Il Nord-est e la crisi capitalistica

*Capo Servizio Studi Camera di Commercio di Padova

“Può un centrosinistra, che nel Lombardo-Veneto è ormai marginale, pensare di poter governare il paese?”. Questa domanda la pone e se la pone da tempo Massimo Cacciari, Sindaco filosofo di Venezia e inascoltato presunto leader democratico. Non è una domanda da poco. Il Nordest, che rappresenta una delle parti del Paese economicamente più dinamiche e in costante trasformazione sul piano sociale, vede ormai una straripante marea verde conquistare, elezione dopo elezione, maggiori consensi. È proprio il modello postfordista, che caratterizza il Nordest medesimo ad allargarsi, in modo lento ma inesorabile, scendendo verso il centro Italia, e conquistando consensi e rappresentanza in Emilia, in Toscana, giù fino a coinvolgere l’Umbria.

“SOCIETÀ DEL RISCHIO”

L’emergere di questo sistema sociale ed economico viene descritto da alcuni studiosi come l’avvento della “società del rischio”. Il rischio in passato veniva compresso dalle capacità di previsione e controllo dell’ordine fordista, quando esso era ridotto dal potere di programmazione, dalla stabilità delle posizioni e dagli interventi contro le devianze del mercato. I lavoratori erano, almeno in apparenza, esorcizzati dal rischio tramite il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Con il superamento del fordismo, il rischio è tornato a diffondersi sulle persone e sui territori. Le imprese si sforzano di intercettarlo e di ridurlo, affermando di svolgere questa funzione a vantaggio di tutti gli altri soggetti sociali. Il modello Nordest è prevalentemente questo, ed è ridicolo stupirsi se i lavoratori, compresi ovviamente gli autonomi e i parasubordinati così diffusi in questa parte dell’Italia, scelgono la Lega e il Centrodestra in generale per rappresentare i propri interessi. La Sinistra non ha ancora incominciato a definire se stessa in un mondo post fordista. Fondamentalmente le sue idee so no ancora inserite in un universo di rapporti produttivi centrati sulle imprese di grande dimensione, sull’organizzazione delle grandi rappresentanze di lavoro standardizzato e di lavoro di massa; mentre il mondo un po’ alla volta è cambiato, e non è più come nel passato. Di conseguenza i nuovi soggetti si fan no rappresentare in altri modi, anche un po’ improvvisati: il leghismo, per esempio, è frutto anche di questo vuoto. E questo modello del Nordest è ormai purtroppo ampiamente nazionale. L’Italia la precarietà ce l’ha nel suo DNA, perché quando un paese come il nostro ha quasi quattro milioni di imprese vuol dire che, contando tre persone a famiglia, ha circa dodici milioni di cittadini che rischiano; che alla fine del mese, se hanno fatto bene guadagnano, se hanno fatto male perdono. Sono pochissime le posizioni sicure: l’impiego pubblico, che non per niente vota quasi compatto per il centro sinistra, i pensionati, anch’essi bacino privilegiato degli avversari di Berlusconi, e forse gli operai delle ultime grandi fabbriche, quelle sicure, quelle dei servizi. Tutti gli altri sono precari, perché il nuovo mercato capitalista li ha resi tali. Le trasformazioni sociali ed economiche hanno costruito una situazione di fatto dove – in assenza di un serio progetto alternativo di organizzazione sociale, che il PCI aveva saputo rappresentare fino agli anni ’80 – perde terreno la difesa collettiva dei diritti: in una società del rischio ognuno cerca di salvare se stesso.

L’IMPRESA POLITICA DELLA PAURA MIETE CONSENSI A DESTRA

Se il profondo nord era arrabbiato e incattivito quando l’economia tirava, come diventerà in una fase di crisi e di recessione? La risposta è venuta dalle urne con un segnale inequivocabile: come la storia ci insegna, di fronte alla crisi economica è sempre in agguato un’uscita a destra, dove il razzismo, l’egoismo sociale, le politiche securitarie sono spesso l’ansiolitico di maggior successo. La strumentalizzazione politica della crisi ha sdoganato parole d’ordine come “prima il lavoro agli Italiani”, che fino a pochi anni fa erano patrimonio dell’estrema destra razzista. È cresciuta una categoria di “leghisti rossi”, quando si è cominciato a criticare la gestione liberista dei fenomeni migratori che non fermava le quote di nuovi ingressi, nemmeno di fronte al fenomeno, prima sconosciuto da queste parti, dell’allungarsi delle file della mobilità e della disoccupazione di lavoratori veneti e immigrati. Gli imprenditori politici della paura, leghisti e non solo, hanno incassato valanghe di voti promettendo sicurezza, mentre l’Unione di Prodi e la sinistra in generale non erano in grado di proporre nulla, a parte generiche e fastidiose minimizzazioni. Le urne hanno purtroppo dimostrato che se un individuo si percepisce insicuro, è insicuro, e quindi vota per chi la sicurezza dice di volergliela garantire. Gianfranco Bettina, sociologo e scrittore prima ancora che leader dei Verdi veneti, ha pubblicato un libro prezioso per indagare il fenomeno, che si intitola Gorgo in fondo alla paura, in cui, partendo dal terribile omicidio di due anziani coniugi in un paesetto della provincia di Treviso ad opera di tre immigrati, racconta il Nordest. “È irrequieto da tempo il Nordest italiano. Perché eccitato, ma anche preoccupato dalla globalizzazione. Perché arrabbiato per il peso fiscale che sopporta, reputato un sopruso di Roma. Perché ispirato dal sogno federalista, perché ora è dentro la crisi come tutti, come tutto”.

SPOSTAMENTO DEL CONFLITTO DALLA CLASSE ALLA COMUNITÀ

E nella crisi ancora una volta emerge che il Nordest non è una società aconflittuale come la vecchia DC, transitata in massa con i berlusconiani, ha sempre tentato di far credere. Nel Nordest il conflitto c’è, ma è orizzontale invece che verticale. È una specie di sindacalismo territoriale per il quale i lavoratori e i ceti più deboli si sentono rappresentati sulla base di una appartenenza comunitaria, piuttosto che dalle reali condizioni di classe; mescolando rivendicazioni locali ed egoismo sociale, alimentando paura e razzismo. In un sistema magmatico e parcellizzato, com’è il mondo del lavoro nella piccola e media impresa, il lavoratore – spesso inconsciamente – si percepisce come fosse sulla stessa barca con l’imprenditore. Perché quell’imprenditore non è il figlio di una dinastia, ma è anch’esso un ex dipendente che ha scelto di lavorare in proprio. Così possono accomunarli la lotta contro la pressione fiscale che erode e determina il reddito disponibile all’uno come all’altro, direttamente o indirettamente. Per questo il Presidente leghista della Regione Veneto può affermare con una qualche ragionevolezza che la Lega è il partito laburista del Nord. Mentre la Sinistra non sa dire nulla nemmeno alla nuova, numerosissima, generazione di lavoratori parasubordinati: a quei forzati imprenditori di se stessi che costituiscono le centinaia di migliaia di partite IVA che surfano ogni giorno sulla cresta della competizione e della insicurezza. Solo a partire da questa analisi del nordest, che implicitamente ci parla di come sta cambiando tutto il Paese, possiamo interrogarci sul ruolo odier no della sinistra. Serve una sinistra capace di recuperare insediamento e rappresentanza nel mondo del lavoro, di innervarsi nella rete delle resistenze sociali e popolari al neoliberismo, anche e soprattutto quelle ora presidiate dal leghismo. Perché è dalle contraddizioni di un modello che ha imprenditorializzato il territorio e la società, riverticalizzando il conflitto, che possiamo ricostruire una sinistra della quale venga percepita l’utilità sociale. Serve un nuovo inizio che parta dal basso, non solo nel radicamento nei territori e nella valorizzazione della militanza, ma con l’elaborazione originale autonoma di un progetto politico con una chiara connotazione di classe.

I FATTORI STRUTTURALI DELLA CRESCITA DELLA DISOCCUPAZIONE NEL NORDEST

Venendo alle questioni più squisitamente economiche si possono, in sintesi, individuare sette fattori che nei prossimi mesi autunnali possono portare la disoccupazione nel Nord – est a livelli drammatici. In questo periodo, infatti, verranno a scadenza i termini della cassa integrazione, che dall’inizio della crisi ha subito incrementi superiori al 300 %: il rischio è che in questo ex Eldorado il tasso di disoccupazione si avvicini al 20 %. Ma vediamo questi sette fattori di rischio.

1. L’asse portante della struttura produttiva è costituito da sei settori di base – siderurgia e meccanica primaria, meccanica strumentale, tessile ed abbigliamento, attività conciarie, mobili ed arredamento, trasformazione alimentare – che da anni manifestano chiari segni di maturità, e che sono soggetti ad un adeguamento tecnologico, sia di prodotto che di processo produttivo, che presenta ritmi particolarmente bassi.

2. In questa struttura industriale, caratterizzata da un tessuto diffuso di piccole aziende, risulta minoritario e marginale il ruolo della grande impresa, e con essa l’effetto di trascinamento che può originare.

3. Il processo innovativo nel sistema delle piccole imprese si realizza e si diffonde quasi esclusivamente nel circuito clienti-fornitori o nel rapporto di committenza fra le microimprese a rete e l’azienda principale a cui esse fanno capo; pochissime sono le aziende che dispongono di autonome unità operative di ricerca e sviluppo.

4. Il sistema dei trasporti è gravemente insufficiente: intere zone hanno una struttura viaria vecchia di trent’anni. A ciò si deve aggiungere che il sistema medesimo è fortemente sbilanciato verso il trasporto su gomma – il quale copre più dell’80% del totale – con un forte aggravio dei costi oltre ad un impatto devastante sull’ambiente.

5. Il settore del credito presenta caratteristiche di arretratezza davvero preoccupanti. Nel 90% dei casi i finanziamenti sono concessi solo se connessi a garanzie reali. Si è in forte ritardo anche per quanto riguarda tutti i canali di credito specializzato ed agevolato alle piccole imprese, sia pubblici che privati.

6. Significative carenze si riscontrano anche nel settore dei servizi reali alle aziende: supporti informativi e gestionali, assistenza finanziaria e fiscale, consulenze per l’organizzazione del lavoro, formazione professionale delle maestranze e del management.

7. È ormai dimostrato che al “miracolo economico” nel Nordest non si è accompagnata una corrispondente crescita del tessuto sociale. In non pochi casi sviluppo economico e crescita sociale hanno seguito dinamiche opposte: aumento forsennato dei ritmi di lavoro, diffusione massiccia del lavoro festivo e notturno, crescita allarmante degli infortuni e dei decessi in fabbrica, ampliamento del lavoro precario non tutelato né garantito, espansione continua di nuove sacche di povertà ed emarginazione specie fra i pensionati e i lavoratori saltuari.