Sono un prete che viene facilmente tacciato di essere di sinistra, comunista. Quand’ero ragazzo e cercavo di diventare prete, un parroco delle mie parti mi diceva che chi è figlio di comunista non può aspirare al sacerdozio. A molti preti come me è stata affibbiata l’etichetta di prete rosso. Dom Helder Camara, il vescovo brasiliano recentemente scomparso a cui non è mai stata risparmiata l’accusa di essere comunista, diceva: “Se do da mangiare al povero mi dicono che sono un santo, se cerco di capire perché il povero non ha di che mangiare allora mi dicono che sono un comunista”.
Viene facilmente tacciato di comunismo chiunque pensa che la ricchezza non è casualmente distribuita e ritiene ingiusto l’ordine del mondo che fa molti poveri e pochi ricchi.
C’è oggi chi farebbe carte false per non essere chiamato comunista e si affanna a gettare nella spazzatura non solo gli aspetti discutibili del proprio passato, ma anche le utopie, gli ideali, le lotte e le conquiste sociali per le quali altri hanno speso la vita. D’Alema, Veltroni e molti altri che comunisti lo sono stati – almeno nel senso che hanno avuto in tasca la tessera del Partito comunista italiano – fanno a gara nel prendere le distanze dal comunismo sostenendo, ad esempio, che non si concilia con la libertà e con il mercato, mentre il mercato sarebbe perfettamente conciliabile, secondo loro, con la libertà. E così, più prendono le distanze dal comunismo, più aderiscono all’ideologia del capitalismo. Tragicamente questo comporta che per non essere più “comunisti” bisogna non vedere che esistono mercati che fagocitano gli uomini per salvaguardare i profitti; violazioni delle più elementari libertà; che masse di diseredati sono derubate del diritto ad una vita almeno non indecente; bisogna negare, cioè, che esistono ingiustizie strutturali da sovvertire, sistemi di disuguaglianze da rovesciare.
Io non credo che esistano soltanto le due categorie di comunismo e liberismo; quest’ultima vincente e l’altra di cui seppellire finanche i più miseri resti. Credo che tra di esse si insinuino, con la forza di cunei, le donne e gli uomini, il cui numero si conta in miliardi, che vivono ricacciati ai margini del sistema mondiale e a cui non è stata riservata alcuna possibilità di futuro.
Tra attuali liberisti e ex comunisti convertiti di fresco al neoliberismo, queste donne e questi uomini sono la parte con la quale stare, per la quale schierarsi; non ho dubbi al riguardo. E se questo vuol dire essere comunisti o di sinistra, allora io lo sono e non me ne vergogno.
Il subcomandante Marcos, che guida la rivolta degli Indios del Chiapas, dice: “Fratelli, l’umanità vive nel petto di tutti noi e, come il cuore, preferisce il lato sinistro”.
Da sempre il termine sinistra riveste alcuni significati simbolici, legati alla diversità, all’essere fuori standard, a guardare il mondo dal lato da cui la maggioranza non guarda. Oggi, concretamente, vuol dire pacifismo, non violenza, ambientalismo, solidarietà, disobbedienza alle leggi ingiuste, lotta contro la globalizzazione dei mercati. La sinistra è il lato dei perdenti, dei senza potere, degli esclusi, degli emarginati, dei senza casa, dei senza terra, dei senza lavoro, dei senza alimenti, dei senza salute, dei senza educazione, dei senza libertà, dei senza giustizia, dei senza indipendenza, dei senza democrazia, dei senza pace, dei senza patria, dei senza domani.
Essere di sinistra significa stare dalla parte dei giovani, delle donne, degli omosessuali, degli immigrati, dei portatori di handicap, dei vecchi, dei cosiddetti malati di mente, dei tossicodipendenti, insomma di tutti coloro per i quali non c’è spazio in un mondo che vive per produrre. Essere di sinistra per me vuol dire incarnare il mio essere cristiano in questo particolare momento storico; significa concretizzare quell’opzione per i poveri che non è una scoperta recente ma appartiene al Vangelo come elemento essenziale. E optare per i poveri significa scegliere la loro causa, i loro interessi; ed escludere, perciò, necessariamente, gli interessi conservatori dei ricchi, il loro stile di vita (che è un insulto ai poveri), i loro privilegi, la loro gestione parziale del potere, i loro sfruttamenti.
In questo determinato momento storico essere di sinistra significa opporsi con tutte le forze alla guerra globale permanente e, in particolare, alla guerra che si sta scatenando contro l’Iraq, anche se dovesse essere autorizzata illegalmente dall’Onu; e vuol dire anche disobbedire alla legge razzista Bossi-Fini.
Essere di sinistra non significa ridursi all’appartenenza alla sinistra storica, né ad un partito politico, o avallare le scelte di un partito, solo perché si dice di sinistra.
Per me vale quello che diceva don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, nella sua famosa lettera a un giovane comunista: ‹‹ hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero ad avere ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione. Ma come è poca parola questa che tu m’hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso. Quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più “hai ragione”. Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: “Beati i poveri perché il Regno dei cieli è loro”. Ma il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene, quel giorno io ti tradirò ››.
Spesso ci chiediamo che cosa ci facciamo qui in Italia, dove pare che non esistano problemi, dove pare che non ci siano emarginati, poveri, disadattati; dove ci si convince che la vita è ancora tranquilla, dove tutti sembrano soddisfatti della mediocrità e vivono come un’ovvietà il loro essere benpensanti, dove la ricchezza sembra essere diffusa.
Ma se scaviamo a fondo dobbiamo ricrederci, perché le nostre città, i nostri paesi, nascondono ben altro dietro la facciata: tossicodipendenza conclamata e latente, alcolismo, microcriminalità, immigrazione, prostituzione, il carcere e il suo bagaglio di disagio e sofferenza, i quartieri periferici, vecchi e nuovi, molto spesso invivibili, evasione scolastica sostanziale o di fatto, disoccupazione e sottoccupazione, una povertà sempre più diffusa ma nascosta perché vissuta con dignità o con vergogna, e questo solo per citare alcune forme del disagio e della marginalità, di quelle fasce sociali che Madre Teresa di Calcutta chiamerebbe, con una sola espressione, “i nuovi poveri”.
Disagio reso ancora più acuto dal fatto che la facciata perbenista non esiste a caso ma è espressione dell’indifferenza, dell’individualismo, dell’inumanità e del gioco degli interessi di troppi. Chi riesce a guardare dietro la facciata viene immediatamente accusato di inventarsi problemi che non ci sono, tacciato di protagonismo o di catastrofismo, stigmatizzato e ridicolizzato.
Allora bisogna disassuefarsi dal quietismo borghese e capire che la coerenza della militanza a sinistra passa in primo luogo attraverso l’analisi delle realtà marginali, passa poi attraverso la denuncia, non di ufficio, non generica, ma puntuale e circostanziata delle responsabilità che determinano e mantengono l’emarginazione; in secondo luogo una militanza coerente passa attraverso un impegno costante, non soltanto pre elettorale o televisivo; ma, più di ogni altra cosa, la militanza passa attraverso un proporre e un fare efficace che confermi e non smentisca una opposizione durata più di quarant’anni.
Per più di quarant’anni i partiti di sinistra si sono opposti al potere democristiano, che ha malgovernato attraverso il sistema delle tangenti, delle raccomandazioni, dei patti sotterranei con la mafia, la camorra, il terrorismo, attraverso la strategia della tensione – penso alla P2, alla strage di Ustica, a Gladio – attraverso le leggi che hanno agevolato le classi sociali più ricche.
Per più di quarant’anni i partiti di sinistra hanno propagandato un’alternativa a tutto questo e hanno proposto se stessi come valida alternativa di governo. Ora i partiti di sinistra, assieme ad una parte della vecchia DC, hanno governato l’Italia e governano molte Regioni, Province e Comuni.
Nelle ultime campagne elettorali gli esponenti del centrosinistra si sono impegnati perché l’Italia tornasse ad essere, o diventasse finalmente, un “Paese normale”; a parte il fatto che l’espressione nella sua ambiguità ricorda vecchie campagne elettorali democristiane, che significa realmente “Paese normale”? Non vorrei che, come altri hanno cercato di farci fare per più di quarant’anni, anche adesso dovremo convincerci che la normalità possibile per questo Paese è quella che ci ha fatto conoscere l’Ulivo: una normalità alla quale eravamo già abituati, una normalità che vergognosamente insegue le politiche della destra.
Ad una sinistra che trovandosi a gestire il potere corre il rischio di vedersi spuntare le ali, e a tutti coloro che si sono lasciati sedurre dalle politiche di normalizzazione voglio ricordare le parole con le quali il subcomandante Marcos, dalle montagne del Chiapas, convocò il primo Incontro intercontinentale per l’umanità e contro il neoliberismo: ‹‹La nuova spartizione del mondo consiste nel concentrare potere nel potere e miseria nella miseria. La nuova spartizione del mondo esclude le cosiddette minoranze. Indigeni, giovani, donne, omosessuali, lesbiche, gente di colore, immigrati, operai, contadini . Le maggioranze che abitano negli scantinati mondiali sono, per il potere, minoranze da cui si può prescindere.La nuova spartizione del mondo distrugge l’umanità. Nella nuova spartizione del mondo c’è posto solo per il denaro e i suoi servi. Uomini, donne e macchine diventano uguali nella servitù e nell’essere sostituibili. La menzogna governa e si moltiplica nei mezzi e nei modi. Una nuova menzogna ci viene venduta come storia. La menzogna della sconfitta della speranza, la menzogna della sconfitta della dignità, la menzogna della sconfitta dell’umanità. Dobbiamo mettere in piedi l’internazionale della speranza. L’unità, al di sopra di frontiere, idiomi, colori, culture, sessi, strategie, pensieri, di tutti coloro che preferiscono l’umanità viva. Non la burocrazia della speranza. Non il potere con un nuovo sogno o nuove vesti, ma l’alito della dignità, il fiore della speranza e il canto della vita.La dignità è questa patria senza nazionalità, questo arcobaleno che è anche un ponte, questo mormorio del cuore senza che importi il sangue che lo vive, questa ribelle irriverenza che burla frontiere, dogane e guerre. La speranza è questa ribellione che rifiuta il conformismo e la sconfitta. La vita è ciò che ci devono: il diritto a dare e ricevere ciò che è giusto, il diritto a pensare e agire con una libertà che non significhi schiavitù degli altri››.