Il Partito nell’Unione Sovietica

Ben poco si comprenderebbe della esperienza sovietica, dei suoi caratteri permanenti e delle sue specifiche dinamiche evolutive, ove si prescindesse dal ruolo assolutamente fondamentale svolto dal partito comunista sovietico nel corso dell’intera vicenda storica del primo stato socialista. Già all’indomani dell’Ottobre, il partito, che sotto la guida di Lenin aveva promosso e diretto la vittoriosa insurrezione contro il governo di Kerenckj, si affermava, anche sul piano formale e istituzionale, come l’architrave del nuovo potere rivoluzionario, marginalizzando ruolo e funzioni di quei “soviet” che, sia pure in modo sostanzialmente subalterno alla direzione politica dei partiti protagonisti della fase deomocratico-borghese della rivoluzione, avevano giocato una parte tutt’altro che secondaria nell’abbatimento del vecchio potere zarista e nell’avvio dei primi cambiamenti in senso democratico. Il problema, insieme teorico e concretamente politico, di quale rapporto dovesse istituirsi sia sul piano formale della nuova legalità rivoluzionaria sia su quello dei reali rapporti di potere, tra il partito bolscevico e i “consigli operai” venne infatti ben presto risolto dalla dialettica stessa del processo rivoluzionario, nel senso di una fortissima e a tratti perfino esasperata accentuazione del ruolo di governo del partito in tutte le sfere della vita sociale ed economica del paese. Non si trattò affatto di una “soluzione teorica”, dedotta cioè da una qualche teoria del ruolo del partito comunista in uno stato socialista: furono piuttosto le tragiche vicende della guerra civile e la conseguente necessità del nuovo potere rivoluzionario di salvaguardare ad ogni costo la propria esistenza dall’aggressione dei suoi nemici interni ed esterni, ad esigere non solo un massimo di disciplina nel regime e nella vita interni dell’organizzazione bolscevica, ma anche l’esercizio di un massimo di potere di governo da parte del partito comunista. Non bisogna tuttavia dimenticare come a tutto ciò si accompagnasse, nella concreta dialettica del processo rivoluzionario, l’acquisizione da parte del partito di Lenin, per la prima volta nella sua storia, di una dimensione di massa. Nei primissimi anni del nuovo potere rivoluzionario, il piccolo partito di quadri che nella Russia oppressa dall’autocrazia zarista aveva garantito la continuità del lavoro politico clandestino e la formazione ideologica di pochi “rivoluzionari di professione”, si venne trasformando, in un tempo straordinariamente rapido, in una “nuova” organizzazione di massa con parecchie centinaia di migliaia di iscritti. Si trattò, come non ha mancato di sottolineare un acuto studioso della storia del partito comunista sovietico, Giuliano Procacci, di uno straordinario fenomeno di crescita civile e democratica della Russia, un paese da sempre povero di esperienze associative di tipo moderno. Fu proprio la loro trasformazione – nel corso di una infuocata guerra civile – in un grande partito di massa, che pose ai bolscevichi il problema di come conciliare l’aumento del numero degli iscritti e dei militanti con l’esigenza, imposta dalle condizioni drammatiche del conflitto in corso, della massima disciplina e compattezza interne del partito. Disciplina e compattezza che in quello specifico contesto storico non potevano non richiedere la massima centralizzazione nel sistema delle decisioni politiche e nella selezione dei quadri e una impostazione rigidamente gerarchica del rapporto tra organismi superiori ed inferiori.
La fine del conflitto civile e il conseguente passaggio ad una condizione di relativa “normalità” avrebbero, tuttavia, imposto ai bolscevichi la necessità di trovare nuove soluzioni istituzionali e politiche al problema del rapporto tra direzione politica del partito e suo ruolo di governo da un lato, e partecipazione democratica delle masse dall’altro, quest’ultima non potendo più esprimersi esclusivamente nelle forme, tipiche delle situazioni d’eccezione, dell’entusiasmo rivoluzionario e della accettazione “ideologica” della più rigida disciplina di partito. Si trattava, di fronte alle limitate ma importanti misure di liberalizzazione del sistema economico introdotte dalla Nep e al parziale “pluralismo sociale” che esse comportavano, di attenuare gli elementi di esasperato centralismo che avevano caratterizzarto negli anni del comunismo di guerra la gestione della economia e della politica, non soltanto conferendo una maggiore autonomia e capacità di contrattazione agli organismi di massa e agli istituti di quell’autogoverno operaio in nome del quale i bolscevichi avevano conquistato il potere, ma anche rendendo meno rigidamente monolitico e più rappresentativo sul piano degli interessi sociali l’intero sistema della dittatura proletaria. Non mancarono all’interno del partito degli sforzi che sembrarono andare in questa direzione: la vivace discussione che nel 1921 si accese all’interno del gruppo dirigente bolscevico su un tema assolutamete cruciale quale quello della funzione dei sindacati nello stato operaio e del loro rapporto con il ruolo dirigente del partito comunista al potere, mostra quanto profondamente fosse avvertita dai vertici del partito bolscevico l’esigenza di una riarticolazione e “divisione dei poteri” nell’ambito del sistema politico imperniato sulla direzione del partito comunista. Un inizio di elaborazione che tuttavia si interruppe presto. Di lì a qualche anno l’abbandono della politica della Nep e il conseguente varo della politica di industrializzazione accelerata e forzata avrebbe infatti impresso una nuova svolta nella vita interna del partito e più in generale nel suo rapporto con le masse. Il modello di sviluppo economico della società socialista che si venne definendo a seguito della introduzione di quella politica richiedeva il massimo della disciplina interna nella vita del partito, ai fini di una “permanente” mobilitazione delle masse operaie sul terreno dell’impegno produttivo. Perciò i quadri del partito vennero investiti del ruolo di direzione del sistema della pianificazione centralizzata, con la conseguenza che al loro tradizionale ruolo di direzione e controllo politico si affiancava una funzione “tecnica” di gestione diretta dell’apparato economico e produttivo del paese. È ad essi che spetta di garantire la massima efficienza del sistema economico, la completa rispondenza dei risultati produttivi, ottenuti a prezzo di immani sacrifici umani e sociali, con gli indici e gli obiettivi rigidamente prefissati dagli organi centrali della pianicazione. La fortissima accentuazione del ruolo di governo del partito che ne consegue, finisce per determinare una strettissima compenetrazione tra partito e stato. Gli organismi di direzione “egemonica” del primo finiscono infatti per identificarsi con quelli ammistrativi e coercitivi del secondo. La dimensione “tecnocratica” del partito-stato staliniano degli anni Trenta, sulla quale ha richimato l’attenzione Giuliano Procacci in un lavoro già citato, rappresenta tuttavia solo un aspetto dell’organizzaione bolscevica degli anni Trenta; tale dimensione non toglie infatti che il partito sia dotato di una capacità di mobilitazione di massa oltrechè di formazione ideologica dei suoi quadri davvero impressionante. Nonostante la sua fortissima compenetrazione con gli apparati della burocrazia statale, il partito staliniano è infatti un partito di militanti bolscevichi pronti a qualsiasi sacrificio nella lotta gigantesca che li vede impegnati per l’edificazione della basi materiali del socialismo. Ben poco si comprenderebbe dell’Urss “staliniana” degli anni Trenta se non tenessimo conto dell’ intreccio tra forme anche drammatiche e terribili di coercizione e perfino di terrore, non soltanto nei confronti dei nemici di classe “esterni” ma anche rispetto agli stessi quadri del partito (vedi i grandi processi di Mosca) e forme di consenso di massa. Consenso di massa che nelle grandi vittorie della politica dei piani quinquennali e nella conseguente trasformazione della Russia in un grande e potente stato moderno trova la sua profonda giustificazione storica. Esauritasi negli anni che seguiranno alla morte di Stalin la “spinta propulsiva” del modello di sviluppo fondato sulla pianificazione cetralizzalizzata, anche il modello di partito staliniano strettamente funzionale a quel tipo di gestione dell’apparato economico sembra destinato ed esaurire la sua funzione storica. Soprattutto negli anni della cosiddetta “stagnazione” brezneviana, seguita ad una fase iniziata con Malenkov e poi in qualche modo proseguita con Krusciov, in cui non erano mancati interessanti tentativi di riforma del sistema politico sovietivo nel senso di un rapporto più articolato e dinamico tra partito e stato e tra partito e società, assistiamo al sorgere e al consolidarsi di una sorta di caricatura del partito-stato staliniano, nella quale il tipico rapporto stabililitosi negli anni Trenta e Quaranta tra direzione politica dell’organizzazione bolscevica e sistema amministrativo di comando permane solo in forme apertamente degenerate e corrotte. Così, da formibabile strumento di gestione dell’apparato sulla base di una logica efficientista e canale di raccordo tra stato e masse quale era stato – sia pure in modo fortemente verticistico ed autoritario, nella anni della direzione staliniana – il partito si viene via via trasformando nel corso dell’epoca brezneviana in un organismo malato con scarse motivazioni politico-idelogiche e sempre più invischiato nelle logiche compromissorie che regolano i rapporti “informali” tra i diversi e contrastanti interessi dei vari settori della cosiddetta nomenklatura. Sempre più diviso al suo interno, il partito finisce così per perdere anche quel suo indiscusso primato “totalitario” nella società e nello stato che, pur con tutti i suoi limiti anche gravi, aveva tuttavia costituito in passato un elemento di dinamismo oltrechè di crescita non solo economica ma anche culturale e civile del paese. L’uscita dalla fase di stagnazione e di declino generale dell’URSS che caratterizza gli anni ’60 e ’70, avrebbe in primo luogo richiesto un rilancio su basi rinnovate del ruolo dirigente del partito. Partito che, è bene non dimenticarlo, pur in una fase di crisi generale del sistema sovietico non solo non aveva perso ma aveva addirittura fortemente accentuato la sua dimensione di partito di massa. Le tragiche conseguenze che la fine del PCUS nel 1991 ha comportato per la società e la economia ex-sovietiche sono lì a dimostrare quanto fortemente la tenuta e la coesione sociale e politica del sistema e della società sovietiche dipendessero, pur con enormi limiti e disfunzioni, dal partito comunista e dal suo ruolo dirigente, e quanto dissennata e irresponsabile sia stata la scelta gorbacioviana di mettere in discussione la funzione di direzione del PCUS, piuttosto che puntare, come pure in una prima fase della perestrojka si era tentato di fare, su una sua rifondazione.