Siamo di fronte ad una destra dai caratteri eversivi e lucidamente volta alla strategia dello “sfondamento sociale” e, insieme, all’estrema difficoltà delle forze di sinistra e del centro sinistra di costruire un progetto serio di alternativa.
Mano a mano che l’esperienza del governo Berlusconi va avanti e si avvicinano le elezioni del ’96 si fa sempre più chiara, almeno tra le aree comuniste e tra le aree più avanzate della sinistra, un’analisi: che solo una vittoria elettorale dai caratteri di vera svolta politica e sociale (pace, diritti dei lavoratori, stato sociale, primato degli interessi di massa) potrebbe impedire alle destre di costruire le basi materiali per un lungo dominio politico e per una vasta egemonia sociale.
Nonostante tale analisi si vada estendendo e nonostante il pericolo sia a tutti presente, il progetto per l’alternativa, per il cambiamento, non sembra prendere corpo e lo stesso conflitto sociale necessario non sembra affatto svilupparsi come la gravità della situazione sociale richiederebbe.
Vi è la necessità di aprire una discussione profonda, sincera, tra tutti i soggetti sociali e politici interessati all’alternativa e l’ernesto, da questo numero, con tre domande poste a vari interlocutori, vuole offrire il proprio spazio e il proprio contributo allo svilupparsi della ricerca e della discussione.
Fosco Giannini
Tre domande
1. Le destre al governo rappresentano sempre più palesemente un pericolo grave e inquietante. La costruzione dell’unità delle forze comuniste, di sinistra e democratiche per battere le destre e costruire l’alternativa è l’esigenza centrale. Ma per costruire l’unità non si può prescindere – è il nostro punto di vista – dall’analizzare gli errori, i cedimenti, le politiche concrete di queste stesse forze, sia nella loro esperienza di governo che in quella di opposizione al governo Berlusconi.
Rispetto a ciò, qual è il tuo giudizio?
2. Crediamo che per battere in breccia il pericolo reazionario e neofascista italiano occorra costruire un progetto di lunga lena che vada persino al di là della peraltro necessaria e decisiva vittoria elettorale alle prossime elezioni politiche nazionali. Crediamo che per scongiurare il pericolo di un radicamento di massa e di un’egemonia delle destre italiane occorra davvero costruire il cambiamento.
Su quali scelte politiche e sociali di fondo va costruito – a tuo avviso – tale cambiamento?
3. L’unità è l’obiettivo primario per battere le destre. Quali sono le condizioni, i presupposti sociali e politici, le tappe concrete che potrebbero offrirsi come basi materiali sia per l’avvio di un confronto serio che per la costruzione dell’unità tra le forze comuniste, di sinistra e democratiche?
Riempire di contenuti il progetto di alternativa
di Tom Benetollo
Presidente nazionale Arci
Non vorrei fare la figura del ragazzo indisciplinato, ma poiché le tre domande che mi fa l’ernesto mi paiono avere una forte continuità tra di loro, sceglierei di dare una risposta unica.
Sì, abbiamo di fronte una stagione difficile. Lo spirito del tempo è quanto mai di controversa definizione. Ma partirei con dentro la bisaccia una ferma volontà di considerare i prossimi mesi come l’occasione di una grande svolta.
I due anni passati dalla sconfitta elettorale hanno messo in moto una varietà di soggetti, conosciuti e inediti. In questa dinamica nessuno ha voluto –né ha potuto– rimanere simile a com’era. La lista dei protagonisti si è trasformata. Le identità hanno subito innovazioni—o regressioni. E’ del tutto logico che le formazioni politiche cerchino nuove risposte, e proposte. Ma se queste saranno nell’ambito della Realpolitik, sarà un male. Forse, il rinsecchimento della politica in Italia diventerebbe fisiologico.
Negli anni Novanta è sostanzialmente mancata la riforma della politica. In questo decennio, occorrerà credo una rivoluzione: per cambiare radicalmente la politica. In questo contesto la Realpolitik ostacola o fa regredire. Non solo manca di visione, il suo eccesso di realismo conduce all’irrealtà.
Va aggiunto che l’ enfasi (e la retorica) sui movimenti sta già stancando molto popolo della sinistra, e tanti giovani che si sono resi protagonisti di questa stagione straordinaria, drammatica e bellissima. C’è un vivo desiderio di dare concretezza e testimonianza ai valori e alle idee che si ha in testa. Va bene così. Perché questo passaggio fa avanzare il nucleo forte di ciò che ha creato il sommovimento di questi anni. Troveremo soggetti e argomenti per costruire alcuni pilastri essenziali per costruire lo spazio del cambiamento.
Basta guardare alle manifestazioni che si sono succedute: un messaggio di volontà di partecipazione che ha scavato nel profondo della società. Un lungo e divaricato percorso di cittadinanza è diventato visibile e ha costruito un fattore partecipativo irreversibile. Non ci suggerisce una Reductio Ad Unum. Ci impegna in un esercizio unitario ricco e versatile. Che può dare risultati enormi, a una condizione fondamentale: che venga consapevolmente condiviso l’orizzonte verso cui va questa trasformazione dello stato di cose presenti. E’ una nuova frontiera della cultura della responsabilità, applicata a un disegno sociale innovativo.
Innovazione, sì: la nostra lo è. Le spettacolari mutazioni poste in essere dalle dinamiche della globalizzazione hanno sottolineato un’estremizzazione conservatrice. Si vuole, perfino con fanatismo, non tanto valorizzare l’economia di mercato, ma questa—specifica, unilaterale—concezione dell’economia, della società, delle relazioni internazionali e umane.
Non voglio certo giocare con le parole, ma vivaddìo c’è una differenza sostanziale tra “liberali” e liberisti. Tanto è vero che la destra Usa mena sordo rancore verso Roosevelt, considerato, letteralmente, un comunista.
E la destra di ferro del Regno Unito ha sempre disprezzato Beveridge ( vero Liberal), che ha applicato il keynesismo gettando le basi della più bella, forse, stagione del welfare britannico. Allora, le condizioni per un rapporto nuovo, paritario, tra sinistra e Liberals credo di vederlo.
Alla sinistra spetta di avere identità e progetto, obbligando quei Libe-rals a scegliere una rottura con il liberismo. E’ troppo pensarlo? In altre epoche è avvenuto, e questo ha contribuito al compromesso sociale, e politico, su cui si è fondato il welfare degno di questo nome.
Parlo quindi di una differenza già rintracciabile in fasi recenti. Penso ai punti più aspri della rottura reaganiana rispetto al welfare degli Usa; penso al bushismo battuto da Clinton. Ricordo il clima della Convention democratica di New York, nel 1992: le idee, i progetti, i valori che vennero esemplificati dal discorso di Cuomo in quell’occasione non erano artificiali. Erano idee forza con le quali bisognava misurarsi con un progetto di sinistra. Misurarsi sulla lunghezza d’onda del cambiamento. E’ avanzato quello liberista, non il prodotto di un confronto alto, di qualità, di merito, tra liberals e sinistra. La sinistra moderata europea, per esempio, non era necessariamente destinata alla subalternità verso la “politica materiale” dell’amministrazione democratica Usa.
Partiamo da un bilancio onesto dell’opera che la sinistra nel suo insieme ha svolto negli anni Novanta. Ha salvaguardato i fondamentali del Welfare; ha perfino rovesciato qualche onda troppo pericolosa degli anni precedenti, sì. Tuttavia non ha costruito argini solidi, e quando l’onda di destra ha prevalso, questa ha trovato uno spazio in cui muoversi fin troppo agevolmente. Segno di una debolezza strutturale del progetto degli anni Novanta—sia della sinistra alternativa e radicale, sia a maggior ragione di quella che ha avuto responsabilità di governo. E’ in questo contesto che è avvenuta negli anni Novanta la rottura storica più profonda, in questa parte del mondo. La rottura incentrata sulla guerra nel Kosovo—uno spartiacque da non rimuovere.
Se nell’orizzonte liberista c’è la tremenda forza d’urto che vediamo, le ragioni vanno individuate anche in quella debolezza strutturale.
La marcia trionfale sull’ambiziosa Terza Via blairiana è diventata un penoso cammino nelle paludi. Ragione ulteriore di riflessione e di ricerca per vie nuove, per la sinistra europea. Questo chiama in causa tutta la politica del Pse, della stessa Internazionale socialista. Nel contempo, dà uno spazio nuovo a quella parte della sinistra che è più radicale, o alternativa. Anche per lungimiranti percorsi unitari, o di collaborazione, in funzione di giuste cause.
La sfida è durissima, ma può essere vinta. Ciò che ha fatto (che farà) la differenza è stata innanzitutto la partecipazione. Una partecipazione nata dalla coscienza e dall’esperienza dei fatti. Una partecipazione che ha costruito intrecci inediti.
Certo, i 110 milioni del 15 febbraio hanno rappresentato un punto altissimo. Ma suggerirei di guardare anche alla parte dell’iceberg che sta in profondità. La spinta al cambiamento è enorme. Non sto predicando la mobilitazione permanente. Non voglio affatto dire – guardando al nostro paese- – che in futuro, automaticamente, ci saranno tre milioni in piazza per i diritti del lavoro, altrettanti per la pace, un milione per la giustizia e così via. I sommovimenti della storia non hanno mai funzionato in questo modo. Dico solo che quelle persone che hanno scelto (in tanti casi hanno scoperto) l’impegno non rappresentano un fattore congiunturale. Hanno la consapevolezza del loro ruolo, individuale e collettivo. Hanno un forte senso di indipendenza e di libertà. Ma questo non toglie un’esigenza stringente, e dirompente: il radicale cambiamento del mondo dei partiti del centrosinistra e della sinistra.
Mi pare che solo una parte dei leaders di questo campo di forze voglia davvero un cambiamento. Sto parlando di contenuti, di vita democratica interna, di inclusione e partecipazione effettivamente promosse. Ma gran parte delle leadership sono chiuse in se stesse. E spingono fino all’inverosimile il pedale dell’autonomia del politico. Hanno costruito su questo non tanto le proprie fortune – sarebbe sciocco ridurre tutto a questo – ma proprio un’idea del mondo, delle relazioni sociali, della vita democratica, del modo di essere delle istituzioni. E’ insomma un’idea che nasce direttamente dalla crisi della democrazia, dal sostanziale adeguamento a questa crisi, mentre è urgente la ricerca di vie per rilanciare la democrazia.
Da sempre, invece, ciò che fa bruciare la fiaccola della democrazia (scusate la metafora rubata ai Romantici) è la partecipazione. Perfino nell’etimologia è così.
Se è almeno in parte vero questo, allora la parte che è presente in tutte le forze politiche vive del centrosinistra e della sinistra ha due mestieri da fare. Uno è il mestiere di lavorare a un rapporto di alleanze e di coalizione coerente, tra i partiti. L’altro è quello di impegnarsi nella costruzione di un campo di forze sociali e di movimento che – in una logica di autonomia – possano concorrere a una lotta civile e democratica contro la destra.
Ma questo non potrà avvenire senza un dibattito vero sui contenuti, sul progetto da presentare ai cittadini per vincere – non in qualsivoglia modo, ma con obiettivi chiari e dichiarati.
Una vicenda storica così tormentata, un tornante così impegnativo e rischioso della storia globale – e locale – richiede un progetto di grande respiro. Che vale per il nostro paese e per l’Europa. Che vale per quello che l’Italia può e deve fare nello scenario del mondo. Bisogna che questo progetto, questo disegno, risalti con forza.
In una nostra recente (maggio 2003) assemblea nazionale, abbiamo come Arci immaginato un orizzonte in cui pace, welfare, diritti fossero legati in modo indissolubile. Con un forte ancoraggio alla Carta dell’Onu, alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Rilan-ciando l‘idea dell’Onu dei popoli e dei cittadini per liberare il Palazzo di Vetro dalla tenaglia delle grandi potenze e delle pressioni dei potentati economici. Un orizzonte verso il quale si può andare, se vi è una immissione di cittadinanza attiva. E la stessa Unione Europea o si colloca come qualcosa di “altro”, mettendosi a disposizione del mondo con le sue politiche migliori, con i suoi valori più alti—oppure pagherà carissima la sua subalternità: oggi agli Usa, un domani ad altre superpotenze emergenti. Il Trattato per la Costituzione UE è lontana, contraddittoria, rispetto alla domanda che rimbomba dalla realtà. Ci dev’essere un’alterità che sappia essere coerente con i punti più alti delle conquiste dell’Europa. E sappia riconoscere e combattere anche i mostri abissali dell’identità europea: guerre di religione, conflitti di civiltà, nazionalismo, colonialismo, imperialismo, razzismo, antisemitismo, dittature bestiali hanno avuto qui tra noi radici, consenso, prospettiva.
Dall’Irak al Medio Oriente, e nei luoghi dimenticati come il Sahara occidentale, la domanda di Europa è enorme. Se guardiamo poi al grandioso processo legato alle vicende dell’immigrazione e dell’asilo, questa domanda trova drammatica conferma. E ne trova un’altra nella necessità impellentissima di nuove politiche di cooperazione internazionale.
In Italia c’è l’aggravante del berlusconismo: dalla scuola alle pensioni ai diritti del lavoro, la demolizione procede nell’arbitrio e nell’ingiustizia. Dalle vicende giudiziarie a quelle dell’informazione, nuovi ceti autocratici si stanno costituendo. Procede quella che negli Usa è stata chiamata Rivolta delle Elites. Gramsci ce lo diceva in modo più crudo: sovversivismo delle classi dirigenti. Dai tempi di Gramsci, un importante percorso di uscita dalla subalternità ci permette di batterci meglio.
Ripeto, bisogna costruire un nuovo campo di forze, con un nuovo progetto. In gran parte è stato scritto, ma occorre finalizzarlo e dare ad esso la politicità e il carattere sociale e la cultura… c’è insomma un deficit. Ma il laboratorio non sta in qualche torre d’avorio. Pensiamo a un progetto, a un programma partecipativo in cui tanti soggetti possano riconoscersi e conquistare nuovi spazi di cambiamento.
Occorrono anche nuove parole per dire cose nuove. Qualcuno dica cosa significa riformismo: quando Blair e Schroeder si dividono non su un dettaglio, ma sulla guerra dell’Irak, chi è riformista?
E a proposito di alternative di sinistra, ne ha proposte più Keynes, che era un liberal–o Breznev supposto comunista? So che su questa strada si possono anche dire scemenze, ma ogni tanto possiamo permetterci qualche provocazione fraterna?
Di fronte alla sfida tremenda, posta da enormi forze in campo, con enormi poteri, occorre avere forza d’animo e convinzione: per mutare i rapporti di forza.
Per approccio consolidato, mi viene da salutare con simpatia tutte le proposte che tendono a unire parti diverse dello schieramento di cui sono militante. Subito dopo, è essenziale—anzi: doveroso—capire con chiarezza di che cosa si tratta, quali contenuti quelle proposte assumono, quali orizzonti dischiudono.
Dei metri di misura ci sono. E’ importante non lasciarsi andare allo stato ondivago.
La priorità che vedo è il cambiamento. La chiamo anche trasformazione. Turati sosteneva che lo stesso riformismo era una via graduale per il socialismo… E per tornare a parlare del nostro Pci, quanti esami astrusamente ideologici ha dovuto sopportare quel grande soggetto, attorno a quello che poi è stato chiamato fattore K?
Diciamolo: oggi è un altroquando. Oggi l’urgenza è trovare culture ed esperienze unitarie da mettere a disposizione. Costruire impegno concreto per buone cause comuni. Con valori concretizzati in esperienze di solidarietà e di alternativa.
Nomina sunt consequentia rerum. Le cose che noi faremo, se le faremo insieme, se avranno la finalità che dichiariamo, faranno luce anche sui “nomi”. Oggi, mi pare, bisogna cercare ancora.
La battaglia contro le destre e l’enigma della sinistra
di Piero Bernocchi
Una risposta alle domande che l’ernesto pone, richiede come premessa che ci si intenda sul significato e il valore di un sostantivo intorno al quale ruota gran parte del dibattito sulla necessità/urgenza (ovviamente condivisibile) di abbattere il “berlusconismo”. Il sostantivo è “la sinistra”. Non c’è nefandezza commessa da tanti di coloro che si autodefiniscono “di sinistra” che buona parte del mondo politico italiano e internazionale non sia disposta a perdonare in nome della sconfitta delle destre. Eppure, se oggi chiedessimo agli interlocutori di questo o analoghi dibattiti di definire, che so, in dieci punti cosa caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) la “sinistra”, avremmo una babele di risposte più o meno incompatibili tra loro. Ciononostante, la premessa ad ogni discorso sul tema è: come unire la/le sinistra/e per battere Berlusconi, in Italia, e le destre in generale? Ove si dà per assodato, come fa “L’Ernesto” nella prima e terza domanda, che l’unità di tutto ciò che si autodefinisce sinistra sia possibile (e auspicabile), che un minimo comun denominatore della “sinistra” esista e che esso vada semplicemente individua-to/contrattato.
Il fatto in sé è piuttosto sconcertante, perché non c’è tema sul quale, almeno nell’ultimo quindicennio (diciamo dal tracollo del ”socialismo reale” in avanti), le differenze tradizionali tra destra e certa “sinistra” non si siano attenuate fino, spesso, a scomparire del tutto. E’ pur vero che la sinistra anticapitalistica sessantottina segnalò, fin da quello spartiacque storico cruciale, una già incombente attenuazione in tal senso e fin da allora mise in campo una radicale, e sana, diffidenza verso ogni “frontismo” privo di contenuti davvero alternativi all’esistente: ma è altrettanto vero che tale diffidenza è divenuta sentimento diffuso, e sostenuto da una messe interminabile di pezze di appoggio, solo a partire dal crollo definitivo di quella alternativa fittizia e apparente al capitalismo che è stata l’esperienza dell’Unione Sovietica e della stragrande maggioranza dei paesi a “socialismo reale”.
Da allora si è andata delineando a livello mondiale, con una rapidità sbalorditiva e con una particolare aggressività verso ogni “ortodossia” marxista, comunista e anticapitalista, una “sinistra liberista” che ha introiettato con la furia dei neofiti tutti i capisaldi del pensiero liberista, divenendone addirittura, con Blair capofila, l’alfiere più coerente ed impegnato. Solo per restare all’Italia, non c’è un punto del “pensiero unico” liberista che non sia stato fatto proprio da quello schieramento di “pentiti” del PCI che ha partorito prima il Pds e poi i DS, e che non si sia trasformato in concreto e distruttivo programma di governo durante i cinque anni di potere dell’Ulivo: dall’esaltazione della guerra (addirittura “umanitaria”) come arma di diffusione del liberismo e dell’egemonia politico-economica statunitense, alla disgregazione delle strutture e dei servizi pubblici (privatizzazione della scuola, della sanità e dei servizi pubblici, legge di parità scolastica); dalla precarizzazione globale del lavoro (pacchetto Treu e conseguenze) alla criminalizzazione dei migranti (centri di detenzione e barriere alle frontiere); dalla piena affermazione dei monopoli informativi privati (salvataggio e pieno rilancio delle televisioni berlusconiane) alla mortificazione totale della democrazia parlamentare e sindacale (completa identificazione con il maggioritario, schiacciamento delle minoranze parlamentari, politiche e sindacali, riduzione al lumicino dell’agibilità sindacale nei posti di lavoro e del diritto di sciopero).
Tutto ciò non ha a che fare, a mio avviso, con quelli che l’ernesto chiama “errori e cedimenti”: la scelta della sinistra liberista (o meglio della sua parte egemone/maggioritaria, con D’Alema come personaggio-simbolo e guida politico-ideologica, ma con accanto i Fassino e i Prodi, i Rutelli e i Veltroni) è una scelta drastica, irreversibile, a suo modo coerente, di “cambiamento di campo”; è la candidatura a gestire il capitalismo in questa fase, con la convinzione, tipica di quegli strati sociali che il capitalismo soddisfa e arricchisce ancora, che altro non ci sia da fare che “temperare le asperità” e gli “eccessi” del liberismo e che, in definitiva, non ci sia alcun “altro mondo possibile”.
E su questa strada la sinistra liberista italiana ha avuto il sostegno dei potentati economici e politici europei e mondiali, convinti della superiorità di tale tipo di gestione e di controllo sociale rispetto all’accozzaglia impresentabile di fascisti, razzisti, truffatori, ladri e padroni senza regole né controlli rappresentata dal “berlusconismo”: la sconfitta del centrosinistra e il ritorno al potere di Berlusconi non sono infatti imputabili a nessun “complotto” capitalistico, mondiale o italiano, ma solo alla gestione suicida, da parte delle forze dell’Ulivo, dei rapporti interni ed esterni al proprio fronte di alleanze e di partiti, e al tentativo demenziale di usare Berlusconi, visto come oramai un “cane morto”, per regolare i propri scontri interni per l’egemonia del fronte.
E’ evidente, dunque, che se nella dizione “sinistra liberista” conta assai di più l’aggettivo che il sostantivo, l’idea di un “fronte unito” tra sinistra anticapitalista e antiliberista (ma fosse anche solo tra una ipotetica sinistra socialdemocratica anni ’50 e ’60) e sinistra liberista, che trovi l’unità, politica ed elettorale, su alcuni punti essenziali di programma sociale, economico e politico, mi pare francamente improponibile, irrealistica, dannosa. Certo, se si ritiene che non di sinistra coerentemente liberista si tratti, bensì di una area politica e sociale recuperabile ad un discorso antiliberista, i criteri di valutazione cambiano. Se si pensa, ad esempio, che il movimento anti-liberista (no-global) abbia “trasformato” tale sinistra e la abbia riportata almeno vicino ad una linea classicamente socialdemocratica, allora si capisce come possano nascere speranze di alleanze programmatiche ad ampio spettro.
Ma su quali elementi concreti si basa tale pensiero? Sullo spostamento di Cgil, Arci e una parte minoritaria dei DS su posizioni “cofferatiane”, o più esplicitamente di “nuova socialdemocrazia”? Tali spostamenti e tali tentativi di “recupero a sinistra” effettivamente ci sono stati. Ma quale ne è stata la conclusione reale? Non si era ancora spenta l’eco delle gigantesche manifestazioni contro la guerra che la maggioranza dell’Ulivo (e la quasi totalità dei DS e della Margherita, cioè l’asse politico vero della sinistra liberista italiana) si alleava con il governo per mandare in guerra in Iraq i soldati italiani (che peraltro continuano a starci, come in Afghanistan). Il referendum per l’estensione dell’art.18, che costituiva un’arma potente per un ”ripensamento” e per l’inversione di rotta rispetto alla precarizzazione/flessibilizzazione totale del lavoro, non solo non veniva fatto proprio dal “nucleo duro” della sinistra liberista (i D’Alema, Fassino, Rutelli, Prodi, Veltroni) ma neanche da Cofferati: anzi era proprio tale “sinistra” a “dare la linea” alla destra, a farla uscire dal vicolo cieco in cui si era ficcata con la strategia perdente dell’andare a votare NO, e a guidare il fronte antireferendum con la ben altrimenti potente strategia della fuga dalle urne e dell’astensione. Era appena incappata in una clamorosa sconfitta la ministra Moratti non riuscendo a varare la controriforma della scuola che ben tre regioni a conduzione centrosinistra, con l’Emilia- Romagna in testa, arrivavano in soccorso con tre leggi che lanciano alla grande l’avviamento professionale svincolato dall’istruzione vera e propria, in una orrenda miscela di riforma Berlinguer-Moratti. Aveva appena Maroni pasticciato un tentativo confuso di taglio alle pensioni che ricevesse qualche consenso almeno dai sindacati concertativi e già D’Alema spiegava che ben altro occorreva, che le pensioni andavano tagliate sul serio, facendo passare tutti, rapidamente e per sempre, al sistema contributivo e alle pensioni integrative. E si potrebbe continuare.
In questi ultimi mesi il “nucleo duro” (e al momento assolutamente vincente/egemone) della sinistra liberista non solo non ha fatto alcuna inversione di rotta ma ha ribadito platealmente ciò che intende fare, in perfetta continuità con il precedente governo dell’Ulivo, sul piano del programma economico-sociale, se tornerà al potere: altro che autocritica e marcia indietro su privatizzazioni, salario, reddito, servizi ecc.. Rispetto a tale “nucleo duro”, mi sembra che le distanze dal movimento antiliberista, e anche da quel vasto fronte democratico che si è schierato sui referendum, siano addirittura aumentate negli ultimi tempi: o che perlomeno siano state ribadite con forza da tale “nucleo”, appena esso ha ritenuto, con la fine delle grandi mobilitazioni sulla guerra, di veder confermate le proprie idee sulla irrilevanza, nel medio periodo e sui programmi politici di gestione dell’esistente, del/dei movimento/i (ivi compreso, ovviamente, quello sindacale e quello dei “girotondi”, dopo la cancellazione delle anomalie cofferatiana e morettiana).
Certamente tutto ciò non diminuisce di un grammo il peso della pericolosità e della distruttività del “berlusconismo”, del suo programma sociale reazionario, della sua aggressione permanente non solo alla democrazia reale ma anche a quella formale, ai cardini della democrazia borghese, alle forme e alle regole più elementari di essa. Ma non ci si può chiudere gli occhi sul fatto che lavorare per sostituire il governo Berlusconi con uno che, seppur con un maggior rispetto delle forme democratiche borghesi, intenda riprendere ad imporre un programma sociale ed economico coerentemente liberista, garantendosi per di più una vasta passività di massa come accaduto durante il quinquennio dell’Ulivo (mentre i movimenti sono ripartiti con gran forza e originalità da Genova in poi, cioè dall’avvento al potere di Berlusconi) non può essere proposto né al movimento antiliberista né alla sinistra antagonista e anticapitalista nel suo insieme.
Quello che occorre davvero è invece allargare il fronte antiliberista, come avvenuto intorno al movimento no-global, intorno ai referendum e soprattutto intorno al rifiuto drastico della guerra in Iraq, saldando in tempi rapidi tale fronte intorno ad una piattaforma e a un programma sociale ed economico alternativo sia alla Carta europea (vero programma del liberismo europeo, assolutamente irrecuperabile e non emendabile) sia alla gestione liberista, di destra o “di sinistra” che sia. Parlo di un programma che, ad esempio, dica con assoluta chiarezza che non c’è possibilità in Europa di restituire ed allargare diritti sociali e beni pubblici senza uscire dai vincoli di Maastricht; che il lavoro deve tornare ad avere difese e garanzie, che deve essere un lavoro a tempo pieno e permanente: e che in assenza di capacità di creare lavoro da parte degli stati europei, essi devono comunque dare un reddito minimo vitale ai propri cittadini; che la scuola e la sanità, lungi dal divenire i grandi business del secolo, devono tornare ad essere di tutti e per tutti, elevare la propria qualità ed essere gratuiti; che i migranti devono avere pari diritti con tutti gli altri cittadini europei; che le pensioni devono essere di nuovo (e divenirlo per chi non le ha affatto) salario garantito e sufficiente dalla fine dell’attività lavorativa all’ultimo giorno di vita di ognuno; che la democrazia parlamentare, ma anche quella sindacale, deve basarsi sul principio “una testa, un voto” e “tanti voti tanti rappresentanti”, che il maggioritario deve sparire da ogni ambito istituzionale e sindacale, che il diritto di sciopero deve essere pieno e integrale, che nei luoghi di lavoro tutti devono avere accesso alla democrazia.
Un programma sociale siffatto (e io ho indicato solo alcuni punti, anche se, a mio avviso, essenziali) dovrebbe innanzitutto essere al centro della mobilitazione del movimento antiliberista contro la Carta costituzionale europea e contro il vertice europeo di Roma il 4 ottobre; poi, possibilmente, divenire punto di riferimento per tutto il movimento europeo al FSE europeo a Parigi; e infine, da lì, costituire la base per un “15 febbraio sociale”, che riproponga almeno a livello europeo (ma anche mondiale, se ci riuscissimo) una giornata in cui portare in piazza decine di milioni di persone, in contemporanea, per lanciare con forza tali richieste antiliberiste, così come avvenuto il 15 febbraio 2003 per dire tutti/e insieme NO alla guerra. E a quest’ultimo proposito, come premessa in calce al nostro programma, il ripudio della guerra, il ritiro delle truppe di occupazione dall’Iraq, Afghanistan e Palestina, il ritorno a casa dei soldati italiani sono “conditio sine qua non” per il dialogo politico con chiunque.
Solo una grande lotta di massa su questi temi, che può avere il sostegno e il consenso della maggioranza della popolazione italiana, è in grado, contemporaneamente, di battere Berlusconi e di mettere in grande difficoltà sociale (e in minoranza politica) la sinistra liberista: nessuna alchimia elettorale, fosse anche la più scaltra, può ottenere analogo risultato. Ma, si dirà, può essere utile che tutto ciò venga messo sotto il naso della sinistra liberista fin d’ora, cioè tre anni prima delle elezioni politiche (anche se sento dire in giro da presunti “ben informati” che tali elezioni avrebbero invece scadenze anticipate ben altrimenti ravvicinate)? Se si ritiene che ci sia davvero qualche probabilità (e io non lo credo affatto) che anche solo una parte significativa di un serio programma antiliberista venga accettata dall’Ulivo o almeno dalla maggioranza di esso, chi possiede tali speranze/convinzioni è ovviamente libero di esporre chiaramente tale programma: ma logica vorrebbe che lo si facesse a tempo debito e che sopratutto, prima di finire per “riaccreditare” (al di là delle intenzioni) presso il movimento e presso gli antiliberisti l’asse prodian-dalemiano, si attendesse di aver in mano almeno qualche concreto e sostanzioso SI sul tema.
Per Battere Berlusconi riprendere il progetto del ‘96
di Rosy Bindi
Esecutivo nazionale de La Margherita
1. L’analisi degli errori e delle lacune dei governi di centrosinistra è utile a patto che non si risolva in un “auto da fé” a senso unico, ma coinvolga l’intero schieramento che nel ‘96 vinse le elezioni e oggi si oppone al governo. Tutti devono sentire la responsabilità di una riflessione che non può essere destinata ad individuare i buoni e i cattivi, a sperare colpevole e innocenti – un esercizio sterile che non ci farebbe fare i necessari passi avanti – ma deve puntare a costruire un percorso unitario che vada ben oltre l’unità della sinistra, comunista e non.
Si tratta di assumere un atteggiamento laico di grande apertura e onestà intellettuale. Per quanto mi riguarda, è chiaro che il mio contributo a questa riflessione non può prescindere dalla mia appartenenza alla tradizione e al pensiero del cattolicesimo democratico, e dalla convinzione che senza l’apporto di questa cultura lo schieramento democratico che oggi si oppone a Berlusconi sarebbe più povero e politicamente meno innovativo.
Cos’è stato il successo dell’Ulivo nel ‘96 se non l’affermazione di un’alleanza nuova di forze riformiste e democratiche, dï¿ispirazione cattolica, socialista e ambientalista che avevano saputo delineare un progetto complessivo di rinascita del Paese? La stessa desistenza tra Ulivo e Rifondazione non fu solo una scelta strumentale finalizzata ad ottimizzare le regole del maggioritario. Anche senza mai sfociare in un accordo organico di governo si realizzò una convergenza politica significativa, culminata nella condivisione di un programma di risanamento dei conti pubblici e di riforme (la riforma della Pubblica amministrazione, della scuola e della sanità) destinato a portare l’Italia in Europa salvaguardando gli interessi di quello che tradizionalmente viene considerato l’elettorato di riferimento della sinistra più radicale.
Abbiamo allora sperimentato la possibilità concreta di un cammino comune, abbiamo sperimentato la fatica di una elaborazione programmatica unitaria.
Certo ci sono state lacune e contraddizioni ma nel complesso abbiamo rispettato gli impegni assunti con gli elettori. Le difficoltà principali non sono venute da un’azione di governo insufficiente o peggio incompetente o dannosa ma dal venir meno del progetto dell’Ulivo. Ci si è concentrati nel lavoro di governo abbandonando il terreno di un’iniziativa politica capace di parlare e coinvolgere la società. Non è stato coltivato l’Ulivo e alla fine, insieme all’Ulivo, si è congelata la prospettiva di un rinnovamento della politica italiana.
Si è tornati alla pratica dei veti incrociati, degli sgambetti politici, della competizione esasperata non solo tra le forze della maggioranza ma anche tra Ulivo e Rifondazione.Tutto ciò ha prodotto due errori opposti ma speculari che hanno condizionato in modo pesante l’ultima fase della legislatura: la paralisi del centrosinistra, ripiegato in se stesso e ossessionato dal problema della leadership e l’autosufficienza gelosamente coltivata dalla sinistra comunista.
Non si è fatto di tutto per trovare un accordo serio in vista delle elezioni del 2001 e non si è fatto abbastanza per recuperare lo spirito del ‘96 e gli elettori politicamente più esigenti si sono astenuti.
2. Per quanto mi riguarda non c’è altra via che riprendere il progetto del ‘96, facendo tesoro sia della lezione del passato che delle esperienze positive maturate in questi due anni di opposizione sociale e politica. E’ cresciuta la consapevolezza che occorre far emergere con più chiarezza il carattere alternativo delle nostre proposte. La prospettiva del cambiamento non può essere affidata alla gestione più o meno efficiente e corretta del presente; non possiamo insomma apparire come i buoni amministratori di un unico modello di sviluppo e di un unico modello di società, storicamente inevitabili. Da questo punto di vista il centrosinistra non ha avuto abbastanza coraggio nel difendere e consolidare le riforme che aveva messo in cantiere, finendo spesso per inseguire persino le parole d’ordine dei nostri avversari.
La nuova coalizione deve essere capace, invece, di rendere esplicito il carattere alternativo dei propri contenuti. Non credo sia impossibile se estendiamo su scala nazionale l’esperienza del voto amministrativo della primavera scorsa, se non ricadiamo nella tentazione dell’autosufficienza. E’ richiesto un di più di approfondimento e di ascolto delle reciproche ragioni ma non si parte da zero. Non ho mai pensato che ci sia contrapposizione tra la radicalità di alcuni valori e il realismo inevitabile della politica. Sono invece convinta che non si può essere riformatori sul serio senza un’intransigente fedeltà ai valori. La pace, il primato della persona e i suoi diritti, la libertà, la giustizia, la solidarietà sono i principi non negoziabili di un riformismo autentico, capace di incidere e modificare la realtà. Per questo considero l’universo dei movimenti una risorsa di cui non possiamo fare a meno.
Viviamo un’emergenza democratica. La destra che governa è una destra inedita ed estranea, che sta cambiando i connotati della nostra democrazia, sempre più declassata a democrazia della maggioranza. Berlusconi, mette in discussione le radici antifasciste della Repubblica, scredita il principio di legalità (le leggi ad personam, l’attacco all’autonomia della magistratura, il conflitto d’interesse) con il suo Governo scardina le garanzie sociali (il diritto al lavoro, la scuola, la sanità) e prepara una profonda svolta istituzionale di segno presidenzialista.
Il nostro impegno non può dunque limitarsi a contrastare questo o quel provvedimento, questa o quella legge. Occorre smascherare il modello istituzionale e sociale perseguito dalla destra e far emergere così una proposta complessiva di segno radicalmente opposto.
3. Anch’io penso che il nostro compito principale sia quello di mettere a punto una piattaforma politica e programmatica in cui possa riconoscersi tutta l’opposizione. A questo obiettivo dobbiamo dedicare più tempo e più energie, sapendo che la sconfitta di Berlusconi una delle conseguenze di questo lavoro.
Se è vero che il mondo sta cambiando, e l’esito del vertice di Cuncun è l’ultimo forte segnale in questa direzione, anche noi dobbiamo cominciare a definire la nostra agenda politica dalle priorità imposte dalla globalizzazione.
La pace, l’Europa e lo Stato sociale sono tre capitoli dai quali non possiamo prescindere e sui quali, peraltro, le distanze tra di noi si sono fatte in questi ultimi mesi sempre più corte.
La mobilitazione popolare contro la guerra in Iraq ha infatti mostrato una diffusa, direi popolare, consapevolezza del nesso inscindibile tra pace e giustizia, tra legalità internazionale e solidarietà. Lavorare per la pace, oggi, significa lavorare per imporre una correzione profonda al modello di sviluppo neoliberista; significa estendere non ridurre le conquiste sociali, le tutele e i diritti affermati nel modello europeo di solidarietà pubblica; significa contrastare la marginalità e l’esclusione sociale prodotte dalla privatizzazione selvaggia della scuola e della sanità, significa riformare e restituire credibilità democratica agli organismi internazionali; significa fare dell’Europa il motore di una nuova stagione di multilateralismo e di cooperazione mondiale.
Battere le destre con un programma chiaro e condiviso
di Vannino Chiti
Coordinatore segreteria nazionale Ds
1. Per battere la destra alle elezioni politiche occorre fare a livello nazionale quello che si è saputo realizzare nelle città e nelle Regioni, nelle quali si è votato nel 2002 e nel 2003. Avere un programma chiaro e condiviso; avere un candidato alla Presidenza del Consiglio – per noi è Romano Prodi – che in caso di vittoria sarà alla guida del Governo per una legislatura. I motivi della sconfitta del 2001 sono più di uno: ha pesato sulla legislatura e sulla azione dei governi dell’ulivo la rottura operata da Rifondazione Comunista nel ’98; le troppe divisioni esistenti tra le forze di centro-sinistra; l’incapacità a varare alcune leggi decisive per una democrazia moderna, quali quelle sul conflitto d’interesse e la riforma del sistema radio-televisivo; il venir meno – dopo il successo rappresentato dall’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea – di un perno che unificasse e aggiornasse un progetto riformista ed innovativo di governo. E tuttavia se nelle elezioni del 2001 Rifondazione comunista e l’Italia dei Valori si fossero alleate con l’Ulivo anziché presentarsi da sole, è molto probabile che l’esito – quanto meno al Senato – sarebbe stato diverso ed oggi non avremmo un Governo Berlusconi. Per cui non sono più possibili desistenze elettorali: occorre una larga alleanza politica su di un programma per l’Italia.
2. Nella destra italiana ci sono senza dubbio spinte illiberali, autoritarie; una “visione proprietaria” delle istituzioni, vocazioni plebiscitarie e populiste pericolose per la democrazia. Aggiungo che queste posizioni finiscono per ora per avere la meglio. Tuttavia la destra non è solo questo: altrimenti non coglieremmo le sue divisioni, difficoltà, che devono invece essere incalzate per disarticolarla e sconfiggerla. L’UDC non è la Lega Nord né Forza Italia.
il programma per l’Italia deve poi, secondo me, avere questi assi portanti:
a) il rapporto di integrazione con l’Europa e la costruzione della dimensione politica dell’Europa. E’ l’Unione Europea che può dare autonomia e pari dignità alla alleanza con gli USA; ed ancora che può fare assumere a quella che definiamo globalizzazione finalità diverse rispetto a quelle neo-liberiste fino ad ora egemoni, così da estendere diritti, libertà, democrazia, affermare la giustizia, combattere battaglie efficaci contro le vecchie e nuove povertà. Contribuire a realizzare la pace e ad abolire la guerra.
b) Una riforma dello sviluppo che abbia a criteri di riferimento una modernizzazione ecologica dell’economia e la sua equità sociale, la sua capacità di promuovere una società più giusta. Da qui la centralità della scuola, dell’istruzione, della formazione, della ricerca e della sua messa a disposizione per le attività produttive, a partire dal sistema di piccole e medie imprese. La necessità, insieme, di una visione del welfare non come esterno o a sé, rispetto allo sviluppo ma come una condizione decisiva per la sua qualità. Oltretutto senza una riforma del welfare – e non il suo abbattimento e privatizzazione come vuole la destra – non ci sarebbe la possibilità concreta di un ruolo delle donne nel mondo dei lavori. Le ragazze che studiano e si affermano con caparbietà non meritano di essere poste di fronte all’alternativa: professione o famiglia e figli. Ancora: una impostazione che si riferisca al Mezzogiorno non come ad un problema, ad un peso per l’Italia ma come ad una opportunità per il ruolo del nostro paese in Europa e nel Mediterraneo. E dunque politiche non di assistenza ma interventi di sostegno e scelta di obiettivi prioritari in grado di fare camminare il sud con le sue gambe.
In queste politiche vi è una funzione non esclusiva ma essenziale per il “pubblico”: per lo Stato centrale, le Regioni, le autonomie locali. Sono infatti indispensabili regole per il mercato; una presenza che garantisca il carattere di “destinazione universale” per la scuola, la sanità. E vi è un discorso rigoroso da fare per quanto riguarda le tasse: non solo deve essere ripristinata la progressività abolita dalla destra ma va detto che la riduzione del carico fiscale – auspicabile fin tanto che è possibile – non può essere posta in alternativa a politiche di welfare o interventi di solidarietà e coesione sociale. Se la riduzione delle tasse comportasse – per fare un esempio- l’abbattimento di scuola o sanità pubbliche noi dobbiamo dire che non procederemo. Prima vengono la giustizia, le pari opportunità, la coesione sociale. Sarà semplice invece rispondere sul programma dei cento giorni, se vinceremo le elezioni: ci impegneremo a cancellare tutte le leggi “vergogna” fatte dalla destra e le sue contro-riforme nella scuola e nella sanità. Anche qui un esempio concreto: per i DS l’obbligo scolastico deve essere portato a 18 anni.
3. Userei sempre l’espressione dare vita ad una forte alleanza di “centrosinistra”, cementata non solo dalla opposizione alla destra ma dal sostegno ad un Programma per l’Italia. Mi scuso ma la sincerità e chiarezza sono fondamentali per un confronto costruttivo e rispettoso. Dire: costruiamo l’unità delle forze comuniste, di sinistra, democratiche mi pare appartenere ad altre epoche storiche, oltretutto segnate da profonde sconfitte di quegli schieramenti.
Il nostro compito è quello di unire il centro-sinistra e di riorganizzarlo. E’ necessario vincere le elezioni ma al tempo stesso dovremo governare con efficacia, con un programma di riforme incisive un paese che la destra ci consegnerà in declino economico, con profonde divisioni, moralmente prostrato, insicuro del suo futuro.
Occorre che il centro-sinistra, per vivere e funzionare come alleanza politica ampia, abbia un suo forte perno, che ne assicuri tenuta e stabilità: un motore che non esaurisce in sé l’alleanza ma contribuisce a rendere chiara la direzione di marcia, più spedito il cammino.
E’ questo il senso politico della proposta di Prodi per liste unitarie dell’Ulivo già alle prossime elezioni europee: una proposta che la segreteria nazionale dei DS condivide, intende sostenere, vuole contribuire a realizzare.
Noi lavoriamo per una posizione comune dell’Ulivo, e possibilmente del centro-sinistra, sull’Europa, un manifesto alternativo alle posizioni delle destre, con cui affrontare le elezioni e che ci impegni poi unitariamente nel Parlamento europeo, con le forme organizzative che saranno possibili. Vogliamo costruire con chi sarà interessato e disponibile, senza pregiudiziali nei confronti di nessuno, la lista unitaria.
Al tempo stesso vogliamo realizzare un soggetto unitario, su basi federative, riformista e progressista: la lista per le europee non è un espediente od un cartello elettorale. Il soggetto progressista e riformista non sarà un partito unico: nessuno si scioglie, nessuno modifica unilateralmente le proprie collocazioni internazionali. Noi siamo e resteremo nel socialismo europeo. Né l’operazione riguarda soltanto le forze politiche: la sua natura federativa le consente di aprirsi all’apporto e alla partecipazione non episodica di associazioni della società civile. Come ho detto questa scelta non ridurrà il centro-sinistra ma gli consentirà di ampliarsi avendo però a sua base un forte perno unificante, essenziale per la coalizione. Né questa operazione è leggibile secondo un’ottica di spostamento moderato dell’Alleanza, a cui fare corrispondere un polo radicale di sinistra. Noi non siamo moderati ma socialisti e riformisti progressisti. Il soggetto federato avrà questa natura. Stringerà in un rapporto di contaminazione politica ancor più efficace culture socialiste, riformiste laiche, cattolico-democratiche, ecologiste. Sarà utile al centro-sinistra ed al futuro dell’Italia.
L’unità contro Berlusconi, i comunisti, i riformisti
di Severino Galante
Responsabile nazionale Organizzazione PdCI
Piuttosto che rispondere alle domande, preferisco trattare l’insieme dei temi che esse sollevano con un’esposizione organica fondata sul mio punto di vista.
Assumo come dato di partenza il giudizio di fondo formulato nelle domande, sul quale sostanzialmente concordo, e non da oggi: “La destra al governo rappresenta sempre più palesemente un pericolo grave e inquietante”. Questa convinzione, per me, ha origini lontane. Infatti, le centinaia di migliaia di persone che il 25 aprile del ‘94 marciarono a Milano sotto la pioggia per tutto il giorno erano già allora consapevoli del fatto che la vittoria delle destre alle elezioni politiche del 27 marzo precedente metteva concretamente a rischio la società e le istituzioni italiane quali erano state edificate grazie alla guerra di liberazione, all’abbattimento del fascismo, alla costruzione della Repubblica e alle lotte sociali e politiche democratiche di mezzo secolo per difendere e affermare i diritti scritti nella Costitu-zione.
La composizione di quell’immenso e combattivo corteo – diversificato e unitario – era anche un’indicazione precisa della strada obbligata da imboccare per fronteggiare un pericolo, appunto “grave e inquietante”, che era ormai diventato realtà di governo: tanto palese da tradursi subito, nell’autunno di quello stesso ’94, nella prima legge finanziaria di Berlusconi per cui in molti parlammo di “massacro sociale”. E tanto palesemente compresa da suscitare come risposta un forte movimento sindacale, anch’esso articolato e unitario, che seppe rintuzzare l’offensiva reazionaria, alimentando dinamiche politiche le quali, alla fine, determinarono la crisi del primo governo di centro destra.
Non intendo qui fare la storia degli anni ’90, ma dobbiamo intenderci: com’erano palesi fin dall’inizio i pericoli della destra al governo, così era evidente fin d’allora la necessità di assumere la risposta unitaria come primario, obbligato e irrinunciabile terreno di lotta per contrastarli efficacemente. Irrinunciabile contro i nemici non meno che verso gli alleati se questi si fossero dimostrati incapaci di condividere la lezione che viene dalla storia profonda del nostro Paese: un Paese dominato sempre (tranne che in qualche momento eccezionale) da uno spessore reazionario della società – spero che qualcuno, a sinistra, ricordi ancora la ripetuta lezione del vecchio Giorgio Amendola – per cui le sinistre, dall’Unità a oggi, sono state sempre lontane dalla maggioranza dei consensi elettorali, mentre le destre hanno saputo quasi sempre governare l’Italia, o influenzarne indirettamente il governo, poggiando su blocchi sociali e politici ampi, sempre inclusivi di consistenti settori popolari centristi.
I dati storici non vanno assunti fatalisticamente, come se fossero immodificabili. Tutt’altro. Ma non devono essere mai dimenticati o elusi: i reali rapporti di forza, in ogni campo, sono il necessario punto di partenza col quale si deve misurare qualsiasi politica di “cambiamento” che intenda conseguire risultati concreti.
Nell’autunno del 1998 la consapevolezza di tutto questo – l’ABC della storia e della cultura politica dei comunisti, in primo luogo di quelli italiani – è stata invece dilapidata dalla maggioranza del gruppo dirigente del PRC, con gli effetti disastrosi sul partito, sul governo e sul Paese che ne sono derivati, e sui quali bisognerà prima o poi tornare organicamente a riflettere. Ricordo alcune frasi del leader del PRC: “Siamo in questo mondo, ma non siamo di questo mondo”; e poi l’accusa miope a Armando Cossutta di agitare strumentalmente il “pericolo delle destre”; e, poco più tardi, il “questo [centro sinistra] o quello [centro destra] per me pari sono”. E potrei moltiplicare gli esempi fino a tempi recentissimi. A me sembra che la politica espressa da queste posizioni dimostri, proprio anche alla luce della realtà attuale, di essere stata palesemente fuori dal mondo. E dire questo non significa negare quanto di fondato c’era e c’è nelle critiche da fare ai governi di centro sinistra, ai loro limiti, ai loro autentici errori, come pure ai limiti e agli errori degli oppositori del secondo governo Berlusconi. Ci stanno tutte quelle critiche: dalla partecipazione alla sciagurata guerra del Kosovo (di cui il PdCI ha tentato di limitare i danni) alla sciagurata promozione del referendum estensivo dell’art. 18 (come sopra). Tutte. A tutti, nessuno escluso.
Perciò non è per spirito polemico con nessuno che ricordo il recente passato, ma per la profonda convinzione che la critica e l’autocritica equanimi siano presupposti irrinunciabili per costruire nuove relazioni unitarie tra tutte le forze democratiche, a cominciare da quelle comuniste: sugli oblii interessati e sui sotterfugi – che troppi invece continuano a praticare, fuori e dentro il centro sinistra – non si costruisce nulla di buono. Ma, certo, nelle relazioni politiche il futuro deve pesare più del passato e del presente. In tale prospettiva, dopo aver preliminarmente constatato che alla domanda di fondo di ogni comunista (evito il termine leninista, che potrebbe colpire qualche sensibilità): – qual è, oltre ogni folle parificazione del “questo o quello”, non il “nemico principale” ma il nemico puro e semplice? –, oggi finalmente la risposta pare ovvia a molti, se non a tutti (e si spera che tutti ne derivino comportamenti altrettanto ovvi, coerenti e stabili) c’è da porsi l’altra, parimenti decisiva, del “che fare?”.
La risposta sta appunto nel “costruire un progetto di lunga lena”, fondato sulla “unità tra le forze comuniste, di sinistra e democratiche” (immagino che con l’ultimo aggettivo si intendano le forze di “centro”, e che quindi si condivida la scelta strategica del centro sinistra: in caso contrario, si farebbe la scelta strategica dell’opposizione permanente di sinistra, con buona pace della “necessaria e decisiva vittoria elettorale alle prossime elezioni politiche nazionali”), contro il “nemico” costituito dal blocco sociale e politico che sorregge il governo Berlusconi, in vista della costruzione di un blocco alternativo a esso e di un governo di centro sinistra che ne sia espressione coerente.
Per fare questo è essenziale il giudizio che si formula sulla natura del sistema berlusconiano e sugli scopi di regime che esso persegue. Detto in sintesi, mi pare che ciò che caratterizza il berlusconismo come epifenomeno attuale di una storia di lunga durata delle destre italiane sia il fatto che la riorganizzazione del blocco di potere tradizionale, dopo la dissoluzione del sistema pentapartitico, è avvenuto attorno a un nucleo di interessi personali, di gruppo e politici, “oscuri”, che rimandano ai disegni eversivi della P2 di Licio Gelli (le analogie tra il suo Piano di rinascita nazionale e le direttrici di fondo berlusconiane sono impressionanti) oltre che all’uso, spregiudicato fino all’illegalità, della politica per fare soldi e dei soldi per fare politica che ha avuto nel sistema delle amicizie craxiane del Cavalier B. il principale incunabolo.
La fusione tra questa particolare interpretazione del capitalismo e della democrazia (mi si consenta l’uso politicamente blasfemo delle due parole) dopo aver conquistato il centro del sistema istituzionale tende a inquinare tutto l’universo politico e sociale circostante: il caso recentissimo del decreto governativo sulle regole del calcio ne è una dimostrazione esemplare, che può avere effetti istruttivi per il senso comune di milioni di sportivi-cittadini. Esso documenta infatti a livello di massa che la genesi “oscura” del potere economico del Cavalier B. si è irradiata ovunque, contaminando ogni cosa attraverso il potere politico acquisito successivamente, che viene utilizzato in primo luogo per mantenere il velo dell’impenetrabilità giudiziaria proprio su quella genesi e sui suoi successivi sviluppi, ma poi anche per allargare la sfera dei beneficiari della violazione delle norme (di qualsiasi norma) alimentando il sottobosco dei favoritismi e della corruzione diffusa: sicché la prospettiva di un’ulteriore, progressiva degenerazione è tutt’altro che ipotetica. Si tratta, viceversa, di un processo in atto che preannuncia come sbocco qualcosa che, a prima vista, può ricordare i nuovi Stati-mafia balcanici, ma che, a un’indagine meno superficiale, rinvia anch’essa ai caratteri più vecchi della storia delle classi dominanti italiane, e in particolare di quelle che espressero il sistema illiberal-illiberista, autoritario-protezionista, corrotto e corruttore di fine ‘800 (quello crispino e post-crispino, per intenderci: al quale può pienamente estendersi la successiva definizione salveminiana dei “ministri della malavita”) prima che la reazione congiunta dell’insieme delle forze democratiche di allora riuscisse a porvi freno, almeno provvisoriamente.
La gravità di questa tendenza inquinante del nucleo centrale del sistema è accentuata dal fatto che la sua totale estraneità ai valori (liberal democratici e, insieme, sociali) e alle regole costituzionali si viene sempre più saldando con le culture e le identità politiche di due satelliti a loro modo non meno eversive dei fondamenti della Costituzione repubblicana: il mai sopito secessionismo protezionista della Lega e la mai superata avversione di AN alla Repubblica antifascista; sicché oggi tre delle quattro forze al governo sono storicamente, culturalmente, politicamente estranee alla Costituzione, che intendono smantellare totalmente (dato l’indissolubile intreccio tra le sue distinte parti) sia con operazioni formali sia con una ben calcolata strategia delle “gaffes” che scardina di fatto, giorno dopo giorno, il sistema degli equilibri istituzionali e delle relazioni sociali definito dalla Carta.
Insomma, il berlusconismo evidenzia che la mancata soluzione della questione morale (si ricordi Enrico Berlinguer) ha posto nuovamente al centro di questa fase della nostra storia la questione democratica: i fondamenti costituzionali, la divisione liberale dei poteri, la natura liberal democratica delle istituzioni, la totale autonomia della magistratura, il principio di legalità, il rispetto delle regole, il primato del diritto sulla forza, il rischio incombente che per certi versi è già pratica corrente della tirannide della maggioranza…
Oggi bisogna ancora una volta difendere la democrazia repubblicana dall’eversione delle forze dominanti. Questa è la priorità. Anche per i comunisti. Non bisogna commettere altri errori di analisi: essi causerebbero ulteriori disastri. Siamo in una fase difensiva, tanto sul piano internazionale quanto su quello nazionale. E non esistono entità demiurgiche capaci di rovesciare rapidamente questo stato di fatto. Dei movimenti vanno colte le potenzialità sui terreni e sui tempi medio-lunghi che sono loro propri, ma neppure essi hanno virtù palingenetiche immediate e universali, come ben documentano la storia e la teoria politica, oltre che l’esperienza.
I comunisti devono tornare alla loro cultura e alla loro pratica politica, che non sono quelle degli slogan scarlatti autogratificatori ma quelle del cambiamento possibile in relazione ai rapporti di forza dati e alle alleanze che si possono (che si devono) costruire. In Italia è in corso un’autentica rivoluzione reazionaria che la sta rovesciando come un calzino in ogni ambito rilevante, facendola regredire verso un modello sociale e istituzionale di tipo tardo ottocentesco.
Essa esprime in politica un dato sociale e culturale profondo frutto oltre che di più antiche sedimentazioni, degli ultimi decenni di arretramento proprio della cultura politica del cambiamento possibile, contestata, oltre da quella iper realista che considera ormai impossibile il cambiamento, anche da quella che, attraverso percorsi non sempre lineari, ha assorbito slogan come il “siamo realisti, vogliamo l’impossibile!” e il “vogliamo tutto!”. Dentro a questa forbice di iper realismo e iper utopismo le destre italiane hanno già conquistato un radicamento di massa e la loro capacità egemonica si è già dispiegata su parti significative della società e del senso comune diffuso. Il nostro compito attuale e urgente è quello di resistere, di contrastarne l’ulteriore espansione, e ciò si può fare soltanto con proposte programmatiche e con pratiche convincenti, cioè con un processo di erosione e di spostamento di forze che sgorghi dalla capacità di agire duttilmente sulle contraddizioni che agitano, e che continueranno a agitare, il centro destra e le sue relazioni con la società, ma anche su quelle del nostro schieramento: cercando di affermare concretamente attraverso quelle pratiche e quelle proposte i nostri ideali, i nostri valori, i nostri obiettivi; di “cambiamento”, senza illuderci però che basti declamarli. Insomma, per vincere non basta urlare la propria identità e i propri obiettivi: per vincere bisogna convincere altri, nel maggior numero possibile, anche tra quelli che non la pensano come noi sul “cambiamento” e che la semplificazione degli slogan contribuirebbe a ricacciare altrove.
Ciò vale anche per l’obiettivo primario della difesa della democrazia contro l’offensiva berlusconiana. La difesa deve essere attiva. Abbiamo imparato per diretta esperienza quanto valido sia il principio togliattiano per cui la democrazia si difende sviluppandola, cioè dandole contenuti che soddisfino aspettative e bisogni diffusi. E per svilupparla bisogna saper mobilitare unitariamente grandi masse, fino a investire e coinvolgere la maggioranza degli italiani. I temi – fondamentali – delle modifiche alla Costituzione, della violazione di suoi articoli fondamentali (l’11 in primo luogo), della legalità, della giustizia, delle regole ecc. non sono però tali, da soli, da raggiungere questo obiettivo di partecipazione. Bisogna fonderli con altri, più direttamente connessi all’esperienza e agli interessi concreti quotidiani della gente comune che non si interessa di politica ma sa ben distinguere tra diritti e privilegi, tra regole valide per tutti e scelte arbitrarie, tra legge e sopraffazione quando sta in fila all’ULSS, quando cerca lavoro, quando constata aumenti smodati del costo della vita… o anche quando una squadra di calcio viene promossa in serie B per decreto governativo. Bisogna cioè saldare difesa della Costituzione e espansione dello Stato sociale, contro chi ne progetta la sostituzione con un ritorno alla “pubblica compassione” (T. Padoa-Schioppa) di ottocentesca memoria.
Nella costruzione graduale di questa saldatura i comunisti non possono non porre con forza la centralità ideale, politica, costituzionale del tema del lavoro in tutte le sua manifestazioni e articolazioni: funzione economica e sociale, diritti e tutele, formazione e qualificazione, pensioni e salari… Comunque la si veda e lo si affronti, su questo tema di “cambiamento” si gioca un formidabile conflitto di classe che è anche un fondamentale conflitto sulla Costituzione (l’obiettivo di smantellarne il l° art., che costituisce l’autentico architrave della Repubblica democratica, fonda la comune ispirazione autoritaria delle tre diverse forze di destra: la padronale, la secessionista e la postfascista) e sul futuro dell’Italia in Europa e nel mondo, nel quale le sinistre possono cominciare a costruire una maggiore unità tra loro e nelle relazioni col movimento sindacale, ma anche con settori importanti della cultura e del mondo liberal, oltre che con le aree di centro che non hanno abiurato il messaggio democratico e sociale del cattolicesimo. Prendiamo sul serio chi scrive che per combattere la crisi bisogna aumentare i salari, e che è controproducente tagliare la spesa sociale (a cominciare da quella pensionistica). Partendo da questi terreni di lotta la controffensiva contro le destre, nella società e nelle istituzioni, può conquistare realistici risultati: non escluso quello di una maggiore unità tra le forze di sinistra.
Un’unità che noi proponiamo di tipo confederale, perché riteniamo che questa sia l’unica forma in cui essa possa essere oggi realisticamente praticata. Di partiti unici (di sinistra, del centro sinistra, dei riformisti, democratico, e via immaginando) si può parlare in astratto, e talvolta può essere persino non dannoso farlo. Sul piano teorico, persuasi che i partiti siano la “nomenclatura delle classi”, comprendiamo bene che nel centro sinistra non sono certamente rappresentate otto classi fondamentali! Siamo dunque convinti della necessità di lavorare a processi di riunificazione per rappresentare anche sul piano politico e organizzativo l’unità del mondo del lavoro che vogliamo contribuire a promuovere sul piano sociale: senza forzature né scorciatoie. Suppongo che tendenze analoghe operino anche in altre componenti politiche e sociali. Probabilmente il progetto del partito unico riformista appartiene a queste tendenze, ed è quindi ovvio che i comunisti guardino con prudente attenzione a quanto matura tra alcuni alleati, anche per il mutamento di equilibri che ciò può produrre nel centro sinistra. Ma sono appunto dinamiche le quali non coinvolgono direttamente un soggetto come il nostro, che intende restare autonomo sotto tutti i profili: culturale, politico, organizzativo. Tanto più che non vogliamo contribuire a aumentare la confusione prodotta dall’abuso dell’aggettivo “riformista”, oggi privo di qualsiasi significato discriminante sia tra destra e sinistra, sia all’interno della sinistra. Forse gli interessati dovrebbero impegnarsi a qualificarlo meglio. In ogni caso, a noi non interessa rispolverare l’antica contrapposizione tra “rivoluzionari” e “riformisti”. C’è chi dice che sia superata, e certamente lo è rispetto a ciò che è storicamente stata. Ma bisogna pur sempre intendersi sui concetti, oltre che sulle parole. Per noi, compito fondamentale della politica è intervenire nelle contraddizioni che scuotono l’attuale società italiana, e il mondo intero, puntando a superarle nell’interesse prioritario irrinunciabile dei lavoratori, dei deboli, della pace, dell’ambiente… Se applichiamo queste unità di misura ai contenuti dei conflitti, dobbiamo constatare che esistono differenze, e talvolta molto profonde, tra noi e i “riformisti”: non rappresentiamo gli stessi interessi né le stesse priorità. Ma siamo pronti a cercare convergenze, compromessi, mediazioni, accordi tra ciò che vogliamo rappresentare noi e ciò che esprimono i “riformisti”. Tra alleati, all’interno di alcuni valori fondamentali condivisi, di fronte a un nemico comune, ciò è possibile e necessario.
Il nostro fine, quello verso il quale cerchiamo di orientare ogni soluzione immediata, quello che qualifica la nostra identità e guida il nostro agire, resta però l’abolizione dello stato di cose presente. Per questo, essendo comunisti, non possiamo stare nel partito dei riformisti, se mai si dovesse fare.
L’esigenza dell’alternativa e il pericolo di una vittoria effimera
di Claudio Grassi
1. A me pare quanto mai evidente che l’attualità politica ponga con urgenza a tutte le forze della sinistra – dunque anche a noi comunisti – due obiettivi ineludibili: da un lato, la cacciata del governo delle destre e, d’altro lato, la concretizzazione di un programma alternativo che cambi radicalmente rotta, sappia tenere nel tempo e offra quelle risposte che una parte sempre più grande del paese attende. In realtà si tratta di due questioni indissolubilmente intrecciate, nel senso che, in assenza di un sostanziale conseguimento del secondo obiettivo, il primo risulterebbe depotenziato e politicamente precario. E tuttavia non è affatto detto che l’uno comporti automaticamente l’altro: potremmo ad esempio trovarci ad aver sconfitto elettoralmente Berlusconi sull’onda di un crescente malcontento popolare (ma guai a pensare che tale esito sia scontato), senza tuttavia aver acquisito e condiviso risorse politico-programmatiche tali da qualificare l’azione di un governo “delle forze comuniste, di sinistra e democratiche” degno di questo nome. Siamo chiamati dunque a lavorare per costruire le condizioni di un’alleanza che assicuri la sconfitta elettorale di Berlusconi e la vittoria dello schieramento di sinistra e, nel contempo, per evitare che tale vittoria sia politicamente labile ed effimera. Dunque non solo un’unità contro, ma un’unità per. Un’opinione sempre più diffusa ci chiede di cacciare il governo in carica (chi non percepisce come assolutamente primaria tale esigenza è letteralmente fuori dal mondo); ma a tale richiesta si risponderà davvero e durevolmente, se saranno promosse politiche strutturalmente alternative a quelle che hanno condotto al disastro attuale, che non restino prigioniere delle compatibilità neoliberiste, che riguadagnino la fiducia della nostra gente rilanciando contenuti capaci di incontrare risolutamente i bisogni dei ceti popolari.
Essendo chiaro il punto di arrivo, sarà bene essere altrettanto chiari sul punto di partenza: io vedo che, ad oggi, nonostante le buone intenzioni e qualche segnale positivo, la strada è decisamente in salita. Un patto di coalizione deve certamente comportare un percorso di mediazione e noi ci siamo detti pronti ad interloquire. Ma è evidente che la mèta non può essere la replica delle politiche condotte dal centrosinistra dagli anni ’90 sino ad ora: ricordo che con il governo Prodi l’Italia ha conseguito un non invidiabile primato nei processi di privatizzazione (seconda solo alla thatcheriana Inghilterra), ha inaugurato la deregolamentazione del mercato del lavoro (‘pacchetto Treu’), ha messo mano alla cosiddetta ‘riforma strutturale’ del sistema pensionistico, ha partecipato alla ‘guerra umanitaria’ Usa. Se su queste politiche non vi fosse un ripensamento critico da parte dei nostri interlocutori, se si perseverasse negli errori che hanno contribuito ad aprire la strada all’ideologia neoliberista, sarebbe per tutti noi un disastro totale. Non credo che i lavoratori italiani sarebbero poi disposti a darci un’ulteriore chance: la reazione successiva sarebbe davvero incontenibile.
2. Le obiettive difficoltà cui ho sopra accennato stridono drammaticamente con le urgenze dell’attuale situazione, che appare già molto grave sia sotto il profilo politico-istituzionale che sul piano sociale. Stiamo assistendo ad un’azione sistematica e devastante per opera di una compagine governativa la quale, dietro le pagliacciate del suo leader, coltiva un disegno organico di regressione reazionaria. Siamo ben lontani dal “normale” operare di una “normale” coalizione conservatrice, nel quadro di una vagheggiata “normale” alternanza: il “sovversivismo delle classi dirigenti” del nostro paese – di gramsciana memoria – è tutt’ora ben vivo. Certamente, le ricorrenti sortite di Berlusconi (da ultimo, le gravissime battute sulla supposta bonomia di Mussolini e del regime fascista) servono anche a distogliere l’attenzione dal netto peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori, da tutto quello che è stato a suo tempo promesso e poi clamorosamente disatteso. Ma esse hanno soprattutto lo scopo di alimentare un clima di sfascio delle istituzioni nate dalla Resistenza, mirano a modificare il senso comune democratico; e contribuiscono a creare il contesto regressivo entro cui, a colpi di maggioranza, si procede nello smantellamento della costituzione materiale e formale del paese, sostituendo quale suo principio guida ai diritti del lavoro e alla solidarietà, la logica e l’utile di impresa. Iperliberismo berlusconiano, revisionismo storico e centralismo autoritario di An, separatismo competitivo leghista hanno sin qui funzionato come componenti di un’unica pericolosissima miscela. Così, mentre il governo lavorava sodo per promuovere leggi che assicurassero l’immunità al suo leader – già inquisito dalla magistratura – e garantissero a lui e al suo blocco sociale di riferimento la protezione e l’incremento di profitti e rendite (emblematico di una chiara e sfrontata politica di classe il varo della normativa che depenalizza il falso in bilancio), il paese è precipitato in una crisi drammatica. Siamo infatti in piena fase recessiva, con un mix micidiale di prezzi in costante ascesa e di salari e pensioni in caduta libera. A tutto ciò il governo risponde affibbiando il colpo di grazia al sistema previdenziale pubblico e percorrendo sino in fondo, con la famigerata Legge 30, la strada della precarizzazione totale del lavoro: colpi devastanti per tutti, ma soprattutto per la speranza di futuro delle giovani generazioni. Per non parlare della condizione priva di tutele e diritti degli immigrati, supersfruttati come lavoratori e ignorati come cittadini, vessati dal taglio repressivo e razzista di una legge incivile.
Questo governo deve andarsene. Spetta a noi, alle sinistre, prospettare ai lavoratori, ai giovani in cerca di un’occupazione stabile, alle donne di questo paese una via radicalmente diversa. Una tale radicale inversione di tendenza va costruita soprattutto su alcuni essenziali punti di merito, già iscritti nella parte migliore della nostra progressiva tradizione. Posso qui indicarne i titoli: 1) Una politica di pace, ispirata ad un intransigente rispetto dell’art.11 della nostra Costituzione; 2) una politica redistributiva, che consenta a chi lavora e a chi non lavora più di recuperare una dignitosa qualità della vita; 3) una politica di sviluppo, socialmente e ambientalmente qualificato, che dia lavoro e certezze ai giovani (abrogando l’iniqua Legge 30), che inverta la tendenza al degrado delle risorse del paese e allo smantellamento dei suoi settori strategici, che riconsegni al pubblico la funzione di promozione e riequilibrio che ad esso spetta; 4) una politica istituzionale solidale e di tenuta democratica, che si contrapponga alla frammentazione competitiva (sociale e territoriale) del paese, difenda i capisaldi del nostro dettato costituzionale (abrogando tra l’altro le leggi ad personam sulla giustizia emanate dalle destre), prenda atto del sostanziale fallimento del maggioritario.
3. Come ho detto, il compito che ci attende è tutt’altro che facile e il suo esito tutt’altro che acquisito. Ritengo che il nostro partito debba essere sin d’ora attraversato, a tutti i suoi livelli, da una discussione vera: una riflessione che dia a tutti i compagni e le compagne gli elementi per valutare adeguatamente la delicatezza della fase e l’entità della posta in gioco. Vanno altresì attivate le forze a noi più vicine – forze politiche, associazioni, movimenti – quelle con cui abbiamo condotto la contesa referendaria, che hanno dato un impulso straordinario alle mobilitazioni contro la guerra e alla battaglia per l’estensione dell’art.18. Con loro dobbiamo consolidare quel comune denominatore che su questioni dirimenti ci ha visto uniti. Contestualmente va proseguito il confronto con le forze del centrosinistra. Sia chiaro: l’interlocuzione non può avvenire nelle segrete stanze delle segreterie dei partiti. Deve viceversa prodursi un unico e aperto confronto, all’insegna del simultaneo coinvolgimento di tutti i protagonisti che in questi mesi hanno concretizzato nelle piazze e nelle istituzioni – e continueranno ancora a concretizzare – l’opposizione alle destre. Non so dire ora quale possa esserne l’esito. Questo dipenderà dal grado di consenso che si riuscirà a convogliare sui punti di merito essenziali. Non posso neanche escludere che, in assenza di tale minimo requisito, il Prc possa vedersi costretto ad un contributo meramente ‘tecnico’ alla cacciata del governo Berlusconi. E’ chiaro, tuttavia, che noi lavoriamo e lavoreremo perché si giunga ad un accordo politico complessivo, che dia slancio alla coalizione contro le destre e sia immediatamente comprensibile a tutti. E’ questo che la nostra gente ci chiede.
Gli errori del centrosinistra e l’esigenza di un programma per l’alternativa
di Alfonso Pecoraro Scanio
Presidente Verdi
1. Voi sapete come la penso io a questo proposito: la destra italiana al governo rappresenta per molti aspetti un elemento eversivo, perché non ha solo un obiettivo di tipo economico e politico, comune ai conservatori europei, ma ha anche quello di smantellare le garanzie della Costituzione e alterare l’equilibrio dei poteri. È una situazione del tutto anomala, e se a questo si aggiunge l’impressionante concentrazione di potere mediatico ed economico che fa capo a una sola persona, il quadro si fa preoccupante.
In tutto questo è innegabile come da parte di alcuni settori delle forze di centro-sinistra ci sia stata la tentazione di sperimentare la via del dialogo o l’approccio bipartisan. È stato un errore di cattiva valutazione che oggi tutti, o quasi, ammettono. Ma non è questa l’unica falla che si è aperta nell’immagine e nel patrimonio ideale del centro-sinistra. Si è peccato di leggerezza, per esempio, pensando di poter contrastare la destra inseguendola sul terreno delle privatizzazioni ad ogni costo o sulla strada delle modifiche costituzionali azzardate. Una sorta di ubriacatura liberista che ha solo rischiato di recidere il filo di idealità e valori che unisce le forze di centro-sinistra. Sarebbe ora di riflettere su che cosa ha significato per il nostro paese mettere in cantiere le privatizzazioni di reti idriche, energia e trasporti pubblici. Senza aver paura di ingranare la marcia indietro. Sarebbe ora di ammettere che l’aver messo mano a certe modifiche costituzionali – dallo spoil system, al presidenzialismo spinto applicato alle regioni – è stato un errore di sottovalutazione, dettato anche dalla presunzione di riuscire a controllare i processi degenerativi che certe riforme inevitabilmente si sarebbero portate appresso.
Potremmo proseguire. Quello che voglio dire è che occorre assolutamente individuare e dibattere una visione di politiche economiche, sociali e ambientali alternativa a quella delle destre. Iniziando a lavorare concretamente, da subito.
2. Quando parlo di scelte economico-sociali che contrastino il capitalismo spinto a cui sono improntate le politiche del governo, quando sostengo la centralità delle tematiche ambientali e sociali, indico una linea di cambiamento che i Verdi hanno individuato da anni e che chiedono divenga tema di dibattito e di confronto tra le forze di centro-sinistra. Iniziamo a domandarci se quello delle destre – non solo italiane, a dire il vero – sia un modello di sviluppo sostenibile per il pianeta, iniziamo a riflettere sui disastri umani e ambientali delle politiche iperliberiste applicate in modo ideologico e senza tener conto delle realtà concrete.
Noi Verdi siamo abituati a mettere le nostre convinzioni sul tavolo del dibattito, in modo laico, concreto e aperto. Quello delle proposte e dei programmi è un percorso da intraprendere senza esitazioni. Sono convinto che “il cambiamento”, come lo chiamate voi, vada costruito da un lato sulla difesa delle istituzioni democratiche, che oggi paiono in pericolo, dall’altro su una forte integrazione delle realtà politiche, sociali e di movimento.
3. Lo ribadisco: la prima cosa da fare è lavorare su un programma. A questo proposito non esistono formule magiche o scorciatoie praticabili. L’esperimento della formazione dei tre gruppi di lavoro che raccolgono tutte le forze di opposizione, da Rifondazione all’Italia dei valori, passando per i partiti dell’Ulivo, sta dando buoni frutti ed è secondo me un modello da seguire. Tanto più che a quei tavoli partecipano i sindacati, le associazioni ambientaliste e dei consumatori, i movimenti civici…
Una sorta di work in progress, che se accompagnato dalla supervisione di un gruppo di garanti potrebbe portarci a un programma condiviso dalle varie forze politiche e in sintonia con le richieste della società civile.
Sinceramente penso sia questa la strada da seguire per un’alleanza allargata e alternativa. Altrimenti rischiamo di perderci dietro ad architetture politologiche che ormai non appassionano più neppure gli addetti ai lavori.
In questo senso la proposta di una lista dei riformisti per le Europee non può che essere una tappa verso il partito riformista unificato. Per intendersi, i Verdi saranno i naturali alleati (se d’accordo sul programma) di un raggruppamento di quel genere, ma non ne faranno parte. Noi non apparteniamo a quella famiglia politica, e personalmente credo che a una lista unica che punta a strappare qualche voto a Forza Italia vadano aggiunti più partiti organizzati in grado di battere Berlusconi e la sua maggioranza già alle Europee. Insomma, il problema per noi non è mettere in piedi un partito che superi Forza Italia, ma un’alleanza politica per battere le destre. Tanto più che sarebbe una forzatura immaginare una soluzione squisitamente italiana per rispondere ad un appuntamento elettorale europeo. I due livelli, quello nazionale e quello continentale, non sono più separabili e sarebbe un errore immaginare di utilizzare il rinnovo dell’Europarlamento per risolvere questioni squisitamente interne alla sinistra italiana.
Non c’è che una strada per arrivare a costruire la coalizione capace di battere Berlusconi e le sue politiche neoconservatrici: iniziare dal programma, fissare le regole di convivenza, cementare l’alleanza su tematiche sociali, ambientali ed economiche. Ecco, sarebbe importante per esempio se Prodi – e le forze di centro-sinistra assieme a lui – iniziasse a muoversi da qui.
Una sinistra poliica e sociale per una prospettiva di alternativa
di Cesare Salvi
Il tema che pone con le sue tre domande “L’Ernesto” è decisivo. Diffusa è infatti la consapevolezza a sinistra che occorre l’unità di tutte le forze che oggi sono all’opposizione per sconfiggere una destra pericolosa, sul piano della democrazia come su quello dei diritti sociali e del lavoro. È altrettanto evidente, però, che permane nel gruppo dirigente dell’Ulivo un orientamento moderato che rende difficile delineare davanti al Paese un’alternativa alle destre sul piano economico e sociale, e che forte è la distanza nei contenuti programmatici su tali temi con le posizioni di sinistra nell’arco di forze dell’attuale opposizione.
Per affrontare questo dilemma occorre, credo, distinguere nettamente due piani: il ruolo, le funzioni, le idee, la visione strategica della sinistra, da un lato; il possibile terreno comune, sul piano politico e programmatico, con le altre opposizioni, che consenta di condurre oggi una battaglia unitaria nelle istituzioni e nel Paese e prefigurare domani un’alternativa di governo, dall’altro. Su tutti e due questi aspetti siamo molto indietro. La spinta unitaria che viene dal popolo di sinistra non può non far vedere a gruppi politici dirigenti responsabili che le differenze di piattaforma nel campo del centrosinistra restano rilevantissime, e che al tempo stesso punti di vista di sinistra, che pure si sono consolidati in questi due anni (dalla pace alla globalizzazione, al referendum sul lavoro), sono oggi dispersi in luoghi politici e movimenti, e che questa dispersione rischia di ridurre il peso di un punto di vista di sinistra critica di fronte ai compiti richiamati dalle vostre domande.
La proposta di unificazione politica (in formule solo apparentemente diverse, come quella della lista unica o del partito unico o del soggetto federativo) delle forze moderate del centrosinistra rischia di far arrestare, e non avanzare, le necessarie forme di aggregazione. Anzitutto, infatti, essa non risolve affatto il tema dell’unità di azione di tutte le opposizioni. Del resto i promotori dell’iniziativa lo teorizzano apertamente quando ipotizzano un risultato elettorale intorno al 30-40 per cento. Al di là del dubbio circa l’effettiva possibilità per il cosiddetto partito riformista di raggiungere questo obiettivo, rimane che esso per definizione esclude le componenti più a sinistra della coalizione, alle quali infatti poi si ammette di doversi rivolgere per ottenere il consenso elettorale necessario a colmare la differenza.
Ciò che deve far riflettere è che questa ipotesi contiene in sé l’idea di una marginalità delle forze della sinistra critica, considerate (si collochino dentro o fuori i partiti dell’Ulivo) come portatrici di consenso, necessitato dal pericolo Berlusconi, ma tali da dover pesare il meno possibile sia oggi nella battaglia di opposizione, sia domani in un’azione di governo, che si assume pertanto essere tale da ricalcare le linee di fondo dell’esperienza dei governi di centrosinistra.
Per questo sarebbe un errore a sinistra pensare che tutto ciò lasci automaticamente, quasi per inerzia, ampi terreni di consenso per chi non si riconosce nel nuovo partito riformista. È necessaria invece, a mio avviso, una forte iniziativa politica per entrambe le sfide che ho provato a delineare: la costruzione di una sinistra critica moderna e innovativa, che sappia offrire un’autonoma dimensione strategica ai problemi posti dalla globalizzazione neoliberista; la definizione dei punti di unità di tutto il centrosinistra per sconfiggere Berlusconi e per garantire poi un’esperienza di governo più avanzata.
Provo a svolgere due considerazioni su entrambi gli aspetti. Quanto al primo, non sono il solo nei Ds a vedere anzitutto con forte inquietudine la diffusa idea di mettere in discussione l’appartenenza all’Internazionale socialista e al socialismo europeo. È paradossale che l’occasione scelta per misurarsi su una proposta politica come quella avanzata dai gruppi dirigenti dell’Ulivo siano le elezioni europee. Si delinea infatti un nuovo assetto costituzionale dell’Europa, a mio avviso debole e da criticare anzitutto sul piano del deficit di democrazia. Molti critici – basti qui il nome di Habermas – segnalano come decisivo per ogni discorso di democrazia europea, e tanto più in presenza di istituzioni deboli sul piano della legittimazione nel rapporto con i cittadini, la costruzione di un comune “demos” europeo, che ancora non esiste. E uno dei presupposti di tale costruzione è il riconoscimento di appartenenze politiche europee comuni: tra le quali non esistono né l’Ulivo né il “riformismo”.
Estraniarsi pertanto da quel minimo di unità democratica europea che è data dalla presenza di comuni famiglie politiche è un grave arretramento. Ma c’è di più. Chi oggi si colloca come me nell’ambito del socialismo europeo avverte l’esigenza non solo di rafforzarne la componente di sinistra, ma anche di aprire un confronto e un dialogo con le componenti che non solo in Italia, ma in tutti i Paesi europei, si collocano nel terreno di una sinistra più radicale e alternativa, ricorra ancora essa, come in alcuni Pesi, al riferimento comunista, oppure, come in altri, abbia scelto la via dell’autonomia di una posizione di sinistra socialista, rispetto ai partiti socialdemocratici maggioritari, oppure ancora abbia formazioni politiche di tipo federato in cui entrambe le posizioni operino insieme.
La proposta che si viene formulando, invece, quando non cade nell’ingenuità di proporre un gruppo parlamentare europeo dell’Ulivo (ipotesi oltretutto vietata dal nuovo regolamento del Parlamento europeo, che consente solo la formazione di gruppi con parlamentari provenienti da almeno cinque nazioni), propone un ulteriore spostamento a destra del socialismo europeo sotto forma di apertura a formazioni politiche e a posizioni centriste estranee alla tradizione socialista.
Vi è da aggiungere che la collocazione nel campo socialista va ben oltre il tema pur rilevante della dimensione europea del dibattito politico. La collocazione nel campo socialista significa la volontà di non recidere, ma anzi riviltalizzare, una grande storia, che inizia alla fine dell’Ottocento e della quale protagonisti decisivi sono stati in alcuni Paesi dell’Europa occidentale, e soprattutto in Italia, i partiti comunisti. Negli stessi Paesi dell’Est europeo, del resto, proprio dalla crisi dei partiti comunisti di governo dopo il 1989 sono derivate esperienze politiche che a volte hanno mantenuto quella denominazione, ma più spesso si sono invece collocate con un segno socialista o di sinistra democratica, che hanno mostrato vitalità e capacità di raccogliere consenso.
Voglio dire che non ha più senso oggi, nel grande rispetto per il peso e il significato delle diverse opzioni identitarie, presentare la sinistra, come in passato, contrapposta tra un campo socialista e un campo comunista. Ciò che conta è la capacità di mantenere, anche nelle necessarie pragmatiche mediazioni politiche, il punto di vista critico rispetto alla società capitalistica nel suo complesso, e non solo ad alcune degenerazioni di essa.
Proprio la chiarezza sul piano dell’identità e della visione strategica consente di affrontare con serietà la seconda questione, cioè quella della costruzione di una prospettiva comune nella quale la sinistra socialista e comunista si misuri con le componenti moderate delle attuali opposizioni. E qui non c’è dubbio che un allarme va lanciato. Temo che non sia neppure iniziato l’indispensabile lavoro di avvicinamento per la costruzione di un comune programma per la futura alternativa di governo. Non c’è che l’imbarazzo della scelta circa gli argomenti controversi. Davanti all’aumento del costo della vita, la via da seguire è quella di nuove liberalizzazioni, o quella di un superamento in avanti della logica dell’accordo del luglio ’93? La critica al governo Berlusconi sulle pensioni è perché vuole intervenire, o perché non vuole intervenire abbastanza? Il patto di stabilità va difeso contro i colbertisti di destra, o ne va messa in discussione la logica? Il governo va criticato perché ha mandato le truppe in Afghanistan, o perché le sta ritirando? E sulle riforme istituzionali, il problema sono i poteri del capo del governo o la crisi di rappresentanza e di rappresentatività delle istituzioni? E lo Statuto della Regione Calabria va criticato perché poco presidenzialista, o per la ragione opposta?
Ho posto volutamente in modo rozzo e schematico domande che sono tratte però dalla concretezza della lettura dei giornali delle ultime settimane. Bisogna allora, senza fughe in avanti, individuare un percorso che consenta, come io credo possibile, costruire punti di intesa programmatica che, pur senza poter certo rappresentare quella che sarebbe la proposta di una sinistra che si candidasse a governare autonomamente, rappresentino tuttavia posizioni nelle quali ciascuno possa riconoscere una parte almeno delle proprie ragioni, e comunque soluzioni più avanzate di quelle del passato.
C’è un punto dal quale bisogna partire, sul piano politico e su quello sociale: il referendum sull’articolo 18. Pur senza conseguire il risultato del quorum, quel referendum ha raccolto un arco rilevante di forze politiche e sociali e oltre dieci milioni di sì: quasi due terzi degli elettori del centrosinistra e settori rilevanti di ceti popolari che in parte anche, come le ricerche ci dicono, si erano astenuti o addirittura avevano votato a destra nelle elezioni politiche.
Sarebbe ingiusto e sbagliato archiviare quell’esperienza. Pur senza impossibili automatismi, essa ci dice infatti che c’è una sinistra politica e sociale che è più avanti, forse anche più moderna, delle sue attuali forme di organizzazione politica.