La vicenda del “piano Pieraccini”, ossia del disegno di legge sul “programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969”, l’interpretazione data dal centro-sinistra al tema della programmazione, è uno degli elementi centrali della IV legislatura e tra i più emblematici della parabola dello stesso centro-sinistra. Nel gennaio 1965 il ddl viene approvato dal Consiglio dei ministri; a giugno è presentato alla Commissione Bilancio e partecipazioni Statali della Camera; circa un anno dopo, viene approvata dal Parlamento l’istituzione del Ministero del Bilancio e della Programmazione e del Comitato dei ministri per la programmazione economica (ciò su cui il PCI si astiene, in quanto favorevole nel merito ma critico sul metodo); ad ottobre il Parlamento inizia la discussione del piano Pieraccini, che si protrarrà per molti mesi, tra interruzioni e ostruzionismi delle destre, finché – solo nel luglio 1967 (ossia a metà del periodo che il piano avrebbe dovuto coprire nelle intenzioni iniziali) – si giungerà alla sua approvazione definitiva.
L’atteggiamento del PCI rispetto al “piano” fu abbastanza articolato: favorevoli in linea di principio ad una politica di programmazione – cosa comunque ben lontana da un “piano” –, i comunisti si scontrarono però con la realtà concreta del disegno di legge, rispetto a cui dovettero adeguare la propria tattica parlamentare.
Nel giugno 1966, l’Ufficio Politico del PCI decide di “insistere perché dopo la discussione in aula, il piano torni in Commissione”, e si raccomanda “sui tempi della discussione [di] trattare col PSI”1. Tre mesi dopo, il Partito presenta alla Commissione Bilancio e Partecipazioni Statali la sua Relazione di minoranza (scritta da Barca, Leonardi e Raffaelli). Essa costituisce un documento di grande interesse e – pur non essendo un “contropiano” – per certi versi rappresenta una sintesi del dibattito sul “nuovo modello di sviluppo” che aveva caratterizzato tutta la fase dell’XI Congresso. Il giudizio sul “piano Pieraccini” è netto:
«esso porta all’estremo e cristallizza la rottura con tutto il processo democratico da cui era scaturita l’esigenza della programmazione. […]
Compito primo del programmatore diviene quello di sostenere l’attuale meccanismo di accumulazione e di decisione dei privati; da ciò vien fatta dipendere una capacità di risparmio pubblico e di ricorso al mercato finanziario che […] servirà al perseguimento di ‘obiettivi sociali’. Anziché punto di partenza […] gli investimenti diretti a combattere gli squilibri sociali e territoriali e a soddisfare i consumi sociali divengono così un residuo che verrà o non verrà realizzato secondo quanto il mercato monopolistico […] consentirà; il raggiungimento degli obiettivi sociali viene fatto dipendere dal funzionamento di un sistema che di fatto li nega […].
Da qui l’aleatorietà degli obiettivi pur proclamati e […] il carattere sostanzialmente antidemocratico del piano. Il momento pubblico si qualifica essenzialmente come integrativo del momento privato e quindi come ad esso subordinato: il problema della preminenza di una volontà pubblica, democraticamente formata, sulle scelte e decisioni dei centri privati di potere economico non solo viene eluso, ma viene rifiutato.»
A tale impostazione il PCI ne contrappone un’altra, radicalmente diversa ma al tempo stesso (citando nel corso della Relazione Morandi, Saraceno, La Malfa, Giolitti) non priva di richiami unitari:
«La proposta generale che il Gruppo Comunista contrappone […] discende esplicitamente dall’elaborazione compiuta negli ultimi anni nell’arco delle forze della sinistra italiana, laica e cattolica. Noi proponiamo una programmazione democratica fondata su grandi riforme […], lasciando sopravvivere e utilizzando i meccanismi del mercato e del profitto. Proponiamo cioè una economia a due settori [corsivo mio], […] nella quale, per la prima volta, sia il settore pubblico, democraticamente diretto secondo le esigenze sociali, ad orientare l’intero sistema delle scelte economiche.»
Il significato politico cioè è quello di “un processo aperto nel corso del quale la volontà pubblica, democraticamente organizzata […] possa battere il potere economico e politico dei monopoli ed aprire nuove prospettive […]”. In questo senso, è chiaro che il processo di programmazione economica va di pari passo con quello del controllo politico democratico, dall’alto (rafforzamento del Parlamento e degli enti locali, istituzione delle Regioni) e dal basso (“controllo degli enti di sviluppo in agricoltura, democratizzazione della struttura previdenziale; […] partecipazione di organismi operai al controllo”), il che implica a sua volta la formazione di “uno schieramento e un’alleanza di forze sociali”, oltre che “di uno schieramento politico”.
La finalità principale del piano dev’essere il “superamento degli squilibri settoriali, territoriali, sociali che caratterizzano lo sviluppo del Paese”, per cui i primi obiettivi da raggiungersi appaiono innanzitutto il “pieno impiego”, quindi la “eliminazione del divario tra zone arretrate […] e zone avanzate” e tra agricoltura e altri settori; il superamento di lacune gravi in settori determinanti come “scuola, formazione professionale, abitazione, sanità, sicurezza sociale, ricerca scientifica, trasporti, assetto urbanistico”; infine una “partecipazione non subordinata [dell’Italia] ai processi di collaborazione e integrazione economica internazionale”. Secondo la Relazione, “ove si vogliano […] eliminare le posizioni di rendita, orientare selettivamente gli investimenti, modificare le strutture proprietarie arretrate, selezionare i consumi, allora le risorse si possono moltiplicare e impiegare a ritmi di produttività crescente”; per l’industria, per esempio, il PCI ritiene che “i settori trainanti” siano “quelli che producono beni di base”, per cui propone “lo spostamento massiccio di risorse produttive […] verso impieghi e settori essenziali (macchine utensili, elettronica, cantieristica, materiale per trasporti pubblici, elettromeccanica pesante, prefabbricati, ecc.)”, accanto ad “un accresciuto ruolo della industria statale”. Si vuole cioè – e in questo pare quasi di avvertire una sorta di anticipazione di quella che poi sarà, negli anni ’70 e in tutt’altro contesto, la proposta berlingueriana di “austerità” – “la compressione e il rinvio dei consumi superflui o anticipati (per esempio la TV a colori) rispetto alle urgenze del paese e di altri consumi (ospedali, scuole, ecc.)”. Non solo: si rilanciano esplicitamente le “riforme di struttura” (assieme alla necessità di “strumenti di direzione e di controllo da acquisire al potere pubblico”), e tra le riforme più urgenti si individuano quella urbanistica, quella agraria, quella della scuola e della ricerca, quella del settore distributivo, della pubblica amministrazione, quella tributaria, quella infine “delle aziende pubbliche e delle partecipazioni statali” cui “spetta in primo luogo un ruolo per operare un massiccio spostamento di interventi verso il settore dei beni base”. Ma l’intervento pubblico così com’è non esercita una funzione positiva – e qui troviamo alcuni dei passaggi più interessanti, una critica di fondo al modello di “keynesismo distorto” che ha caratterizzato per decenni l’economia italiana. Dice la Relazione:
«Non basta aumentare la partecipazione pubblica, eliminare dai settori chiave le partecipazioni private […] perché muti il rapporto tra azienda pubblica e monopolio privato. Ciò che decide è la natura del potere pubblico [corsivo mio], è il carattere della maggioranza che governa, la sua ispirazione di classe. […]
Non è inutile ribadire a questo proposito la critica dei comunisti alla pseudo-socialità di nuove scelte e decisioni pubbliche, presentate grossolanamente come ‘sociali’ solo perché non governate dal criterio del profitto aziendale. Dietro queste scelte sta molte volte la volontà di servire, anziché il proprio profitto e quindi l’accumulazione pubblica, il profitto privato […]. Per questo i comunisti rivendicano un sistema in cui l’azienda pubblica, nell’ambito delle scelte e dei fini indicati dal Parlamento […], sia normalmente gestita secondo i criteri del proprio profitto e dell’ampliamento della accumulazione pubblica e in cui le eccezioni a tale norma siano definite in sede pubblica, così da poter vagliare l’effettiva socialità, il costo e la convenienza generale delle decisioni.»
Già prima peraltro la Relazione, soffermandosi sulla questione del controllo democratico, notava che esso era necessario per scongiurare i rischi di un intervento pubblico distorto:
«Il pericolo di degenerazioni burocratiche e di mistificazioni tecnocratiche […] ha il suo risvolto nell’estendersi di un nuovo clientelismo attorno ai Partiti che ne limita la capacità di mediazione politica, li riduce a organizzatori del consenso non sulla base di scelte programmatiche di fondo, ma di concessioni settoriali e corporative.
Se non si vuole quindi che l’avvio di una programmazione statale nell’economia conduca a questi fenomeni degenerativi o li accentui occorre che la volontà politica […] non si costruisca solo al vertice […] ma si ramifichi nel Paese e nello stesso processo produttivo. […] Il carattere democratico di una programmazione antimonopolista si presenta dunque come una necessità.»
Come si vede, alcuni passaggi sono quasi “profetici” rispetto alle vicende che, pur in un mutato contesto e con cause in parte diverse, determineranno nei decenni successivi la graduale degenerazione del “sistema dei partiti”: la mancanza di un controllo democratico e di una partecipazione di massa all’elaborazione delle scelte politico-economiche finiva per svilire lo stesso intervento pubblico nell’economia, rendendolo controproducente rispetto ai fini che esso originariamente aveva.
Infine la Relazione invita a non escludere le “nazionalizzazioni necessarie”, e, tra i vari impegni per la legislatura in corso, ricorda in particolare “l’impegno del Governo a presentare […] la legge relativa all’obbligo per i grandi gruppi privati di comunicare agli organi della programmazione i loro programmi di investimento” e la “costituzione immediata della Commissione permanente di controllo sui monopoli”2.
È chiaro quindi che la Relazione presentata dal PCI costituiva un modello di programmazione del tutto diverso da quello proposto dal governo, e riprendeva suggestioni tipiche dell’ordinovismo, ma più ancora tipiche dell’immediato secondo dopoguerra (Morandi, ecc.), peraltro allora poco curate dallo stesso PCI, anticipando d’altra parte alcune tendenze e parole d’ordine molto presenti nel 1968-69. Per Longo, essa costituiva “una contrapposizione organica al piano attuale, ma anche un discorso che vogliamo riaprire con le altre forze sulle riforme e che intendiamo condurre avanti in ogni sede”3.
Quando, un mese dopo, la Camera inizierà a discutere del “piano Pieraccini”, il PCI si asterrà dall’intervenire sulle questioni pregiudiziali presentate da più parti, dalle destre (che parlano di “incostituzionalità”) al PSIUP che, con Luzzatto, ripropone la contraddizione di “approvare con legge un documento che legge non è” a causa dei suoi contorni vaghi e indefiniti che tendono ad “esautorare sempre più la funzione parlamentare” ed “ampliare parallelamente i […] poteri discrezionali” del governo. Intervenendo per il PCI, Laconi esprime il giudizio critico del Partito su vari punti: in primo luogo, sul fatto che “questa legge non scaturisce da un concorso di volontà tra regioni e Stato”; quindi, sul fatto che “non è accompagnata da un piano di riforme”; e infine sui temi sollevati da Luzzatto. Avendo Moro posto la questione di fiducia sulla pregiudiziale Luzzatto, le opposizioni non parteciperanno al voto4.
L’iter del ddl sarà comunque ancora molto lungo. Il Gruppo comunista porterà avanti una battaglia di emendamenti non molto fortunata (saranno accolti solo alcuni riguardanti i capitoli Abitazioni, Agricoltura, Commercio).
Quando, infine, nel marzo del 1967, si arriverà al voto della Camera, il PCI si esprimerà contro il “piano”, mentre i deputati della CGIL (compresi quelli comunisti, ovviamente col consenso del Partito e dopo un confronto all’interno del gruppo dirigente) faranno dichiarazione di astensione. Questo peraltro è un elemento molto significativo, che si lega a tutto il dibattito sull’autonomia e l’unità sindacale che impegna la Direzione del PCI per vari mesi, e di cui questo voto è il primo effetto di una certa rilevanza.
Note
1 APC, Ufficio Politico, 21 giugno 1966.
2 Camera dei deputati, Relazione della V commissione permanente (Bilancio e Partecipazioni statali), relatori Barca, Leonardi e Raffaelli (di minoranza), sul ddl “Approvazione delle finalità e delle linee direttive generali del programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969”, presentata alla Presidenza il 29 settembre 1966. Una sintesi della Relazione è pubblicata in “Osservatorio Economico”, 1966, n. 15, suppl. a “Rinascita”, 22 ottobre 1966.
3 APC, Direzione, 6 ottobre 1966.
4Camera dei deputati, IV Legislatura, Atti parlamentari…, Discussioni, sedute del 20-22 ottobre 1966.