Il mondo globalizzato

Il termine globalizzazione ricorre con grande frequenza e con una molteplicità di significati. Quando si parla di mondo globalizzato, non si intende riferirsi semplicemente al fatto che gli scambi commerciali fra paesi sono enormemente accresciuti o che i movimenti di capitali hanno subito aumenti ancor più considerevoli. Infatti, se si prendessero questi due indicatori come misura della globalizzazione, il mondo risulterebbe più o meno tanto globalizzato oggi quanto lo era un secolo fa. La novità della nostra epoca è se mai la frammentazione della produzione, e cioè il fatto che, in misura sempre maggiore, il processo produttivo che genera un qualsiasi prodotto finito appare suddiviso in fasi successive, ognuna delle quali viene svolta in un paese diverso e in luoghi geograficamente anche molto distanti l’uno dall’altro. L’organizzazione fordista, basata sulle grandi dimensioni e sulle economie della produzione su vasta scala viene sostituita dall’organizzazione parcellizzata basata su economie di localizzazione.
I progressi nella tecnica dei trasporti e delle comunicazioni sono stati imponenti ed hanno prodotto una rivoluzione nei criteri di organizzazione spaziale della produzione. In passato, i costi di trasporto imponevano all’industria di scegliere fra il collocarsi in prossimità delle materie prime (la siderurgia da rottame nelle zone industriali, la siderurgia a ciclo integrale lungo le coste e così via) o collocarsi in prossimità dei mercati. Oggi la grande industria può frammentare il ciclo produttivo in una molteplicità di fasi distinte, collocare ciascuna in un ambito geografico differente a seconda della convenienza, procedere al montaggio del prodotto finito in un luogo ancora diverso, il tutto concentrando le attività direttive (elaborazione tecnologica, progettazione, finanza, mercati) là dove l’impresa ha la sua sede centrale. Si calcola che le grandi compagnie multinazionali abbiano ormai fra il 70 e il 90% dei dipendenti fuori del paese di origine. Come è stato fatto notare, l’etichetta “made in Italy” o “made in France”, che ancora leggiamo sui prodotti, va perdendo rapidamente di significato. Gradualmente, diventa difficile considerare gli stati nazionali come entità economiche distinte, dotate di potere decisionale autonomo. Il risultato di questo insieme di cambiamenti è che il mondo che ci troviamo dinanzi è caratterizzato sempre più da frammentazione produttiva e da integrazione finanziaria.
E’ evidente d’altro canto che questa strategia complessa risulta possibile a patto di poter contare anche sulla piena libertà nei movimenti di merci e di capitali finanziari. Le grandi multinazionali, così come hanno bisogno di utilizzare la forza lavoro là dove essa costa meno, devono anche poter attingere capitali finanziari nei mercati più convenienti, senza che gli Stati risucchino la finanza disponibile per coprire il disavanzo pubblico. Per consentire alla grande impresa di mettere in atto pienamente la propria strategia mondiale occorre quindi anche portare il bilancio pubblico al pareggio e ridimensionare drasticamente la presenza dello Stato nei mercati finanziari.

La divisione internazionale del lavoro

Un aspetto positivo di questa forma di frammentazione merita di essere citato. Il trasferimento di produzioni dai paesi avanzati ai paesi in via di sviluppo è un fenomeno di lunga data e ampiamente studiato. La vecchia teoria del ciclo del prodotto aveva costruito una logica di questo processo: si riteneva infatti che, con il procedere delle conoscenze, le industrie a tecnologia consolidata venissero trasferite nei paesi di nuova industrializzazione, mentre i paesi avanzati si sarebbero dedicati a elaborare produzioni tecnologicamente d’avanguardia. Questa regola di carattere generale veniva temperata da alcuni corollari: ad esempio, si osservava che fra i paesi in via di sviluppo venivano preferiti quelli a reddito più elevato, tali cioè da offrire non soltanto vantaggi di costo ma anche un mercato locale. Mentre tutto questo rimane vero, il nuovo assetto globalizzato presenta qualcosa di più. Affinché un paese venga preso in considerazione per un nuovo insediamento industriale, non occorre che esso presenti vantaggi comparativi per l’intero processo produttivo: è sufficiente che risulti conveniente installarvi la produzione di un singolo pezzo o il trasferimento di una fase specifica della produzione. In questa nuova situazione, la capacità organizzativa richiesta diventa molto minore, così come perde valore l’ampiezza del mercato interno che quel paese può offrire; restano elemento determinante i soli costi di produzione.

Il progresso nelle comunicazioni merita di essere ricordato in modo particolare. E’ infatti ad esso che si deve se la frammentazione verticale e il decentramento crescente si estendono oggi non soltanto alle fasi della lavorazione materiale del prodotto ma anche ai servizi alla produzione. Basterà ricordare un esempio che viene spesso citato: banche e istituti finanziari che emettono carte di credito devono affrontare un cospicuo lavoro quotidiano di immissione di dati, dal momento che ogni transazione deve essere correttamente addebitata al compratore, accreditata al venditore in modo che i saldi dei conti rispettivi siano regolarmente aggiornati. Tale lavoro viene eseguito in luoghi lontani dai paesi dove gli istituti hanno sede (un paese tipico è il Messico) e i dati vengono trasmessi alle sedi centrali per via telematica, per essere poi inoltrati ai clienti.
Ogni zona del mondo si trova oggi legata alle altre non soltanto da rapporti commerciali ma anche per il fatto di appartenere ad una medesima catena produttiva e di ospitare produzioni che il più delle volte fanno capo alla medesima proprietà finanziaria e rispondono alla stessa direzione strategica. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Allorché l’industria tedesca cominciò a decentrare la produzione di macchine fotografiche, venne trasferita in Giappone la realizzazione di tutte le parti meccaniche mentre le lenti restavano alla famosa storica ditta Zeiss: l’industria tedesca provvedeva poi al montaggio dell’apparecchio completo (oggi pare che la giapponese Yashica abbia cominciato a produrre anche le lenti che, sebbene prodotte in Giappone, vengono commercializzate come lenti Zeiss). L’industria italiana è stata altrettanto rapida nell’adeguarsi alle occasioni del mercato. Caduto il muro di Berlino, una volta constatato che i paesi del blocco sovietico erano divenuti pienamente accessibili e disponevano di una forza lavoro di buona preparazione e di miti pretese, ha avuto inizio il decentramento della produzione. Si calcola che attualmente oltre la metà dei prodotti tessili importati e tre quarti delle confezioni importate provengano dai paesi dell’Est europeo.
E’ evidente d’altro canto che la situazione inversa vale per l’industria dei paesi avanzati. Lo stesso processo di frammentazione che ha portato a trapiantare iniziative produttive nei paesi emergenti, espone l’industria dei paesi di più antica industrializzazione alla concorrenza proveniente dai nuovi paesi industriali; questi hanno ereditato tecnologie affermate, utilizzano mano d’opera a costi enormemente inferiori, e quindi, sul piano dei prezzi, possono muovere una concorrenza spietata. Nella riorganizzazione dell’industria mondiale, la mente direttiva resta saldamente affidata alle grandi imprese multinazionali, le quali controllano e coordinano una miriade di centri produttivi disseminati in tutto il mondo. Rimane il dubbio di fondo: e cioè se in tutta questa rivoluzione, stiamo davvero assistendo ad un aumento globale della produzione o soltanto ad uno spostamento dei luoghi di produzione da un punto all’altro del pianeta.

Il potere della grande impresa

Il risultato di queste trasformazioni va ben al di là di una semplice ristrutturazione tecnica e produce una autentica modificazione nei rapporti di potere. Cresce la frammentazione della classe lavoratrice, che perde inesorabilmente forza organizzativa e rivendicativa. Si rafforza invece il potere della grande impresa, e non soltanto nei confronti del sindacato ma anche e soprattutto nei confronti del potere politico. Nasce quello che Rowthorn ha definito “il trionfo del mercato sullo Stato”.

La grande impresa dispone di una ben nota capacità di ricatto: se le sue richieste vengono respinte, è sempre possibile dichiarare lo stato di crisi e minacciare una ventata di licenziamenti. In passato l’arma della serrata veniva utilizzata nei confronti del sindacato: oggi la libertà nei movimenti di capitale permette di far balenare la minaccia anche più radicale di trasferire all’estero l’intero l’intera attività. Minacce simili vengono utilizzate direttamente nei confronti delle autorità di governo, al fine di ottenere i sussidi necessari e comunque la linea di politica economica più confacente alla formazione del profitto.
Analogamente è la piena libertà dei movimenti di capitali a permettere l’azione autonoma (o apparentemente autonoma) degli speculatori di borsa. Se la grande impresa si dichiara in difficoltà e chiede un aiuto governativo, gli speculatori reagiscono senza esitare: il corso dei titoli di quell’impresa crolla e possono verificarsi fughe di capitali verso l’estero. E’ dunque opportuno che i profitti dell’impresa siano tutelati. Come che sia, l’integrazione mondiale dei mercati finanziari costringe i singoli governi nazionali a far sì che il rendimento dei titoli nel mercato nazionale non si discosti troppo dal rendimento in altri mercati: se così non fosse, i capitali speculativi sarebbero pronti ad abbandonare il paese. Ciò significa che i tassi di interesse vanno adeguati ai livelli vigenti nelle grandi piazze finanziarie. I singoli paesi hanno dunque perso la possibilità di condurre una politica monetaria autonoma e di utilizzare, ad esempio, un ribasso del tasso di interesse per stimolare gli investimenti. Questo è il così detto, e temuto, “giudizio dei mercati finanziari”, che tante volte viene impiegato come arma per chiedere politiche di rigore finanziario (anche di recente ha fatto uso di questo argomento Romano Prodi, quando nel corso dell’estate si è ventilata la possibilità di rivedere il Patto europeo di stabilità).
Il potere dell’impresa viene fatto consolidato nell’opinione pubblica grazie ad una accurata campagna di persuasione. Si diffonde così l’idea che l’intervento pubblico, in qualsiasi forma, risponda unicamente a interessi di parte ma, essendo di per sé antieconomico e dissipatore di ricchezze, si ritorca contro la collettività in generale. In tal modo, il cittadino assiste con favore alla soppressione della programmazione economica, alla scomparsa dell’impresa pubblica, alla piena libertà di azione concessa all’impresa privata in nome della sbandierata politica di “deregulation”. Sembra quasi che anche il cittadino più consapevole e politicamente sensibile stenti ad accorgersi che la soppressione di ogni regola equivale a una delega in bianco concessa al privato per prendere decisioni che investono la struttura produttiva, e quindi anche sociale, del paese.
Più stupefacente è che altrettanto favore accompagni la riduzione della presenza pubblica anche dei settori più delicati, quali l’istruzione, la sanità, i trasporti. Viene così dimenticata l’idea stessa che esiste un nucleo di beni essenziali che, per elementari esigenze di eguaglianza, non possono essere messi a disposizione di quei soli consumatori che sono in grado di acquistarli a prezzi di mercato, ma devono essere assicurati in misura uguale a tutti i cittadini. Persino gli economisti di mestiere, dimenticano che in questi settori (si pensi alla scuola o agli ospedali) il cittadino, fino ai limiti del suo reddito, è disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di procurarsi i beni di cui avverte il bisogno: e che la presenza di quella che in termini tecnici viene della “domanda inelastica”, favorisce la formazione di posizioni monopolistiche e di profitti elevati.
Come riconoscono autorevoli sociologi, il potere crescente del privato rispetto al pubblico conduce a formare una sorta di élite privilegiata, in grado di decidere dei propri profitti e dei destini della classe lavoratrice: assetto questo che ci allontana sempre più dall’ideale di una società democratica.
In realtà, l’ideologia della privatizzazione non è del tutto cristallina né del tutto in buona fede. Quando si tratta di distruggere l’intervento pubblico di carattere sociale e tendenzialmente egualitario, sentiamo tuonare i difensori del libero mercato; ma quando si tratta di difendere i profitti di un’impresa che si dichiara in difficoltà, tutti concordano nel ritenere doverosa l’azione pubblica che conceda sussidi, o sgravi fiscali, o altre forme di aiuto. Proprio il nostro paese ne ha avuto una recentissima conferma. Quando, nell’ormai lontano 1986, l’Alfa Romeo venne ceduta dall’Iri alla Fiat a condizioni che lo stesso Romiti dichiarò “altamente ragionevoli”, tutti giudicarono positivamente il fatto che lo Stato uscisse finalmente dalla produzione delle automobili; ma quando, pochi mesi or sono, la Fiat rasentò lo stato di crisi e invocò l’aiuto pubblico sotto forma di sussidi alla rottamazione, nessuno trovò nulla da eccepire su un sussidio pubblico elargito ad un’impresa privata.
In questa ristrutturazione economica e commerciale sono state coinvolte anche le economie dell’Est europeo nella loro transizione da economie socialiste a economie di mercato. Prima del crollo dell’Unione sovietica, nel blocco sovietico dominavano i flussi commerciali interni. Con la frammentazione dell’ex-Unione sovietica, il commercio estero ha subito una graduale ma persistente modificazione sia nelle importazioni che nelle esportazioni: il commercio reciproco è crollato per dare luogo a scambi sempre più intensi con i paesi europei. Sul piano della qualità dei prodotti, si va determinando una divisione del lavoro che vede trasferire nelle antiche economie socialiste prodotti tradizionali e segmenti meno avanzati della produzione. In questa partecipazione agli scambi, primeggia la Germania che sta occupando la parte maggiore dei nuovi rapporti produttivi e commerciali. Si calcola che Repubblica ceka, Ungheria, e Polonia (i paesi più intensamente investiti dal cambiamento) collochino ormai in Germania intorno al 30% delle proprie esportazioni, mentre acquistano dalla Germania fra il 25 e il 30% delle proprie importazioni (Kierzowski, 2000, p. 18).

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, unita alla riunificazione della Germania, ha dunque consentito la formazione di un’area di influenza germanica che si estende ormai dal Baltico all’Adriatico e tende a muovere le sue propaggini ulteriormente verso i Balcani. Il nuovo assetto ha radicalmente modificato l’equilibrio del continente europeo. Mentre in passato, nonostante il peso crescente della Germania, il baricentro della Comunità europea gravitava intorno alla Francia, oggi, con la Gran Bretagna tendenzialmente sempre meno coinvolta nelle sorti dell’Europa, il cuore politico ed economico dell’Europa tende a coincidere con la Germania. Dove verranno fissati i confini della zona d’influenza germanica è cosa ancora incerta e dipenderà dalla piega che prenderanno le faticose trattative per l’ampliamento dell’Unione Europea.

Il mito della convergenza

I rivolgimenti produttivi e commerciali prodotti dalla globalizzazione sono dunque considerevoli. Gli apologeti del nuovo ordine produttivo esprimono su queste trasformazioni un giudizio pienamente favorevole. Tale atteggiamento si basa sul principio, in sé meramente astratto, che ogni trasformazione prodotta dal meccanismo spontaneo del mercato non può che essere benefica per tutti i soggetti interessati. In questa illusione, si è spesso sostenuto che la globalizzazione, in quanto prodotta dall’agire spontaneo dell’impresa privata alla ricerca del profitto e in quanto fonte di diffusione di nuove produzioni dai paesi avanzati verso paesi nuovi, debba anche accompagnarsi ad un livellamento dei redditi e del benessere fra diversi paesi. Purtroppo, l’esperienza mostra che questo preteso processo di convergenza, se inteso come regola generale, fino a questo momento non ha avuto luogo. Vi sono, come è noto, eccezioni notevoli: il Giappone, che ha raggiunto il reddito per abitante della Svizzera, o l’Irlanda che ha recuperato il ritardo rispetto agli altri paesi europei. Ma, specialmente negli anni più recenti, la generalità delle disuguaglianze si è ampliata, al punto che vi sono studiosi che, nel descrivere il nuovo assetto dell’economia mondiale, hanno parlato di “globalizzazione della povertà” (Chossudovsky).
Per quanto possa apparire paradossale, anche il progresso tecnologico può contribuire ad accrescere le distanze. Nell’era in cui le informazioni e le comunicazioni circolano attraverso la rete internet e una massa crescente di notizie è accessibile soltanto attraverso i canali telematici, il solo fatto di non possedere un computer dà luogo a un isolamento crescente: qualcosa di simile a quanto poteva accadere in passato a chi non era in grado di leggere i giornali o di intrattenere una corrispondenza.
Crescono le disuguaglianze fra paesi, ma crescono anche le disuguaglianze personali all’interno di ogni paese. Alcuni hanno espresso l’ipotesi che nei paesi più avanzati, o almeno in alcuni di essi, le disuguaglianze personali possano essersi ridotte; ma nella generalità dei casi, esse si sono accresciute. Nei paesi in via di sviluppo, lo sfruttamento del lavoro minorile cresce di pari passo con lo sviluppo delle produzioni industriali. In Italia, dopo l’abolizione della scala mobile avvenuta nel 1992, si sono accresciute le distanze fra redditi da lavoro e redditi di impresa.
In questa epoca di grandi migrazioni, le differenze di reddito tendono a coincidere con differenze di etnie. La corrispondenza fra divario etnico e divario economico è sempre esistita in molti paesi; ma oggi, nei paesi avanzati, il più delle volte coloro che appartengono a un’etnia diversa e che sono oggetto di sguardi diffidenti, se non ostili, sono gli immigrati. L’atteggiamento negativo nei confronti dell’immigrazione è stata denominato da Alessandro Pizzorno “ideologia localistica”, o nei casi più esasperati “ideologia fondamentalistica”. Si tratta di un’ideologia pervasa da profonda ambiguità. Da un lato l’immigrato viene utilizzato come mano d’opera a basso costo: l’immigrazione viene infatti auspicata e non mancano imprenditori pronti ad affermare che un arresto dell’immigrazione significherebbe blocco dello sviluppo produttivo. D’altro canto, il regime di regolarizzazione dell’immigrato viene reso sempre più difficile, quasi lo scopo non dichiarato fosse quello di tenere l’immigrato costantemente sospeso fra l’accoglienza e l’espulsione; situazione questa che rende ovviamente più facile lo sfruttamento. La così detta ideologia localistica, più che essere una mera ideologia, rivela dunque la sua natura di manovra astutamente interessata.

Le deformazioni del capitale finanziario

L’assetto delle grande imprese multinazionali spinge al più alto grado la separazione fra proprietà finanziaria e direzione tecnica dell’impresa. Sempre più il così detto imprenditore è un mero capitalista finanziario, non soltanto scarsamente interessato ma anche il più delle volte tecnicamente incapace di giudicare i risultati e le prospettive economiche delle tante imprese che ricadono sotto il suo controllo. Il suo unico metro di giudizio è quello del rendimento finanziario immediato ed è questo a guidare le sue decisioni. Come è noto il controllo di un’impresa, lungi dal richiedere la proprietà completa, viene esercitato attraverso il possesso della semplice maggioranza del capitale azionario; e, tenendo conto del fatto che molti azionisti sono poco informati o poco attenti e comunque non coalizzati in occasione delle assemblee societarie, il più delle volte il controllo può essere esercitato comodamente anche attraverso il possesso di una quota minoritaria del capitale azionario. A sua volta, il possesso, anche minoritario, del capitale di un’impresa porta al controllo delle imprese che questa controlla, magari anch’essa attraverso una partecipazione minoritaria. In tal modo, grazie a quello che è stato chiamato il gioco delle scatole cinesi, è possibile controllare un’impresa possedendone anche il solo 1% del capitale azionario.
Questa possibilità apre la strada a deformazioni profonde nel funzionamento del mercato. La prima è che il bravo capitalista moderno non ha più alcuna ragione di acquistare e gestire per intero singole imprese produttive: assai meglio acquistare partecipazioni di controllo in imprese che a loro volta ne possiedono altre, e assicurarsi in tal modo, con poca spesa, il controllo di interi gruppi. Il capitalista moderno non è più un imprenditore, ma un finanziere, che lascia la gestione dell’attività produttiva a ingegneri, tecnici o amministratori assunti come lavoratori dipendenti. La trasformazione del capitalista da imprenditore a finanziere concreta il così detto fenomeno della finanziarizzazione dell’economia moderna.
In altri tempi, quando l’imprenditore era anche proprietario dell’impresa, era interesse personale dell’imprenditore lavorare per la prosperità e lo sviluppo dell’impresa; ciò dava una garanzia ai soci di minoranza nonché ai lavoratori occupati. Ma se, come accade oggi con il capitalismo di avventura, il controllo dell’impresa spetta a un finanziere che dell’impresa possiede soltanto una minoranza esigua, il suo interesse non è più quello di far prosperare l’impresa ma quello di trarre nel più breve tempo possibile il massimo utile dalla sua partecipazione personale. Scompare la strategia di paziente costruzione dell’impresa nell’arco di un lungo periodo di tempo, sostituita dalla tipica miopia del finanziere che si muove in un orizzonte temporale ristretto.
Fin qui siamo nel campo delle attività lecite. Una seconda deformazione ci porta ai confini dell’illecito. Ad esempio: se un imprenditore è proprietario di un’impresa per intero, nascondere gli utili porta un solo vantaggio, che è quello di non pagare le imposte dovute; ma se chi amministra l’impresa la possiede soltanto per una piccola percentuale, nascondere gli utili significa anche appropriarsi di ricchezze ai danni degli altri soci. Una volta spogliati i soci privi di controllo e impoverita l’impresa, la soluzione più conveniente è quella di farla fallire, licenziare i dipendenti, disfarsi di un cespite che ormai ha fruttato quanto poteva fruttare e passare ad altre avventure.
Una terza deformazione è una sorta di miccia che propaga la crisi da una singola impresa all’intera economia del paese. L’investimento finanziario, accoppiato alla possibilità, conferita dal liberismo illimitato ormai dominante, di trasferire capitali da una piazza all’altra, è fonte di turbolenze finanziarie crescenti. Se un gruppo di capitalisti, dopo aver sfruttato un qualsiasi investimento, decidono di trasferire i loro capitali d’avventura in altri paesi, questa decisione può provocare una caduta nel corso della valuta nazionale. A questo punto il fenomeno diventa contagioso e l’uno dopo l’altro tutti i grandi capitalisti cercheranno di liquidare i loro investimenti in quel paese per trasferirsi altrove. Quella che era cominciata come una manovra spregiudicata da parte di gruppo isolato può trasformarsi in una crisi nazionale.
Non dimentichiamo che, in un passato non molto lontano, furono proprio circostanze di questo genere a scatenare la crisi asiatica. I paesi più prosperosi dell’Asia sud-orientale (Tailandia, Malaysia, Filippine, Indonesia, Corea), volendo incoraggiare le importazioni di capitali, avevano legato la moneta nazionale al dollaro statunitense. Con il rialzo del corso del dollaro dopo il 1995, gli stessi paesi incontrarono difficoltà crescenti nelle proprie esportazioni. Il Fondo Monetario Internazionale, prontamente intervenuto, consigliò la piena liberalizzazione del mercato dei cambi. Ne derivò il crollo delle valute nazionali, seguito da fughe di capitali torrentizie e da una catena di fallimenti che decretò la crisi generale dell’economia. Le stesse turbolenze finanziarie potrebbero ritorcersi oggi contro gli Stati Uniti. Per molti anni, il disavanzo nella bilancia commerciale statunitense è stato compensato da un avanzo nei di capitali, dal momento che le piazze finanziarie americane apparivano più attraenti di quelle europee. Gli scandali, le bancarotte finanziarie che si sono scatenate, e le dichiarazioni militariste del Presidente Bush, hanno scoraggiato gli investitori e oggi gli Stati Uniti non vedono più affluire capitali finanziari nella stessa misura del 2001. Nei primi otto mesi del 2002, il dollaro si è svalutato di circa il 10% rispetto all’euro e di oltre l’11% rispetto allo yen. Qualche commentatore comincia a prevedere anche per il dollaro serie difficoltà.

Gli anni avvenire ci diranno se si tratta di problemi strutturali di lungo periodo, oppure se, superate queste incertezze momentanee, l’assetto del capitalismo di oggi si consoliderà sotto il dominio incontrastato di una sola grande potenza.

Autori citati

Chossudovsky M., Globalization of Poverty, Londra, Zed Books, 1998.

Kierzowski H., “Challenges of Globalization”, in Russian and European Finance and Trade, vol. 36, n. 2, marzo-aprile 2000.

Pizzorno A., “Natura della disuguaglianza, potere politico e potere privato nella società in via di globalizzazione”, Stato e mercato, agosto 2001.

Prodi R., La Repubblica, 15 agosto 2002, p. 10.

Rowthorn R., Kozul-Wright R., “Globalization and the Myth of Economic Convergence”, Economie Appliquée, 2002, n. 2.