Il gendarme americano a caccia di sbocchi mette a ferro e fuoco il pianeta

Il gendarme americano a caccia di sbocchi mette a ferro e fuoco il pianeta, mentre l’Europa si dibatte, amletica, nella scelta del male minore tra una politica economica restrittiva e lo smantellamento dei diritti. Non so se lo scenario prospettato per noi e i nostri figli da Luigi Cavallaro (in questo numero, Nda) sia ottimistico oppure no. Di sicuro appare credibile, oltre che minacciosamente confermato dagli eventi delle ultime settimane.
Eppure le alternative alla paralisi europea non mancherebbero. Prendiamo ad esempio un caposaldo basilare della politica restrittiva, il vincolo dei conti pubblici “in ordine”. Nelle torri d’avorio dell’accademia lo ammetteranno in pochi, eppure tutti sanno che le fondamenta di quel vincolo sono d’argilla. Nel 1998, l’economista keynesiano Luigi Pasinetti fece notare che nessun contributo analitico era ancora riuscito a fornire una giustificazione per i ben noti parametri di Maastricht, quelli che tuttora obbligano i paesi membri dell’Unione monetaria europea a tenere il deficit pubblico sotto il 3% del Pil (sotto lo zero da Amsterdam in poi) e a collocare il debito pubblico non oltre il 60% del Pil. E a tutt’oggi la lacuna segnalata da Pasinetti persiste. L’unico tentativo di colmarla è provenuto dal Prof. Giancarlo Gandolfo, il quale ha recentemente avanzato una spiegazione dei parametri quali “condizioni di equilibrio” dell’economia europea. Ma è possibile dimostrare che la sua soluzione, per quanto ingegnosa, risulterebbe compatibile con qualsiasi tasso di disoccupazione: un risultato inservibile da un punto di vista strettamente politico, a meno di voler ammettere ciò che si è finora sempre negato, e cioè che l’occupazione rappresenta, da tempo, la variabile residuale della politica economica europea.
I parametri, dunque, quelli di cui ogni giorno si parla e che ispirano miti, leggende e titoli a nove colonne su veri o presunti “buchi di bilancio”, quei parametri non hanno alcun fondamento, né possono trovarlo nella definizione di equilibrio o in altri concetti “neutri” della teoria economica. Essi appaiono allora per quello che sono, vale a dire il prodotto di un conflitto politico sulle dimensioni del “settore pubblico”. Del resto, lo stesso ex ministro delle finanze tedesco Theo Waigel, incalzato dalle domande sulle origini e sull’utilità dei parametri, ammise che, benché privi di fondamento, essi “serviranno comunque a far fare un bel po’ di dieta agli Stati europei”.
Ma anche all’altra colonna della politica europea, quella dello spauracchio dell’inflazione agitato per contrastare le incerte richieste di allentare i vincoli di Maastricht, è attribuibile un’analoga origine politica. Quando si parla di andamento dei prezzi, infatti, occorrerebbe sempre ricordarne le implicazioni distributive. Basterebbe in tal senso osservare che dalla prolungata disinflazione europea è derivato, negli anni ’90, uno straordinario spostamento dei redditi a favore dei possessori di attività finanziarie. Lo spostamento si verifica perché assieme ai prezzi rallentano i redditi ma non gli oneri finanziari: questi infatti continuano a correre essendo stati contratti, in epoca d’inflazione, a tassi molto elevati. Questo fenomeno distributivo, noto come “effetto Fisher”, si è rivelato particolarmente forte in Italia, dove il rallentamento dei prezzi ha dato luogo in pochi anni a una distribuzione del reddito dai debitori (cioè soprattutto dallo Stato) ai creditori stimabile intorno al 5% del Pil. Stando così le cose, ci sarebbe da discutere sull’idea, tanto cara al nostro Presidente della Repubblica, secondo cui “la disinflazione è stata il premio per un sacrificio collettivo”. Per le modalità con cui l’abbattimento dei prezzi si è verificato, infatti, sarebbe piuttosto il caso di parlare di causa di un sacrificio collettivo, pagato in primo luogo dai beneficiari della spesa pubblica e dai contribuenti.
Per completare il quadretto è il caso di menzionare il terzo caposaldo della politica europea, quello che va sotto il nome di “moderazione salariale”. Se si considera che le politiche di compressione dei salari hanno fortemente contribuito alla disinflazione europea, e se si tiene conto di ciò che abbiamo appena detto, e cioè che proprio alla disinflazione dobbiamo buona parte dell’aumento degli oneri finanziari dello Stato, lo scenario che emerge ha un che di perverso: il sacrificio dei salariati ha ingenerato il sacrificio dei beneficiari della spesa pubblica e dei contribuenti!
I vincoli ai salari, all’inflazione, al deficit e al debito, dunque, trovano le loro principali giustificazioni non nei concetti fumosi e mai spiegati della “finanza sana”, della “stabilità monetaria” o della “moderazione salariale” ma nell’obiettivo tutto politico di comprimere lo Stato a favore del mercato, e di garantire soprattutto gli interessi dei possessori di attività finanziarie. Ma cosa accadrebbe se decidessimo un bel giorno di lasciarci alle spalle simili esperimenti autolesionistici ? Cosa potremmo guadagnarci?
La risposta si aggira, tanto per cominciare, intorno ai 150 miliardi di euro di spesa pubblica europea in più. Basterebbe, solo per citare due esempi, sostituire la convergenza del debito al 60% con una più sensata condizione di stazionarietà dello stesso, ovunque si trovi, e allentare un po’ la politica monetaria. Assumendo un’inflazione al 4%, tassi d’interesse a breve intorno al 5% e un tasso di crescita reale del 2%, l’Italia riuscirebbe a stabilizzare il debito pubblico al 100% del Pil potendo al tempo stesso permettersi un deficit primario dell’1%, vale a dire 40 miliardi di euro di spesa annua aggiuntiva al netto degli interessi. E se l’inflazione corresse ancora un po’ più veloce degli interessi, la cifra potrebbe salire almeno di altri 10 miliardi di euro. Cifre da capogiro, insomma. Eppure non si tratta di sogni, ma di relazioni tra variabili molto più timide di quelle ampiamente sperimentate prima che il ventennio liberista cancellasse la nostra memoria storica.
Una volta caduti i vincoli e tirati fuori i soldi, resterebbe da deciderne l’impiego. Da tempo ho smesso di credere che questa rappresenti la parte facile del problema. Eppure la lista delle cose da fare sarebbe pressoché infinita. Qui mi limiterò a citare due aree d’intervento, l’ambiente e la politica internazionale. Sull’ambiente, sollecito ormai periodicamente gli ecologisti a riempire quella lista, per dimostrare che oggi sapremmo evitare gli errori di gestione delle risorse pubbliche che, in epoca di vacche ancora grasse, Federico Caffè denunciò con passione. Caffè rimaneva sconcertato nel sentire dirigenti delle Partecipazioni statali affermare che se i privati inquinavano e ciò influiva sulla loro competitività, anche l’impresa a partecipazione statale, in osservanza del “criterio di economicità”, avrebbe dovuto inquinare. Egli attaccò ferocemente la tendenza dello Stato a scimmiottare i privati nelle decisioni di spesa anziché promuovere le attività che il mercato, per sua natura, non è in grado di sviluppare. Ma rimase sempre ottimista sulla possibilità di cambiare rotta, anche nei momenti più cupi e drammatici. Quell’ottimismo oggi manca. La sfiducia nei confronti di un possibile uso “creativo” delle risorse pubbliche al fine della riconversione ecologica della struttura tecnica e produttiva del sistema, ha troppo spesso reso la sinistra e il mondo ambientalista vittime di una deriva utopica e primitivista: una sorta di “sindrome di Gauguin”, dalla quale sarebbe bene uscire una volta per tutte.
Quanto alla politica internazionale, molti negli ultimi tempi hanno invocato un superamento del complesso d’inferiorità europeo nei confronti degli Stati Uniti. Il mondo, si è detto, soffre oggi di un deficit culturale nei confronti della guerra, e l’Europa è l’unica in grado di colmarlo. Può darsi che simili affermazioni rievochino quel vizio kantiano che Gramsci imputò al giovane Sraffa. Quel che è certo, comunque, è che non si è mai visto nessuno partecipare alla ridefinizione dello scacchiere geopolitico semplicemente mettendo sul piatto il proprio “patrimonio culturale”: occorre anche tanto denaro. Quel denaro che l’Europa, a caldo, ha sempre dichiarato di voler spendere (ricordate i 100 miliardi di euro del piano per i Balcani?), per poi tirarsi indietro a mente irresponsabilmente fredda.

Note

1 Pasinetti L. (1998), The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht parameter”, Cambridge Journal of Economics, 22.

2 Gandolfo G. (2001), International Finance, Springer Verlag, cap. 21.

3 Brancaccio E. (2001), Sulle proprietà di equilibrio dei parametri fiscali di Maastricht, mimeo.

4 Brancaccio E. e Marconi D. (2001), Possibili effetti collaterali della disinflazione, mimeo.

5 I calcoli derivano da una semplice condizione di stazionarietà del debito pubblico, riportata anche in Pasinetti, cit.

6 Caffè F. (1981), “La Montedison e il ministro”, il manifesto, 10 giugno, ristampato in Caffè, La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

7 Brancaccio E. (2001), “Gli orizzonti del keynesismo”, il manifesto, 2 ottobre.