopagato dei paesi non sviluppati. Si può pensare ad una cultura di governo delle forze di sinistra critiche o alternative senza una ripresa forte delle idee di programmazione economica non affidata unicamente alla manovra della moneta e della leva fiscale? Il bisogno di programmazione democratica torna, mi pare: ed è su questo, credo, che occorrerebbe forse concentrare una proposta dell’insieme della sinistra critica per andare ad una discussione con la parte moderata della coalizione. Certo, la premessa è l’intesa tra queste sinistre oggi largamente accomunate dal ripudio della guerra preventiva, da un bisogno di riscatto del lavoro, dalla comune richiesta di una più radicata democrazia. Paradossalmente questa sinistra ha più cose in comune dell’altra ma è molto più divisa: il che non è un buon segnale fornito dai gruppi dirigenti di movimento (gruppi che esistono anche se in modo informale) e di partito. Nel momento in cui le ricette neoliberistiche vengono mostrando le loro disastrose conseguenze, fino alla guerra preventiva, mi sembrerebbe necessario non solo tendere ad una unità delle forze della sinistra critica per affrontare con ragionevole autorità il confronto con la sinistra moderata, ma anche e soprattutto lo sforzo per la saldatura dei tratti di un pensiero condiviso sui temi del breve e del medio periodo: poiché le divisioni sono nutrite non solo dalla rivalità tra persone ma dalla assenza di una base culturale che rifugga da affermazioni verbali e da schemi che non reggono al vaglio della critica. La “cultura di governo” dei moderati da sola non ce la può fare – ove si vincesse la prova elettorale – come non ce l’ha fatta nella esperienza dei cinque anni del centro-sinistra. Ma, allora, per cercare di correggerla, ci deve essere una sfida seria non solo sul terreno delle singole politiche ma su una più attenta lettura della realtà e sul modo di corrispondervi, ove si voglia tenere fede alle parolone sui valori eterni che – nelle vigilie elettorali – fioriscono da tutte le tribune. La ripresa della tematica della programmazione democratica – come è stato proposto anche da autorevoli economisti – mi pare un terreno opportuno per non limitarsi ad una glossa sui propositi altrui.