La nuova edizione, per la prima volta integrale, degli Scritti su Gramsci di Palmiro Togliatti, curata da Guido Liguori e pubblicata dagli Editori Riuniti, cade in un momento di generale silenzio della cultura di sinistra italiana sull’opera e il pensiero togliattiani. Ad una fase, iniziata nei primi anni ’80 e durata più di un decennio, caratterizzata da duri e spesso denigratori attacchi nei confronti dell’azione politica e dell’elaborazione teorica del grande dirigente comunista, condotti da più parti e con motivazioni diverse, ma tutti volti a gettare discredito e a liquidare insieme con Togliatti, l’intera vicenda del movimento comunista internazionale, è infatti seguito un periodo, che arriva fino ai nostri giorni, nel corso del quale il contributo teorico e pratico del massimo teorico e stratega della “via italiana al socialismo” sembra completamente dimenticato, perfino da parte di coloro che impegnati in un’ardua e complessa operazione di rifondazione di un pensiero e di una pratica comunisti, dovrebbero sentisersene i naturali eredi. Le ragioni di tale perdurante silenzio sono ovviamente molteplici e complesse; e tuttavia esse possono essere in qualche modo ricondotte ad un giudizio, purtroppo fatto proprio qualche volta anche da alcuni settori della sinistra cosiddetta “antagonista” sia italiana che europea, banalmente liquidatorio nei confronti di una vicenda storica, quella della III Internazionale e del movimento operaio e comunista mondiale, all’interno del cui orizzonte si collocano organicamente la riflessione e l’opera di direzione politica togliattiane lungo l’intero arco del loro svolgimento. La vera e propria operazione di rimozione che di tale vicenda è stata compiuta, anche per opera di tanti intellettuali e dirigenti politici di sinistra, soprattutto a partire dal tragico crollo dell’Urss e dalla grave crisi delle forze comuniste nel mondo, che ne è seguita, ha finito per investire e trascinare con sé lo stesso lascito togliattiano, proprio in ragione del suo profondo ed intimo legame con il movimento storico che prese le mosse dal leninismo e dalla Rivoluzione d’ottobre.
Crediamo che sarebbe del tutto sbagliata una critica a questa operazione, che mirasse a recidere questo legame, a presentarci un Togliatti “socialdemocratico”, in rotta con il leninismo e con il cosiddetto “stalinismo”, in modo analogo a quanto è stato fatto per Gramsci, soprattutto in questi ultimi anni di predominante egemonia liberale. Proprio, infatti, dalla lettura degli scritti gramsciani di Togliatti, senz’altro da annoverare tra i più importanti contributi teorici togliattiani allo sviluppo e all’approfondimento della teoria marxista, il rapporto con il leninismo, emerge, infatti, in un modo che non potrebbe essere più chiaro e netto, come un tratto essenziale dell’elaborazione togliattiana. Un tratto che viene via via definendosi, sin dai primi scritti dedicati al pensatore sardo degli anni 20 e 30 fino ai grandi lavori su Gramsci successivi alla svolta del ’56, proprio attraverso una riflessione sui caratteri più innovativi e originali dell’opera politica e del lavoro teorico dell’autore dei Quaderni. Già nel grande lavoro del ’37 intitolato Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana, pur nell’ambito di una ricostruzione tesa a evidenziare i tratti nazionali, italiani della formazione e dell’opera gramsciani, Togliatti insisteva fortemente sull’enorme importanza che nella fase della compiuta maturazione del pensiero di Gramsci avevano avuto l’approfondimento e lo studio rigoroso dell’opera di Lenin, particolarmente nel periodo della permanenza del dirigente sardo in Unione Sovietica, nel corso della quale, proprio assimilando e sviluppando creativamente l’esperienza bolscevica, Gramsci pervenne a defininire, in tutta la sua compiutezza e ricchezza dialettica, una teoria del partito comunista di massa e della sua complessa funzione egemonica nel processo rivoluzionario. “ La permanenza di un anno nell’Unione Sovietica, nel 1922-23, scriveva Togliatti, permise a Gramsci di perfezionare la sua conoscenza del bolscevismo. Allora egli studiò a fondo la storia del partito bolscevico e delle rivoluzione russa, imparò a conoscere Lenin e Stalin, alla scuola del partito bolscevico e dell’Internazionale comunista si temprò come capo di partito. E a lui la classe operaia italiana deve la creazione del suo partito, del Partito comunista non come una setta di dottrinari pretenziosi, ma come una parte, l’avanguardia, della classe operaia, come un partito di massa, legato con tutta la classe, capace di sentirne e interpretarne i bisogni, capace di dirigerla nelle situazioni politiche più complicate. E’ Gramsci che ci ha fatto fare, su questa via, i primi passi decisivi”(p.81). Dove l’evidente sopravvalutazione del rilievo dell’insegnamento teorico e pratico di Stalin nello sviluppo del pensiero di Gramsci, non inficia minimamente l’esattezza della indicazione togliattiana relativamente all’ispirazione bolscevica del lavoro, che vide Gramsci impegnato alla metà degli anni ’20, di costruzione di un nuovo partito comunista. Ed è proprio attorno alla figura di Gramsci costruttore e dirigente politico del partito comunista di massa che Togliatti ritorna in tutti i suoi scritti, costruendo, precisamente a partire da essa, gli elementi fondamentali di una lettura leninista di Gramsci, nel corso della quale il leninismo, inteso soprattutto come teoria del primato della politica nell’epoca dell’imperialismo e delle rivoluzioni operaie, sembra emergere, più ancora forse della comune formazione giovanile storicistica ed idealistica, tra i principali elementi di continuità tra il pensiero di Gramsci e quello di Togliatti. Perciò in perfetta continuità e coerenza con l’indicazione dello scritto del ’37, intervenendo al convegno gramsciano del ’58, Togliatti poteva ribadire, come “la creazione del partito della classe operaia” fosse stata per Gramsci, “non azione secondaria o parallela, ma il culmine di tutta la sua vita intellettuale e di tutta la sua azione”(p.262). Nell’opera, insieme politica e teorica, di costruzione dell’avanguardia del proletariato, di quell’organismo politico collettivo che in carcere Gramsci definirà come il “moderno Principe”, andava, allora, ricercato, di contro ad ogni lettura spontaneista o “consiliarista” del pensiero gramsciano, l’elemento unificante, il senso stesso di una riflessione che si caratterizzava per la sua enorme ricchezza e complessità. Una interpretazione di Gramsci, quindi, quella che ci consegna Togliatti, fortemente unitaria ed organica, ma tutt’altro che dogmatica o scolastica. La centralità della tematica del partito, nella riflessione gramsciana, non aveva infatti nulla a che fare con una visione chiusa, settaria del processo di transizione al socialismo; essa, al contrario, scaturiva, in Gramsci, dallo sviluppo originale di due tra i più innovativi momenti dell’insegnamento teorico leniniano, e cioè 1) la critica radicale compiuta dal rivoluzionario russo a quella interpretazione economicistica e deterministica della teoria di Marx ed Engels, che aveva dominato gli anni della II Internazionale e che finendo per ridurre ad il marxismo una vuota scolastica, non era stata in grado di fornire al movimento operaio una concreta e rigorosa teoria politica rivoluzionaria; 2) l’analisi concreta dei nuovi caratteri reazionari assunti dal dominio capitalistico, nell’epoca dell’imperialismo, e in particolare, di quel nuovo intreccio, che, a seguito dei processi di compenetrazione tra grandi monopoli economico-finanziari e gigantesche e oppressive macchine statali, si era venuto a determinare nell’Europa a cavallo tra otto e novecento tra economia e politica, tra struttura e sovrastruttura, rendendo molto più complessa e articolata l’organizzazione complessiva del dominio capitalistico, sia su scala mondiale che nell’ambito dei singoli contesti nazionali. Si trattava di due momenti strettamente intrecciati: la critica teorica leniniana delle categorie del vecchio “marxismo” economicista della II Internazionale ne svelava infatti tutta la loro inadeguatezza a comprendere le sconvolgenti trasformazioni del periodo imperialistico e, in particolare, il nuovo, più complesso quadro di contraddizioni, sia politiche che economiche che ne discendeva, caratterizzato non soltanto dal conflitto, violentissimo e destinato a sfociare in sempre nuove guerre, tra gli stati europei, impegnati nella lotta mondiale per accaparrarsi il dominio dei mercati e il controllo delle materie prime, ma anche e, in conseguenza di ciò, da un nuovo, inedito intreccio tra lotta rivoluzionaria della classe operaia nei paesi capitalistici avanzati e lotta nazionale dei popoli oppressi, per il proprio riscatto dal dominio imperialista. I nuovi e più complessi caratteri che il dominio politico borghese era venuto assumendo in Europa e nel mondo, nel passaggio alla fase imperialistica; e, insieme con essi, i nuovi processi di crisi e di involuzione reazionaria delle istituzioni politiche del mondo capitalistico, determinano oggettivamente un ampliamento dell’arco delle forze sociali potenzialmente rivoluzionarie ( si pensi al ruolo svolto da talune borghesie nazionali nella lotta rivoluzionaria dei popoli oppressi, ma anche a quello dei contadini poveri o di alcuni gruppi sociali intermedi nella lotta contro lo strapotere dei monopoli, nelle stesse aree del capitalismo maturo), rendendo necessario un profondo ripensamento dell’intera strategia rivoluzionaria della classe operaia, dei suoi metodi di lotta e di organizzazione e dei suoi stessi obbiettivi, a partire da una critica non soltanto del vecchio riformismo socialdemocratico ma anche di ogni forma di dottrinarismo “di sinistra”.
Ed è dalla acuta consapevolezza critica, maturata attraverso Lenin, della necessità di questo ripensamento, che la ricerca di Gramsci prende le mosse. Sviluppando in modo creativo gli insegnamenti di Lenin, Gramsci aveva compreso come solo attraverso la mediazione di una “direzione consapevole”, quindi di un nuovo partito, il movimento operaio avrebbe potuto cimentarsi con l’arduo compito di ricondurre ad una visione unitaria ed organica l’insieme di quei processi di crisi e di ristrutturazione economica e politica del capitalismo del periodo imperialistico, che, il pensatore sardo si sforzerà, in carcere, di interpretare attraverso la complessa categoria di “rivoluzione passiva”. L’opposizione rivoluzionaria ad essi richiedeva infatti una più matura definizione dei concreti compiti politici della classe operaia, oltrechè del suo sistema di alleanze. Di qui il tema politico della costruzione attorno al partito della classe operaia, di un nuovo, composito blocco sociale, composto anche da settori popolari non proletari, ma ugualmente oppressi dal dominio reazionario della borghesia monopolistica. Ciò che esigeva una una nuova e più complessa articolazione del rapporto tra lotta per la difesa della democrazia e degli stessi interessi nazionali gravemente minacciati dai processi di involuzione reazionaria caratteristici del periodo imperialistico e lotta per il socialismo, non solo negli anelli deboli della catena imperialista ma anche nei suoi punti forti. In questo senso, già nel ’37, in uno scritto già citato, Togliatti sottolineava il legame profondo della intera teoria gramsciana della rivoluzione operaia e della funzione dirigente del partito in essa, con la politica di unita democratica e nazionale inaugurata con il VII Congresso del Comintern, nel pieno della reazione fascista: “Negli ultimi tempi, avendo avuto sentore delle decisioni del VII Congresso dell’Internazionale, tutto il suo pensiero era orientato nella ricerca delle forme di realizzazione del fronte popolare antifascista in Italia, e ci ammoniva di non distaccarci dal paese e dalle masse, di studiare a fondo le conseguenze che la politica del fascismo aveva avuto sui diversi strati della popolazione e nelle diverse regioni, al fine di potere trovare e usare le parole d’ordine che ci permettessero di collegarci con le masse di tutto il paese. La sua idea fondamentale era che dopo quindici anni di dittatura fascista che ha disorganizzato la classe operaia, non è possibile che la lotta di classe contro la borghesia reazionaria riprenda a svilupparsi sulle posizioni che il proletariato aveva raggiunto nel dopoguerra immediato. Indispensabile è un periodo di lotta per le libertà democratiche e la classe operaia deve stare alla testa di questa lotta”(p.89). In stretto rapporto con la stessa riflessione gramsciana degli anni ’30, per come a lui fu dato, in quel momento, di conoscerla, Togliatti veniva definendo, nel fuoco della lotta contro la reazione fascista in Europa, una strategia che ponendo in termini diversi dalle posizioni caratteristiche del primo dopoguerra, il nesso tra gli obiettivi rivoluzionari della lotta operaia e le più ampie esigenze della nazione e delle masse popolari, gettava le basi stesse della futura “via italiana al socialismo”, incardinata sull’idea della funzione nazionale della classe operaia, nella lotta rivoluzionaria per la democrazia e il socialismo. La scoperta dei Quaderni, nel secondo dopoguerra, infatti, non farà che confermare nella sostanza la giustezza della lettura di Gramsci che Togliatti aveva fornito all’altezza degli anni ’30, ma al contempo, fornirà, al partito italiano, un formidabile armamentario categoriale ad una ricerca teorica e strategica che, sviluppando in modo creativo la lezione del leninismo, e configurando in modo originale il rapporto tra democrazia e socialismo, poneva di fatto le premesse teoriche per una visione critica degli stessi problemi e contraddizioni dell’esperienza sovietica. Dopo il ’56, ritornando con forza sul leninismo di Gramsci, Togliatti leggerà l’intera teoria gramsciana dell’egemonia a partire dalla questione, già fortemente presente nell’ultimo Lenin, della diversità delle forme storiche della dittatura della classe operaia. Lungi, infatti, dal contrapporsi, il momento della egemomia e quello dittatura, sono sempre strettamente legati tra loro, in un rapporto organico, la cui concreta articolazione risulta definibile soltanto sul piano della storia reale e delle sue contraddizioni oggettive. Ed è sulla base di questa impostazione di tipo storico-dialettico, contraria a qualsiasi approccio di carattere meramente formale alle questioni della libertà e della democrazia, che Togliatti interpreta la categoria gramsciana di “società civile”. Sottolineando l’organicità del nesso che lega questa nozione centrale della riflessione carceraria di Gramsci con la categoria di “società politica” , Togliatti ribadiva, di contro ad ogni lettura liberale del pensatore sardo, il primato della politica nel pensiero di Gramsci, ma al contempo individuava in esso lo sforzo di definire, fatta salva la centralità della dimensione politico-statuale della transizione, una visione più integrale e articolata del processo rivoluzionario, in grado di coinvolgere tutti i momenti della vita sociale e nazionale, nonché la maggioranza del popolo. “ Una classe dirigente, scrive in Gramsci e il leninismo, realizza la propria direzione in modi diversi, a seconda non soltanto della diversità delle situazioni storiche, ma anche delle differenti sfere della vita sociale. Analogamente, una classe subalterna, la quale si muove con l’obiettivo di conquistare la direzione politica, conduce una lotta per l’egemonia a diversi livelli e in tutti i campi e può anche darsi che, in momenti determinati e grazie a particolari circostanze, riesca a ottenere successi importanti anche prima di essere riuscita a conquistare il potere politico. In questo ambito deve essere considerata l’azione che tende a conquistare a questa classe delle alleanze e quindi il consenso della maggioranza della popolazione; a neutralizzare altre forze politiche e sociali; a preparare quel rivolgimento culturale che sempre accompagna i rivolgimenti economici e politici; e la stessa azione educativa che appartiene essenzialmente allo Stato, ma appartiene anche al partito politico, in quanto il partito politico già anticipa alcune delle funzioni dirigenti che domani apparterranno alla classe oggi subalterna”(p.259). Emerge così in tutta la sua ricchezza una visione profondamente dialettica della realtà storico-sociale, attenta a non separare mai l’economia dalla politica, la struttura dalla sovrastruttura, tesa sempre a cogliere la loro unita concreta nella totalità storica. A ragione, nel suo saggio introduttivo agli scritti togliattiani da lui raccolti, Guido Liguori afferma la grande attualita di una tale visione, sottolineando “quanto sia ricorrente- ad esempio di fronte al fenomeno della mondializzazione- la tentazione di sottolineare l’assoluta priorità dell’economico e del sociale ( come in altri momenti del politico), senza tenere sufficientemente presente il fatto che la loro distinzione- ricordava Togliatti sulla scorta di Gramsci- è soltanto metodologica e non organica”. Lungi dal poter essere ridotto ad una forma di rozzo “statalismo” o “totalitarismo”, il tanto discusso primato togliattiano della politica scaturiva proprio dalla acuta consapevolezza, che fu già di Lenin e di Gramsci, delle trasformazioni che, a seguito dello sviluppo imperialista, la moderna statualità borghese era venuta subendo soprattutto nelle società capitalisticamente più sviluppate dell’Occidente, nel senso di una sua maggiore articolazione e diffusione egemonica nel tessuto stesso delle varie società nazionali. Di qui il nesso stretto che Togliatti stabilisce tra il tema dell’egemonia e il problema della nazione, come terreno principale del conflitto di classe. Ciò che non significava in alcun modo cancellare quella dimensione mondiale della lotta rivoluzionaria, connaturata all’essenza stessa del movimento comunista. Si trattava al contrario di rafforzare quella dimensione, assumendola come termime ultimo e prospettiva stessa del processo di transizione, proprio attraverso una diversa articolazione dialettica dei vari livelli nazionali del movimento comunista mondiale. Perciò Togliatti attribuiva “grande importanza” a quella nota del carcere, significativamente intitolata Internazionalismo e politica nazionale, in cui Gramsci indicava chiaramente quale rapporto fosse da istituirsi tra prospettiva mondiale e articolazione nazionale della stessa. “Lo sviluppo- scrive Togliatti sulla scorta di Gramsci- è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è nazionale ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse”(p.224).
Il riemergere, nei nostri giorni della “questione nazionale”, proprio di fronte ai nuovi processi di globalizzazione imperialista seguiti alla fine della vicenda sovietica e alla sconfitta del movimento comunista mondiale, ripropone in tutta la sua attualità la critica gramsciana e togliattiana ad ogni astratta visione economicistica o rozzamente corporativa del conflitto di classe, incapace di comprendere la centralità di quest’ultimo, in relazione con i problemi e le contraddizioni di tutta la vita nazionale; come già all’indomani della sconfitta degli anni ’20, infatti, ancora una volta, si impone, oggi, al movimento operaio la necessità di una nuova articolazione tra la lotta di classe contro le dinamiche cosiddette “globali” del capitalismo e lotta per la conquista della egemonia politica della classe operaia all’interno delle varie realtà nazionali, tutt’altro che eliminate da quei processi di integrazione e di internazionalizzazione capitalistica, che siamo soliti indicare con l’equivoca categoria di “globalizzazione”.