Il PCI e la questione dello Stato

Unità di democrazia politica, economica, sociale

Il Partito comunista, sin dalla fase della Resistenza e dalla fase di elaborazione della Costituzione, svolse una funzione di guida delle lotte volte a contrastare lo sfruttamento imposto dal capitalismo tecnologicamente organizzato, ossia delle lotte che puntavano ad avviare un processo di profonde riforme economico- sociali e perseguivano il traguardo di una società aperta all’emancipazione dei lavoratori. I comunisti, nell’applicare la critica marxista alla configurazione della natura e del potere delle imprese, non trascurarono le problematiche derivanti dall’intreccio tra i rapporti politici, economici e sociali ed il ruolo delle istituzioni e rimarcarono, costantemente, la valenza unitaria dei principi costituzionali di democrazia politica, economica e sociale. La questione della “centralità del Parlamento” – culminante nella rete delle assemblee elettive regionali e locali – venne considerata il perno di un impegno finalizzato ad incidere socialmente sul sistema delle imprese e ad attuare il programma di trasformazione economico-sociale incorporato nell’ art. 3, 2° comma, Cost.

Anni ’60-’70. La prospettiva della socializzazione

Specie a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, in un contesto contrassegnato dalla crescita della democrazia di massa in tutti i settori della vita sociale, il Partito comunista rivendicò la necessità di una profonda riforma democratica della società e dello stato. L’espansione della “partecipazione” – causata dall’emergere di nuovi bisogni sociali – coinvolgeva criticamente tutti gli assetti di potere della società e dello stato e premeva per incidere sia sulla produzione di “beni” e di “servizi” (es.: processo di socializzazione del potere nell’ambito delle imprese a partecipazione statale), sia sulla “qualità della vita” valutata in modo integrale (es.: riforma del diritto di famiglia e divorzio). La prospettiva della socializzazione coinvolse tutti i fronti dell’organizzazione del potere, ponendo la questione del primato del pluralismo sul monopolio, del pubblico-sociale sul privato e della socialità sull’economicità (es.: riforma democratica del servizio radio-televisivo). La valorizzazione del “territorio” assunse un ruolo determinante per una nuova visione delle questioni sociali, perché sortì l’effetto di legittimare l’espressione di nuovi poteri antagonisti al potere tradizionale. La crescita dei movimenti, dei partiti, delle formazioni sociali avviò processi profondi di trasformazione e pose le premesse per la conquista dei nuovi diritti sociali. Si è assistito, specie negli anni settanta, alla nascita di forme inedite di organizzazione sociale che, connettendo diversi settori produttivi (“consigli di quartiere”; “consigli di zona”), riuscirono a condizionare i centri del potere capitalistico e ad ottenere conquiste rilevanti sul terreno delle “riforme socio-istituzionali”.

Controffensiva reazionaria

Non è, quindi, un caso che, nel vivo del conflitto sociale e politico, ossia quando maturarono le condizioni per l’ingresso dei comunisti nei vertici dell’esecutivo centrale ed in quelli regionali, provinciali e comunali, le forze reazionarie, organizzate, anche in forma di potere occulto, sferrarono una controffensiva radicale sul terreno, precipuamente, istituzionale. Il “Piano di rinascita” della P2 – che seguiva il documento della “Commissione Trilaterale” contro la “complessità della democrazia” (1973) – testimonia come il terreno privilegiato della cultura dei gruppi di potere organizzati sia quello delle “questioni istituzionali”, poiché risulta essenziale per affermare la capacità di tenuta delle pretese di dominio economico-sociale. Lo stesso terreno fu scelto, del resto, da quella parte della cd “sinistra riformista” che – per arrestare la capacità di influenza dei comunisti – lanciò un’offensiva ideologica imperniata sulla cd. “inesistenza di una teoria marxista dello stato”. Lo scopo di questa offensiva fu quello di contrastare pregiudizialmente la compatibilità della prospettiva comunista con la democrazia. La controffensiva anticomunista snodatasi negli anni ’80 e ’90 seguì, invero, due strade destinate ad incontrarsi: a) quella battuta dalle forze reazionarie che aprirono il fronte delle “riforme istituzionali” volte a destrutturare la Costituzione del 1948; b) quella percorsa dalla cultura “liberal-socialista” impersonata da Bobbio che innescò una più diretta e mirata polemica contro la stessa proponibilità di una strategia di “via al socialismo”. Si è sostenuto – richiamando l’ impostazione culturale risalente alla tradizione degli antichi classici – che la nozione di democrazia si traduce fondamentalmente nella visione della “democrazia politica”, poiché risulta prevalente il carattere della democrazia come “metodo” e, quindi, gli aspetti “formali” che vi ineriscono. La “democrazia politica” viene considerata disgiunta dalla “democrazia sociale” e si afferma, di conseguenza, la tesi della “incontrollabilità democratica (cioè dal basso) del potere economico. Questa impostazione culturale ha esercitato un’influenza notevole sulle inclinazioni della “destra comunista”, inducendola ad aderire alla prospettiva dell’“alternativa di sinistra” conforme alle suggestioni del craxismo, anziché alla prospettiva dell’“alternativa democratica” perseguita da Berlinguer. Eppure lo stesso Bobbio aveva sostenuto – nel saggio intitolato “Il futuro della democrazia” – che “il processo di democratizzazione non può dirsi compiuto se la democrazia non riesce ad intaccare l’impresa e l’apparato amministrativo”, ossia “i due blocchi di potere discendente e gerarchico in ogni società complessa” (Bobbio in Il futuro della democrazia). Sulla base di queste premesse teoriche il partito socialista riuscì a porre in essere una strategia volta a scomporre la politica istituzionale del Pci che puntava, come s’è detto, a fare della “centralità” del parlamento la base istituzionale per l’avvio di uno sviluppo produttivo “programmato” rivolto a vincolare le grandi imprese, secondo i criteri di “finalizzazione sociale” previsti dall’art. 41, 3° comma, Cost. La svolta craxiana si è caratterizzata, infatti, per la prospettazione della “grande riforma istituzionale” finalizzata a contestare – in nome dell’“autonomia del mercato” e contro “l’invasività dello stato” – la “centralità del parlamento” ed i “disegni di controllo sociale e politico delle imprese”.

Dal 1978: una deriva traumatica

A partire dal 1978prese, dunque, avvio una deriva traumatica che riguardò tutti i fronti dell’esteso terreno su cui i comunisti erano riusciti ad avviare un processo di democratizzazione capace di operare trasformazioni profonde in tutti gli ambiti dell’economia, della società e dello stato, nella prospettiva “emancipatoria” delineata dalla Costituzione italiana. L’articolata strategia di contenimento ideologico e politico della situazione sociale e culturale italiana – additata come “anomala” proprio perché scossa da processi liberatori – si è dipanata attraverso una serie di novità politiche “interne” ed “esterne”. Si possono citare, sinteticamente:

1) la cd. “strategia dell’Eur della CGIL che preluse alla resipiscenza del sindacato “di classe” sulla natura organicamente “autonoma” del lavoro rispetto al potere di impresa. Un processo che arrivò a sancire la cd. “autoregolamentazione” dello sciopero e, dunque, a svilire la “dignità sociale” dei lavoratori a mera “dignità individuale”. Gli esiti estremi di questo processo si sono realizzati compiutamente in questa fase che vede la stessa “dignità individuale” del lavoratore tradursi in una condizione di “isolata schiavitù” (accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori).

2) l’emanazione della cd. “legge finanziaria” che ha sostituito la politica di programmazione dello sviluppo economico con la programmazione “finanziaria”. Un passaggio che ha legittimato una concezione dello stato antitetica a quella delineata dalla Costituzione, ossia quella di uno stato propenso a ridurre – nei confini della cd. “azienda Italia” – la latitudine e l’efficacia di una “socialità” considerata subalterna alle prospettive di equilibrio dei bilanci pubblici. Il “risanamento” divenne, insomma, il pretesto per un “rovesciamento” di linea rispetto alla normativa costituzionale sui “diritti sociali” ed alle connesse riforme sociali ed amministrative. Sulla base di queste premesse, negli anni novanta, è stata adottata, con l’assenso della destra comunista, la linea della separazione tra “direzione politica” e “gestione degli apparati amministrativi”. Questa logica di “aziendalizzazione” ha costituito la base fondativa della politica di “privatizzazione” delle partecipazioni statali.

3) la creazione dello SME e l’avvio – con la prima elezione del “parlamento europeo” – della pseudo legittimazione democratica delle istituzioni europee imperniate sul primato del mercato finanziario. Si è cominciato ad enfatizzare – sia a destra, che a sinistra – il ruolo del “livello europeo” di una “organizzazione del potere” sempre più verticistica ed incontrollabile, che è divenuta fomite del contrasto tra le normative sovranazionali elaborate da esponenti cd. “indipendenti” dagli stati e le normative statali. Il risultato è stato quello di delegittimare le Costituzioni nazionali – specie quella italiana – nel segno del primato del “mercato” sulla “democrazia sociale”. Le marcate suggestioni di un europeismo sempre più acritico hanno legittimato la creazione – specie a partire dal Trattato di Maastricht – della simbiosi tra un “potere monetario istituzionalizzato” e la cupola di una iperbolica “governance di vertici di stato” strategicamente dislocati in luoghi irraggiungibili dai popoli sempre più estraniati.

4) A partire dalla creazione della prima “Commis – sione bicamerale Bozzi” (1983-1985), si è avviato, inoltre, il processo delle “riforme istituzionali” ed il Pci ha aderito, per la prima volta, all’idea che la Costituzione possa non considerarsi più un tabù. Venne tolto il veto che era stato posto, sino a quel momento, alla possibilità di discutere, “a tutto campo”, tale tematica. I vari modelli di “riforma istituzionale” proposti hanno puntato al potenziamento del ruolo del Presidente del Consiglio. Lo stesso Ingrao che aveva sostenuto, in precedenza, che “la prima riforma dello stato è la riforma dell’economia” (Masse e potere, 1978), si pronunciò sulla piena congruità di un “governo forte” con un “parlamento forte”, sottovalutando il fatto che le forze che esaltavano la valenza del primo enunciato, intendevano contrastare pervicacemente il secondo. Le proposte di “riforma istituzionale”, hanno mirato, partendo dalle “riforme elettorali”, ad instaurare “il primato dell’esecutivo”, ossia un “governo forte” capace di superare l’era del cd. “assemblearismo parlamentare”. Si è ottenuto, in questo modo, l’effetto di rovesciare la prospettiva dei comunisti che considerava la “questione sociale” come il fondamento della “questione istituzionale”. I termini “sociali” della “questione comunista” hanno finito, insomma, per neutralizzarsi ed hanno perso la loro specificità, a causa della disponibilità ad accettare la discussione dei progetti “revisionistici” sollecitati dalla Dc e dal Psi, ossia quei progetti che, pur prospettando forme “modellistiche” differenziali, risultano “omologhi” sul piano “ideologico”, in quanto convergono sull’obiettivo della “stabilità del sistema”. L’“alternanza” tra i partiti nell’ambito dell’immodificabile “sistema capitalistico” è divenuta l’unico criterio di commisurazione delle “leggi elettorali” e delle conseguenti “forme di governo”. Le soluzioni proposte puntavano, infatti, a contrastare i “processi di trasformazione”, che provocano le “instabilità” avversate dai “gruppi di potere” del capitalismo occidentale. I gruppi dirigenti del Partito comunista hanno abbandonato, dal canto loro, quel campo di rapporti culturali, sociali e politici che, sino alla prima metà degli anni ottanta, era stato considerato come il quadro di riferimento imprescindibile per una lotta finalizzata ad una trasformazione imperniata sui Principi fondamentali e sulla Prima parte della Costituzione, ossia per una lotta volta a realizzare una democrazia più avanzata, proprio a partire dai rapporti politico-istituzionali. Finì così col prevalere un orientamento proteso alla mera salvaguardia di gruppi dirigenti ormai sganciati dal marxismo e dalla lotta di classe. Si è abbandonata la logica “antisistema” e – recependo un valore “generico” di democrazia – si è accettata la cultura istituzionale dei partiti “socialdemocratici” dell’Europa occidentale, ossia una cultura che era stata contestata in nome della “centralità del Parlamento” e della necessità di conformare socialmente il potere del sistema delle imprese. La categoria concettuale della “governabilità” è divenuta dominante ed ha assunto la “stabilità istituzionale” come premessa necessaria per realizzare la “stabilità del sistema economico” capitalistico. L’abbandono dei principi costituzionali in materia di “forma di governo” costituisce l’esito della rinuncia a perseguire gli obiettivi della “forma di stato di democrazia sociale” e tale rinuncia è stata giustificata utilizzando i pretesti dell’“informatizzazione” e della “globalizzazione”, considerati, enfaticamente, come un antidoto incontrollabile alla democrazia di massa.

Estinzione del PCI e declino della democrazia

Dalla ricostruzione, pur sintetica, delle vicende che hanno prodotto la crisi endemica della democrazia italiana, si può, dunque, comprendere come l’estinzione del Pci e, in generale, la crisi delle cd. “due sinistre” (“riformista” e “radicale”) abbiano costituito delle concause determinanti del declino della democrazia italiana. Si tratta, allora, di aprire un dibattito che assuma come asse la denuncia delle cause dell’adesione subalterna dei gruppi dirigenti alla campagna di denuncia delle “ideologie”, che ha sortito l’effetto di emarginare ed invalidare il materialismo storico e la critica di tipo marxista, sicché oggi il capitalismo conduce una strenua lotta di classe senza trovare – al di là di forme separate di resistenza sociale – una organica opposizione di massa, dato che è stata privata dei suoi referenti teorici sul terreno sociale e su quello politico. La fine del Pci – a prescindere dalle valutazioni che possono essere fatte sul ruolo svolto dal secondo dopoguerra alla fine degli anni ottanta – ha costituito un evento drammatico per la democrazia italiana. Il suo scioglimento costituisce l’emblema di una “cesura revisionista” che ha puntato alla cancellazione degli ascendenti culturali della lotta per il socialismo al fine di delegittimare l’autonomia del movimento operaio e l’intero percorso contrassegnato dalle lotte sociali e politiche condotte con la Resistenza, con l’instaurazione di una Costituzione di tipo nuovo rispetto ai modelli tradizionali dei regimi liberaldemocratici d’Occidente e con l’impostazione di una strategia di alleanze sociali e politiche volte a trasformare il sistema economicosociale ereditato dal liberalismo e dal fascismo. La “cesura revisionistica” ha comportato l’abbandono della prospettiva della “democrazia progressiva” imperniata sull’unità delle forze politiche antifasciste organizzate nei “par- titi di massa” e legittimati – dalle regole abilitanti il pluralismo sociale e politico – a svolgere una dialettica “conflittuale” supportata dal diritto di sciopero e dall’articolazione “proporzionale” dei rapporti di forza. Il contrattacco reazionario che vede dominare, all’ombra del “bipolarismo”, l’ideologia del “mercato” co me valore antagonista della “democrazia”, si è potuto innervare solo a seguito della nascita del Pds (Pd) e di una opposizione malferma di Rc e dei suoi derivati che, pur richiamandosi nominalisticamente al comunismo, si sono rivelati sforniti dei presupposti teorici capaci di garantire una presenza “attiva” e non “subalterna” nei confronti di un capitalismo che riesce ad impor re, mediante le interrelazioni fra le istituzionali nazionali e quelle sovranazionali, il suo dominio pervasivo. La strategia controriformatrice è stata agevolata anche dalla subalternità dei sindacati che hanno proclamato, sporadicamente, scioperi privi di nervature di attacco al sistema delle imprese e, quindi, caratterizzati da un “difensivismo” che si limita ad invocare la “dignità individuale” al posto di quel “potere sociale” dalla cui effettività può derivare il riconoscimento effettivo della “dignità sociale” dei lavoratori. Si è giunti, per queste vie, a consegnare ogni di potere di governo ad un solo partito od ai membri di un solo schieramento come nel bipartitismo anglo-americano dotato del premierato e del presidenzialismo. In questo contesto, l’opposizione è stata ridotta ad un ruolo estraneo, perché, mediante la sostituzione della “proporzionale pura” con il “maggioritario-uninominale”, gli è stata negata la possibilità di concorrere istituzionalmente alla direzione politica dello stato. I partiti di massa sono stati sostituiti, di conseguenza, con conventicole incontrollabili e corrotte, che annullano la capacità dei lavoratori di riprendere coscienza dei loro interessi di classe. I lavoratori ed i gruppi sociali sono divenuti, pertanto, sempre più impotenti di fronte ad un capitale contornato dai “garanti” che, in sede politica, assicurano la continuità del meccanismo di accumulazione privata della ricchezza.

Riprendere la tradizione del partito nato nel 1921

Per uscire da questa situazione di stallo occorrerebbe – anziché perseguire una cd. “nuova cultura” – riprendere un percorso che è stato abbandonato con il pretesto della crisi del soviettismo. Risultano, infatti, evidenti i danni provocati dall’abbandono del marxismo come asse di impostazione teorica della lotta di classe, che è stata, invece, rafforzata e concentrata, dal capitalismo, nelle forme della globalizzazione. Bisognerebbe riprendere, pertanto, la tradizione del partito nato nel 1921, come strumento indispensabile per riproporre l’esigenza di lottare contro le forme divenute sempre più sofisticate del capitale finanziario e industriale, internazionale e nazionale che, con il sostegno delle istituzioni politiche e burocratiche, continuano ad aggredire la società, tanto che, in sede sociologica, si continua a constatare, enfaticamente e passivamente, che “oggi il 2% del mondo domina e sfrutta il 98% del pianeta”. Solo mediante il rilancio di partiti “pesanti” ed “autonomi” si potranno demistificare le teorie della “complessità” e della “informatizzazione” ed organizzare il popolo in una lotta di democratizzazione finalizzata a perseguire obiettivi di trasformazione del sistema politico, economico e sociale dominato dai poteri “forti” del “neoliberismo”.

Riferimenti bibliografici

S. d’Albergo, “Storicità del diritto e antistoricità della teoria generale”, in Democrazia e diritto, n. 1/2009

S. d’Albergo, “Con Marx e senza Marx”, in Democrazia e diritto, n. 3/2009

S. d’Albergo, La storia del PCI: una fine irreversibile? (relazione al seminario promosso dal circolo “Tognetti” di Rifondazione comunista, il 12 Maggio 2010)

S.d’Albergo, A. Catone, Lotte di classe e Costituzione, La Città del sole, Napoli, 2008