Il messaggio che viene da Durban

Il Congresso mondiale contro il razzismo che si è tenuto a Durban nel settembre 2001 è stato un avvenimento di grande importanza per le prospettive che apre. A Durban si è sentito soffiare il vento rinnovato della solidarietà dei popoli afro-asiatici. La ricostruzione di questa solidarietà costituisce una delle condizioni essenziali – forse la principale– per costruire un sistema mondiale più giusto di quello che il G7 ed il suo padrone americano vogliono imporre ai popoli del pianeta con ogni mezzo, incluso i più violenti.

Nel corso degli anni novanta, le Nazioni Unite avevano preso l’iniziativa di una serie di conferenze mondiali per affrontare qualcuno dei grandi problemi della nostra epoca (tra i quali la “povertà”, la demografia, l’infanzia, le donne, l’ambiente), inaugurando un metodo nuovo che consentisse la convocazione simultanea di una conferenza ufficiale (dei governi) e di una conferenza collaterale dei rappresentanti della “società civile”. L’assieme dei poteri dominanti – soprattutto quelli degli Stati Uniti e quello della Banca Mondiale (operante come una sorta di Ministero della propaganda dei G7) – uniti alla burocrazia delle Nazioni Unite, erano riusciti a controllare, tramite i finanziamenti elargiti, o viceversa negati, le rappresentanze di questa “società civile”, le ONG (Organizzazioni non governative), in ispecie quelle di diretta emanazione dei paesi ricchi. Non è stato poi molto difficile manipolare le ONG più candide e ingenue – è il meno che si possa dire – convincendo la maggioranza di esse a sostenere le proposte del sistema dominante che annullava di fatto la portata delle proteste e delle rivendicazioni dei popoli che queste sedicenti ONG dovrebbero rappresentare.

La Conferenza di Durban, ultima del ciclo, era stata concepita nella stessa maniera. La protesta contro il razzismo e tutte le altre forme di discriminazione erano state pensate ed elaborate in modo che diventassero una vaga espressione anodina: tutti i partecipanti, governi ed ONG, erano invitati a recitare dei mea culpa ed a mostrarsi dispiaciuti per il persistere di “residui” discriminatori di cui sono vittime i “popoli indigeni” e le “razze non caucasiche” (così definite nel linguaggio ufficiale degli Stati Uniti), le donne, le “minoranze sessuali”. Raccomandazioni a minimizzare erano state accompagnate dal suggerimento di ispirarsi alla dottrina giuridica nordamericana basata sul principio che è sufficiente prendere misure legislative per risolvere i problemi. Le cause essenziali delle discriminazioni maggiori, prodotte direttamente dalle ineguaglianze sociali e internazionali e generate dalla logica del capitalismo liberale mondializzato, erano state cancellate dal progetto iniziale.

Questa strategia di Washington e dei suoi compari è stata sconfitta dalla partecipazione massiccia delle organizzazioni africane ed asiatiche decise invece a porre in discussione i veri problemi. La questione del razzismo e delle discriminazioni non poteva essere ridotta a sinonimo della somma dei comportamenti condannabili verso le povere vittime di pregiudizi “superati”, ancorché ben presenti in tutte le società del pianeta, sviluppate e non. Il razzismo e la discriminazione sono, al contrario, generati, prodotti e riprodotti dalla logica espansionistica del capitalismo realmente esistente, particolarmente nella sua forma definita liberale. Le forme della “mondializzazione” (“globalizzazione”) imposta dal capitale dominante e dai suoi servitori (i governi della Triade in primo luogo) non possono produrre altro che un “apartheid di dimensione mondiale”. Ho fin qui riassunto la linea strategica dominante che è stata adottata dalle organizzazioni africane e asiatiche presenti a Durban.

Avendo avvertito questo pericolo, nel corso degli animati dibattiti del comitato preparatorio, i governi del G7 avevano perciò già deciso di boicottare la conferenza e di preannunciare in anticipo il suo fallimento.

Gli africani e gli asiatici hanno tenuto duro. Coerenti con la strategia che avevano adottate, hanno imposto la discussione su due questioni di cui i diplomatici occidentali non volevano nemmeno sentire parlare.

La prima riguardava la questione cosiddetta delle “riparazioni” a titolo di risarcimento per danni devastanti conseguenti alla tratta degli schiavi. Ho usato le virgolette poiché su questo tema delle “riparazioni” i dossier sono stati presentati in modo che scoppiasse clamorosamente la contraddizione ed emergesse il fossato enorme che separava gli uni dagli altri. Un vero e proprio lavoro da talpa era stato svolto dai diplomatici americani ed europei per ridurre la questione delle “riparazioni” ad una semplice questione di “vile denaro”, cioè, a quanto poteva ammontare la somma riparatoria reclamata da questi “mendicanti professionali”, come sono abitualmente considerati i governi del Terzo Mondo. Ma gli africani non intendevano assolutamente questo. Non si trattava affatto di denaro ma del riconoscimento di fatto che il colonialismo, l’imperialismo e la schiavitù, associati alla lunga storia delle devastazioni materiali e morali compiute in Africa dagli imperi occidentali, sono largamente responsabili del “sottosviluppo” del continente e del razzismo. Questi sono stati gli argomenti che hanno fatto infuriare i rappresentanti delle potenze occidentali.

La seconda questione concerne gli atteggiamenti assunti dallo Stato di Israele. Africani ed asiatici sono stati estremamente chiari e precisi su questo punto. Il proseguimento della colonizzazione israeliana dei territori occupati, l’espropriazione forzata dei palestinesi a vantaggio dei coloni (“una indiscutibile pulizia etnica”), il programma di “bantutizzazione” della Palestina (la strategia di Israele è in questo caso direttamente ispirata fin nei dettagli dai metodi del defunto apartheid in Sudafrica), non è altro che l’ultimo capitolo di questa lunga storia dell’imperialismo ferocemente razzista.

Il segnale del sabotaggio è partito dai padroni americani e dal loro fedele alleato israeliano con il ritiro di entrambi dalla conferenza. Gli europei, rappresentati ormai ad un livello molto basso dalle loro gerarchie politiche, sono invece rimasti, come sappiamo, esercitando tutte le pressioni possibili per tentare di ottenere consensi alle loro pretese, almeno tra i rappresentanti considerati tra i più vulnerabili, senza lesinare sul prezzo (“quanto volete?”. Questo tentativo è stato denunciato da parecchie persone contattate con quello scopo).

Questi metodi hanno sortito qualche risultato a livello della conferenza ufficiale e le risoluzioni approvate a maggioranza hanno in qualche modo attenuato le proposte più avanzate fatte dagli africani e dagli asiatici. Ma resta il fatto – ed è per questo che la conferenza di Durban costituisce una vittoria – che i governi asiatici e africani non hanno potuto restare insensibili alle opinioni che essi sanno essere di gran lunga prevalenti tra i loro popoli, e nemmeno nascondere l’irritazione di fronte all’arroganza delle diplomazie occidentali.

Il vento di Bandung si sta nuovamente levando. La conferenza di Bundung (1955), momento fondatore della solidarietà afro-asiatica e del Movimento dei Paesi Non Allineati (oggi non allineati alla mondializzazione liberale), aveva inaugurato un primo ciclo di liberazioni nazionali che hanno avviato la trasformazione del mondo.
Qualunque siano stati i limiti del sistema usciti da quei primi tentativi di liberazione dei popoli vittime dell’imperialismo, e per quante illusioni esse abbiano potuto creare (cosa del tutto normale nei lunghi processi storici), è stato il loro esaurirsi che ha permesso la controffensiva del capitale dominante e il dispiegarsi della nuova mondializzazione imperialista. La condizione per una seconda ondata di nuove liberazioni, sebbene ancora lontana, sta comunque maturando a vista d’occhio. Durban ne è stata la prova evidente. Domani nel WTO, postdomani altrove, potremo assistere a questa presa di coscienza.

Ed è proprio perché Durban è una vittoria dei popoli che l’apparato di propaganda dei G7 si affanna a denigrarne la portata. Ed è fortemente riprovevole che i maggiori media non se ne siano accorti. Ed è ancora più riprovevole che essi abbiano ingigantito ciò che gli Stati Uniti e Israele hanno tentato di far credere. Si tratta, nel migliore dei casi, di articoli scritti da persone disinformate che non erano presenti a Durban, in molti altri casi di menzogne pure e semplici: nessuno dei testi discussi a Durban tradisce la benché minima tentazione dell’antisemitismo. Sarebbe finalmente ora di opporsi a questo ricatto permanente che paralizza la critica più che mai necessaria dello Stato di Israele.

Con Seattle, Nizza, Goteborg, Genova, Porto Alegre, Durban costituisce un anello della catena degli avvenimenti positivi importanti della nostra epoca. E’ dunque tempo che tutti coloro che, a giusto titolo, condannano la strategia neoliberale mondializzata del capitale dominante, comprendano che la loro lotta è comune, e che quella dei popoli del Sud contro l’imperialismo e l’egemonismo degli Stati Uniti non è meno importante di quella dei soggetti deboli e sfruttati che, negli stessi paesi capitalistici sviluppati, insorgono contro l’ingiustizia. Dopo gli attacchi contro gli obbiettivi simbolici rappresentati dal centro finanziario di New York e dal Pentagono è tempo di comprendere che non si può formare un fronte unico contro il terrorismo senza prima formare un fronte unico contro l’ingiustizia internazionale e sociale.

Traduzione di Sergio Ricaldone