Il nodo del lavoro: alla ricerca di un progetto politico

IL LAVORO E I SUOI SOGGETTI RITORNINO AL CENTRO DEL DIBATTITO DEL CONGRESSO, COME PURE DI UN PROGRAMMA DI GOVERNO.

1. Il lavoro e i suoi soggetti hanno un’assoluta centralità sociale. Il lavoro e i suoi soggetti non hanno, oggi, alcuna centralità politica. La ricomposizione della diaspora politica- società, sul nodo del lavoro, deve essere la “priorità uno” anche nel programma di quanti, ancora oggi, si propongono di cacciare Berlusconi. E un Congresso – da quello dei DS a quello del PRC – deve discutere di questo. Quando invece si chiudono gli occhi sul nodo del lavoro e, quindi, non si elevano le lotte sociali sulla produzione e la distribuzione, ne soffre la libertà e la democrazia. Il come ridare centralità al lavoro interroga pertanto la politica vera, quella che ha a che fare con le persone in carne ed ossa, e con la trasformazione della società. Certo che non può interrogare il “governismo comunque ».

2. Questa perdita di centralità politica, oltretutto, non determina né benessere né sviluppo. Produce, invece, tendenze ben visibili: la mutazione della democrazia in oligarchia e con essa il declino del paese. In Italia tutto ciò è evidente. In Italia l’economia è bloccata, l’industria non è al declino ma è al dissesto, con cedimenti strutturali non più tamponabili con interventi sulla domanda. Se non si interviene con un progetto sul sistema stesso delle imprese (l’offerta), si esaspera il fenomeno già in atto in cui crescono, insieme e divaricandosi, le grandi ricchezze dei pochi e le vecchie e nuove povertà di masse sempre più estese. E la cosiddetta modernità capitalistica dilaga pervasiva con uno sfruttamento senza regole, con la diffusione del mercato delle braccia, con l’individualizzazione del rapporto di lavoro; dove le cose che dice Giuliano Amato, secondo cui “ogni Lazzaro deve camminare da solo” (è questo il suo programma di Governo?), oggi si vanno a comporre nella “Direttiva Bolkestein”, che è il manifesto crudele della soluzione finale che si prospetta in Europa per i diritti sociali. Deve perciò almeno elevarsi il tono su idee di “alternativa di sinistra”, che siano appunto un progetto che – lo ripetiamo – sappia recuperare la perduta centralità politica del lavoro e dei suoi soggetti. Lo si abbassi invece il tono sulla “sinistra di alternativa” che è, e sarà, uno strumento importante unicamente se correlato al progetto. E non sia un fine! Senza la prima (l’alternativa di sinistra) non esiste la seconda (la sinistra di alternativa).
Ragioniamo ora della grande assente in tutte le discussioni di tutte le sinistre: l’economia. È dall’alternativa economica e dalle sue ricadute sociali che si declina o meno un’alternativa di sinistra sospinta da una sinistra di alternativa.

3. In Italia si è dinnanzi a un bivio. Da un lato si presenta la “via bassa” di uno sviluppo economico ricercato su bassi salari, alta flessibilità e delocalizzazioni, che sono poi le ultime carte di cui dispone un capitale che non ha innovato, non tiene conto dei mercati internazionali e che, oltretutto, non può più disporre della possibilità di svalutare la lira. E oggi questo capitale si dà alla fuga, come gli Agnelli stanno facendo dall’auto, nella migliore tradizione dei reggenti piemontesi. Stiamo, come Paese, praticando questa via. Dall’altro lato c’è una “via alta”, che si può imboccare ma soltanto investendo in innovazione e ricerca. Non stiamo praticando questa via. Sulla prima via la concorrenza è sul prezzo, in settori deboli a tecnologia medio bassa (anche se il design può essere di alto pregio) come il tessile, il legno e pure il turismo, dove siamo per ora forti. Sulla seconda la competizione è sulla qualità, in settori industriali forti in quanto hanno in sé valore e prospettiva – farmaceutica, navalmeccanica, nuovi materiali, elettronica di consumo, dove però siamo deboli o addirittura assenti – o in quei servizi non delocalizzabili ma da sottrarre alle privatizzazioni. Restare sulla prima via, competendo sul prezzo, significa essere travolti dalle economie dell’Est europeo ed asiatico, in avvicinamento. Imboccare la seconda, competendo sulla qualità, richiede innanzitutto una volontà, e poi un impianto alto di idee e, infine, il ritorno in campo della programmazione. Restare sulla prima via, ancora, fa configurare l’Italia come un aggregato di subfornitori dentro un pulviscolo di fabbrichette, una colonia economica insomma, al traino di altre economie. Imboccare la seconda richiede, insisto nel dirlo, un progetto ed una politica. Richiede soprattutto che ci si liberi di quella sorta di cialtroneria ideologica secondo cui l’industria è qualcosa che appartiene al passato e, quindi, che se essa declina non c’è che da rallegrarsi. La si pensa così anche in settori di Rifondazione. Solo che nel mondo non va così. Vogliamo parlarne almeno in un Congresso?

4. La politica, quella seria, non può galleggiare sulle tendenze del momento in cui paradossalmente, con l’affermarsi del nuovo capitalismo digitale e finanziario, sono riemersi vecchi fantasmi ottocenteschi che ritenevamo definitivamente scomparsi perché messi in fuga dalle lotte sindacali e politiche: dal caporalato ai morti sul lavoro. Calato però il movimento – siamo ancora nel campo di una sconfitta storica, guai a inventarci un’altra realtà –, avanza lo sfruttamento più bestiale. La politica invece, per i comunisti (gente seria e combattiva), dovrebbe guardare ai settori decisivi di quella via alta e da conquistare, e ai suoi lavoratori del presente e del futuro – dell’industria, dei servizi, della scuola – che la devono popolare. E guardare agli artigiani ed ai commercianti, che sono il primo livello di alleanza con questi lavoratori. E così pure agli intellettuali e al mondo delle scienze, dell’arte e della cultura. Questo se si vuole fare blocco e lottare per cambiare. Perché invece si nega nella sostanza – e lo ha fatto Piero Fassino – che si possa ritornare a parlare di blocco sociale, quando quel Berlusconi che vogliamo cacciare sta proprio costruendo con demagogia ed abilità il suo blocco sociale sottraendo strati e ceti a un nostro blocco potenziale? Perché – e non solo Fassino – si guarda alla società solo come ad un insieme di individui senza un’identità generale? Se altri lasciano il campo del lavoro, compete crediamo ai comunisti tornare a coprirlo, dopo che Berlusconi vi è – ripetiamo – penetrato con il suo progetto devastante, che ci sottrae, appunto, soggetti proletari in sé. Compete ai comunisti di provare, insomma, a correlare il futuro dei soggetti di quel potenziale blocco sociale anche al futuro del partito: un progetto economico, un progetto sociale, un progetto politico. Questa la prima sintesi. Si avvii la ricerca. Nella ricerca si situa anche il 6° Congresso di Rifondazione, che sarebbe assai negativo si disperdesse seminarialmente su questioni che attengono alle culture proprie delle varie tendenze presenti nel Partito – le culture non vanno mai al voto congressuale –, mentre è indispensabile che si decida, nel Congresso, cosa fare nei prossimi tre anni e, quindi, domandarsi come cacciare Berlusconi e con chi, contro chi, per fare che cosa e quando. Questo è il punto. Al voto ci si vada su questo, perché su questo passa la linea d’ombra del “che fare”. Il Congresso compia perciò il primo passo; ma deve essere netto, perché deve far capire la direzione verso cui ci si muove. Non si può più procedere a fari spenti con uscite spettacolari (le frasi scarlatte) a fine mediatico. E si ritorna così al nodo del lavoro, all’ancoraggio della concretezza, perché lavoro vuol dire libertà, democrazia, trasformazione sociale. Questo è il Congresso utile ai lavoratori. Ci si confronti nel merito. Inutile e dannoso far la conta su altro (come temo si farà). È paradossale insomma che si selezioni il personale politico sulle filosofie e che poi la politica vada pragmaticamente altrove.

5. Riaffrontando il nodo del lavoro, pur in primo approccio, deve assumere assoluta centralità il tema industria e lavoro industriale. Senza un’industria di qualità non c’è né un terziario di qualità e nemmeno una formazione ed una Università di qualità. L’industria, va detto alto e forte, non è un’appendice fastidiosa della finanza. Averlo sostenuto ha portato al caso Parmalat. Affrontiamolo invece questo tema attraverso una griglia di cinque punti dai quali non si sfugge se si vuol discutere davvero della questione “crisi dell’industria italiana”, che è poi il cuore del tema economico così abbandonato. Sono cinque punti cardine sui quali gira un progetto.
a) Va superata la frammentazione dell’impresa italiana, va girata pagina del modello Italia del Nord Est, del nanismo industriale, del “piccolo è bello”. Oggi la fabbrichetta del Triveneto è un freno anche culturale. L’Italia dei 200 distretti va ripensata dalle radici. Questa Italia non funziona, non regge alla globalizzazione. Così impostato, il paese si è ridotto a produttori di nicchia abbandonati dal credito e a un insieme vasto di subfornitori legati alla committenza che il grande committente straniero può o meno favorire. Stiamo – lo ripetiamo – in soglia tracollo con questa struttura economica che ci parla della drammatica latitanza, dell’assenza dell’autonomia tecnologica italiana. La frammentazione delle masse critiche competitive, tanto enfatizzata da industriali in fuga e ministri creativi, ci ha così portati fuori mercato. Non basta essere leader della moda e del “made in Italy” come lo si è con la Ferrari, le scarpe e gli yacht di superlusso perché, mentre altrove si valorizzavano i “campioni nazionali” – Francia e Germania con chimica ed elettronica, Gran Bretagna con l’aviospaziale –, noi abbiamo massacrato quei settori che pure attestarono, decenni fa, la leadership italiana in Europa: nell’energia, nell’informatica con Olivetti, nella stessa auto. I campioni nazionali devono tornare; individuiamo dove, per che cosa e, oggi, con chi. E si ritorni a ragionare di prodotti e consumi: del cosa produrre, del come e per chi. Ma questo, della massa critica e del ritorno della grande industria, è il primo cardine.
b) Funzionale a questo ragionamento, va rilanciata la centralità del ruolo pubblico. I mercati liberalizzati nel trasporto, energia, telecomunicazioni a gran voce richiedono un ruolo pubblico; così pure nel credito, che vuole trasparenza. Un ruolo pubblico che, ricordiamolo, nasce in Italia proprio per risolvere i problemi considerati dai privati insuperabili (nella siderurgia, per esempio). Oggi sono ancora questi privati che, non attrezzati alla competizione del mercato globale, riparano nel mercato protetto dei servizi e delle autostrade, riparano nelle bollette, quando non delocalizzano. La risposta dell’imprenditore italiano alla globalizzazione, pertanto, non è stata affatto l’innovazione (l’innovazione costa, e perciò si calpesta con disinvoltura l’agenda di Lisbona) ma l’inseguimento del lavoro dove esso costa meno nel mondo, è stata la torchiatura della flessibilità e, ovviamente, l’autoriduzione delle tasse agevolata dall’imbroglio dei condoni. Va ripresa invece, e con forza, l’idea del rilancio, con il pubblico, dell’«economia mista”. Oggi è ancora possibile farlo, individuando appunto i nuovi campioni nazionali – navalmeccanica e farmaceutica potrebbero esserlo –, ed investendo in una politica conseguente. Uno strumento già esiste: è Finmeccanica, che può essere, per tutto il settore industriale, l’«ingegnere” del progetto. Così come una politica per l’innovazione vuole, con lo strumento, un unico centro direttivo, che non può più essere disperso e frammentato come ora in ben tre ministeri. È da un unico ministero, l’«architetto” del progetto, che possono seguire una sola programmazione, la politica dei settori, i finanziamenti sostenuti dalla leva della fiscalità progressiva. Un ingegnere ed un architetto, pertanto, per rilanciare: il pubblico, l’economia mista, i campioni nazionali, le masse critiche competitive, l’innovazione, il lavoro certo, il salario.
c) L’architetto e l’ingegnere si propongano, nella nostra idea di percorso, un obiettivo principale. È il Mezzogiorno, per il tipo di struttura economica, che paga socialmente, oggi come ieri e più drammaticamente di tutti, la scelta del non aver un progetto ed una politica. Oltretutto in una assenza totale di distretti industriali che, se non altro, ne rallenterebbero il declino. Va in particolare rivisto il ruolo e la funzione di “Sviluppo Italia”.
d) Va inoltre pensata una struttura che, parallelamente all’architetto politico (il Ministero unico) e all’ingegnere di progetto (Finmeccanica), si sappia calare con finanziamenti nei processi. Bisogna perciò pensare ad una cassaforte del progetto. Proponiamo una Merchand- Bank pubblica, alimentata in particolare dai proventi di Eni ed Enel, che non devono più andare nei profitti del padrone che scappa. Una banca, quindi, che sopperisca ad un sistema creditizio ingessato e poco propenso a sostenere i progetti innovativi tanto fondamentali per la rinascita della nostra economia (la via alta), quanto evitati dalle grandi famiglie che non si espongono più nel capitale a rischio. Un cuneo forte infilato nel credito a sostegno della risposta pubblica alle crisi: della Fiat, esposta con un indebitamento di 3 miliardi di euro che spingerà proprio le banche ad entrare nell’azionariato – ed è un fatto clamoroso –. ma che solo l’intervento pubblico e l’alleanza con partner europei potrà salvare; di Cirio e Parmalat, che vanno sottratte ai cloni di Cagnotti e Tanzi; di Alcatel e Siemens, dove e ancora solo l’intervento pubblico italiano può impedire il saccheggio estero del core business; di Alitalia, in cui si rappresenta la enorme incapacità del Governo di lanciare il gruppo con indispensabili alleanze europee. Può essere questa m e rchand bank pubblica lo strumento su cui ragionare anche di Telecom, delle Poste, delle Ferrovie, dei Consorzi delle ex- Municipalizzate che oggi diventa fondamentale costituire ovunque per sottrarre localmente alla speculazione privata l’acqua, il gas, l’elettricità, i rifiuti, i trasporti cittadini e quanto insomma non è delocalizzabile. Il modello Hera va diffuso. Del resto il colosso RWE in Germania è proprio un consorzio pubblico dell’energia, un colosso che conquista quote di mercato dei servizi in tutta Europa, compresa l’Italia legata all’abbaglio del “meno Stato più mercato”. Poi succede che nel mercato italiano dei servizi lo Stato entri di forza, ma sono quello tedesco e quello francese però. Altro che “stato minimo”!
e) Nella scelta della “via alta”, che presuppone inoltre la salvaguardiadella residua qualità, vanno sostenute proposte che:
– prevedano il ritiro di qualsivoglia sostegno economico pubblico per le aziende che delocalizzano all’estero a scapito dell’Italia; anzi, chi delocalizza paghi!
– impediscano, di converso, che le imprese straniere che hanno investito in Italia in un processo però di internazionalizzazione passiva, poi riportino il know-ow alla lontana casa madre; anche per costoro ci sia il “chi delocalizza paghi!”
– prevedano invece un sostegno, anche con il superamento dell’IRAP (certo, non con la tassa sugli SMS!) per le imprese che, innovando, assumono ma a lavoro certo e non precario.
Queste sono proposte assai concrete, che prendono atto della morsa che stringe l’economia italiana: premuta da un lato dall’incedere impetuoso della concorrenza sul lavoro povero (tessile e legno ad esempio, dove arriva al galoppo quel “superdistretto” che si chiama Cina Popolare), dall’altro dalle imprese straniere arrivate in Italia a fare shopping sul lavoro ricco dal quale le imprese italiane sfuggivano, e che oggi tendono, come detto, a riportare alla lontana casa madre il sapere, le scatole nere dell’intelligenza delle proprietà acquisite in saldo.
La prima cosa da fare subito sono atti in controtendenza per salvare almeno il salvabile, per fare leva sui consumi e sulle produzioni sostenibili. E poi ripartire. Se non lo si fa, si diventa del tutto una colonia subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche (e militari) di altri paesi. Il Governo del dopo Berlusconi si propone questi atti? Un Congresso che parla di Governo ragiona su questo oppure sfugge?

6. Seconda sintesi: l’ingegnere, l’architetto, la merchand bank, possono essere gli elementi fondativi di un progetto. Ma il progetto è credibile se ci si muove, subito e almeno per salvare il salvabile con proposte concrete. E poi ripartire. Cosa fanno invece Governo e Confindustria? Ci aprono il fronte ora dell’articolo 18 per cancellare la giusta causa, ora della precarietà nella vasta gamma della Legge 30. Cosa fa il centro sinistra nella sua maggioranza? Trepesta tremebondo e parla ancora di privatizzazioni che sarebbero non portate a termine come la causa del dissesto (così l’ineffabile Bersani, che ora pare sulla via di un leggero pentimento). Cosa fa Rifondazione? Coglie certo il problema centrale ma, già con le 15 tesi del Segretario, annacqua il carattere stesso del nodo del lavoro in una propostina debole debole, in cui nemmeno si menziona e si affronta la questione della centralità di una nuova redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e di come essa possa far fronte al Patto di stabilità sottoscritto dall’Italia. E purtroppo non entrano nel merito (le 15 tesi) della “questione economica” che sta a matrice del tutto. In filigrana si legge l’obiettivo Governo, e che poi esso sia un fine o un mezzo è addirittura secondario quando ci sei dentro e devi decidere. Sono però molti i se e i ma sulla via che porterebbe al Governo. Ne vogliamo discutere o ci è chiesto l’ennesimo atto di fede? Altolà, si giri pagina.

7. Perché al Governo ci si va a condizione che: primo, i lavoratori ci spingano col voto e le lotte; secondo, ci si va per avviare un processo di cambiamento strutturale, non certo accontentandoci del Bilancio Partecipativo o della Rete del Nuovo Municipio, cose anche positive in sé, ma un pericoloso “piatto di lenticchie” se diventano l’esclusivo oggetto di scambio per un improbabile “governo leggero”. Attenzione a non essere organici, tesi “al Governo comunque”, a un processo in corso illustrato dal fatto che, in Italia più che altrove, è stato affisso il manifesto di un mercato che tutto riduce a merce e che, come tale, non sopporta alcun vincolo sociale ed ambientale. Siamo oggi ben oltre i “lacci e laccioli” di Guido Carli, antico Presidente di Confindustria. Viene praticato il manifesto della libertà d’impresa che Bush, nel suo rapporto sulla guerra preventiva, più volte richiama. Da questa ideologia discendono però due effetti. Il primo è il degrado della democrazia, dove tutto oggi viene ridotto al rapporto mediatico leader-cittadino, nella chiusura degli spazi partecipativi, considerati anch’essi un vincolo da cui liberarsi. Ma non sono (ahimè!) soltanto le destre, politiche e sociali, ad aver introiettato nei comportamenti questo effetto derivato, di cui in Italia Berlusconi è il protagonista per eccellenza e anche esempio comportamentale (per troppi). Il secondo effetto si configura nel fatto che la cultura dei diritti viene soppiantata da quella delle opportunità, in una società dove c’è o ci sarebbe chi è capace di coglierle e così diventa soggetto attivo della società delle conoscenze di quell’epoca che Rifkin ha definìto come “età dell’accesso”, e chi invece non ne è capace, ed è perciò escluso dall’accesso appunto delle conoscenze, e precluso al coglierle (le opportunità) e deve stare indietro. Sono questi i Lazzari che non risorgono mai, sepolti in un impianto che ha il suo punto di riferimento nel primato del mercato senza regole, nell’egoismo e nel rigetto della solidarietà.
Per arrivare al nodo: anche il mercato del lavoro in questa cultura deve offrire solo opportunità e non più diritti. Così pure lo Stato Socialeche, sempre in questa cultura, deve solo esporre un catalogo di prestazioni, in cui il soggetto “è libero” di scegliere. Va da sé che non ci deve essere né sanità pubblica né pensioni pubbliche. Tutto è nel mercato globale, tutto è merce. A tutto questo ci si adatta o ci si ribella? Ci si adatta quando si va sugli effetti con atti simbolici e disubbidienti come la spesa proletaria. Ci si ribella quando si va sulle cause con interventi strutturali, che per essere sostenuti vogliono una ripresa della lotta di classe. Da qui non si scappa. Ma il mercato globale, per arrivare al cuore del problema, non prevede nemmeno il Sindacato, o perlomeno non prevede il Sindacato che nasce per negoziare collettivamente quanto è impedito soggettivamente. Anche il Sindacato è su quel bivio tra via alta e via bassa. E l’europea “Direttiva Bolkestein” è del tutto organica alla via bassa, collocando sullo stesso piano sia la contrattazione collettiva che quella soggettiva, sia il diritto di sciopero che quello di serrata. È la direttiva che prescrive le procedure di destrutturazione delle forme di organizzazione che il movimento operaio si è dato da più di un secolo, con le lotte e con il sangue.

8. In un progetto di nuova economia il Sindacato ha un ruolo decisivo. Deve però riconoscere la cifra della propria crisi di rappresentanza, che è forte. Un dato la dichiara: se le quote di reddito da lavoro costituivano in Italia nel ‘72 il 50% circa del PIL, oggi si attestano sul 40% (e sono, questi, quattrini non evaporati, non andati certo in dissolvenza, ma trasferiti da salari e pensioni a rendite e profitti). Francia e Germania mantengono invece il rapporto al 50%. L’Inghilterra, malgrado la Tatcher abbia eroso tre punti, si attesta al 55%. Questo dato, per l’Italia, descrive appunto la crisi di un Sindacato che ha perso potere nel contrattare il valore della forza lavoro. E il dato si compone con la riflessione sin qui sviluppata: la scelta della “via bassa” che viene percorsa con il “salario povero”, e non può essere che così. Girare pagina significa produrre, insieme, l’intervento strutturale, e sulla “via alta” e sull’alto salario, perché siamo fuori dall’Europa sia sulla competitività che sulle retribuzioni. In Italia cala la professionalità nel crescere della precarizzazione. Questo è lo sbocco dello sciagurato accordo di resa del ‘93.
È in questo contesto che oggi si esercita anche la spinta tesa al superamento dei contratti collettivi nazionali di lavoro. E al superamento della giusta causa che, come sua estensione di converso, Rifondazione portò a referendum raccogliendo più di 10 milioni di consensi. Nell’insieme contratti e giusta causa vengono intesi, da Governo e Confindustria, come vincoli sociali che la libertà d’impresa non può tollerare. È questa concezione che poi origina non più la concertazione – e men che meno la cogestione che è l’ultimo dei rischi che corriamo in Italia – ma gli accordi separati; perché se anche le firme su un accordo sono considerate un vincolo, l’accordo si fa “solo con chi ci sta”. E la FIOM a un certo punto non c’è più stata, cogliendo (finalmente) il centro della contesa, il suo nocciolo: il contratto nazionale e il sindacato stesso da cancellare come soggetto autonomo di negoziazione. Oggi la FIOM, con la presa di distanza sul contratto e sulla vertenza FIAT e con gli accordi di Melfi e Fincantieri – che sono atti in controtendenza sostenuti con il conflitto e democraticamente partecipati – segna un punto forte di rovesciamento rispetto a quella cultura e a quel patto sociale che rimandano, appunto, al luglio ’93. Quel punto che poi il congresso FIOM ha ribadito – in contenuti, conflitto, democrazia – deve e può diventare linea di condotta. Il Sindacato riparta da questa assunzione. E il Partito, sostenendo il movimento operaio, sostenga parallelamente questo recupero di autonomia sindacale. Ma – lo andiamo a ripetere – solo riconoscendo lo spessore della propria crisi di rappresentanza, il sindacato può indicarne la via per uscirne, per uscirne con i lavoratori. La FIOM insomma indica un modello. Va ascoltata, e vanno agite pratiche conseguenti. Basta con la concertazione della ritirata operaia. Liberismo, tagli sociali e moderazione salariale sono un mix terribile. Se si parla di andare al Governo, i lavoratori misurano chi si propone di farlo dalla fuoriuscita o meno dal tunnel della flessibilità e della spaventosa perdita del potere di acquisto.
Tornando al sindacato, questo deve perciò tornare a negoziare: se non negozia non è sindacato. Per negoziare deve anche tornare a conoscere i processi produttivi oggi frammentati, delocalizzati, precarizzati. La Legge 30 rappresenta, particolarmente con la cessione dei rami d’impresa, la strumentazione funzionale alla massima polverizzazione di impresa. Per ricomporre quanto è stato scomposto – questo è l’obiettivo –, il sindacato deve proporre, con il contratto nazionale e almeno nelle aziende e nei cantieri dove oggi esiste una molteplicità di trattamenti a parità di mansioni, una “contrattazione locale di sito”. Possono essere altresì sperimentati, laddove il lavoro è diffuso e atomizzato, sul territorio, anche “contratti di territorio”, sostitutivi però della sola contrattazione di secondo livello, nell’assoluta intangibilità, va ribadito, del contratto collettivo na-zionale di categoria. Il contratto nazionale è, deve restare, l’espressione della solidarietà generale, e in quanto tale collide con la logica competitiva del mercato, che è il fulcro dell’ideologia dominante. Per questa ragione il contratto nazionale è sotto attacco in Italia ed in Germania, e lo sarà per lungo periodo, in quanto non siamo a un rallentamento solo ciclico dell’economia, e permanendo la crisi, quella cultura della competizione (l’ideologia dominante) può fare ulteriori danni.

9. Per difendere il contratto collettivo nazionale bisogna farlo vivere con contenuti generali, soprattutto in tema di salario, orario, sicurezza e formazione. In questo impianto le categorie debbono subito attivare una moratoria sulla Legge 30, in attesa di abrogarla: il lavoro perciò ritorni certo e non più solo precario. E ritorni a essere agitato il progetto di piena occupazione e non quello dell’occupazione possibile.
In questo impianto, a proposito di formazione si tratta di strappare accordi che, attualizzandolo, recuperino il concetto delle 150 ore, modulate territorialmente. In questo impianto infine deve trovare collocazione anche un progetto di “salario sociale”, pagato dalle aziende per i periodi di intermittenza, e anche un progetto di riforma della Cassa Integrazione, in direzione di una sua sostituzione con le riduzioni di orario. I lavoratori non vogliono la Cassa, vogliono il lavoro.
A sostegno di questo impianto devono essere avanzare proposte parallele di tutela piena del salario a fronte dell’offensiva travolgente dei prezzi: un meccanismo, perciò, di nuova scala mobile sarebbe l’elemento fortissimamente unificante del mondo del lavoro. Diciamolo senza reticenza: i lavoratori vogliono sentire questa proposta, non divagazioni culturali che non entrano nelle loro tasche dalle quali è uscito sin troppo nel silenzio di troppi. Anche così si ricostruisce un blocco sociale, recuperando le sue parti carpiteci dal populismo di Berlusconi. Infine, le lotte di Melfi e Fincantieri ci parlano di democrazia sindacale, e chiedono alle forze politiche l’approvazione di quella legge sulle rappresentanze che, fosse stata disponibile in questi ultimi anni, avrebbe impedito il riflusso degenerativo che la Legge 30 e l’attacco al sistema pensionistico oggi rappresentano. C’è anche un’autocritica che le sinistre politiche devono compiere sul “non fatto” durante tutto il Governo Prodi. Nel “non fatto” c’è la causa della sconfitta di allora.
Contratto nazionale, contratto di sito, contrattazione aziendale o di territorio, centralità del salario e sua copertura automatica, piena occupazione e lavoro certo a tempo indeterminato, salario sociale, difesa delle pensioni e democrazia sindacale, sono nell’insieme gli elementi che consentono la risalita del mondo del lavoro in una situazione economica di estrema difficoltà. Bisogna uscirne con le lavoratrici ed i lavoratori.
Consideriamo chiusa una stagione, e aperta un’altra. Il Partito viene misurato su questo: sulla sua capacità di essere progettuale sul mondo del lavoro e, sempre, dalla parte dei suoi soggetti. Sempre che si voglia tornare ad essere partito dei lavoratori.