Il disegno imperialista per il Medioriente

A un anno e mezzo dall’attacco americano contro l’Afghanistan, il primo ministro Karzai – insediato dagli americani e che governa di fatto solo su Kabul, anzi più esattamente solo sul centro della città – è ancora primo ministro, e si potrebbe tragicamente ma realisticamente aggiungere che è ancora in vita, solo perché protetto costantemente da una robusta guardia del corpo di militari americani. Si badi bene: di militari non afghani, ma americani. Qualcuno potrà chiedersi che cosa c’entra questo con l’Iraq e con la guerra di Bush e di Blair. C’entra e come: perché la guerra all’Iraq è solo un altro tassello, un’altra fase, della «guerra infinita» proclamata dal capo della Casa Bianca dopo l’11 settembre con il pretesto della lotta al terrorismo e perché la odierna sorte dell’Afghanistan dimostra quale sarà domani la sorte dell’Iraq, se i progetti di Bush sulla imposizione per almeno sei mesi di un governatorato militare americano saranno interamente portati a compimento. Dimostra in altri termini che cosa significa in realtà «portare la democrazia» a Baghdad, come ieri a Kabul, e quali siano le linee e gli obiettivi di quella nuova «mappa geopolitica» del Medio Oriente che i petrolieri al governo a Washington vogliono disegnare. Una mappa, per dirla con parole chiare, basata sulla ripetizione a catena di soluzioni «alla Karzai», con governi di volta in volta «amici» o vassalli o anche semplicemente fantocci, tenuti in piedi dal «protettorato» militare americano.
Fortunatamente le cose non sempre vanno secondo i piani prestabiliti, e il corso della guerra in Iraq lo ha dimostrato in modo eclatante. Doveva essere una guerra-lampo, una passeggiata militare, con l’esercito iracheno che si squagliava come neve al sole e l’arrivo a Baghdad nel giro di 72 ore o poco più e con folle plaudenti che acclamavano i «liberatori»; si è trasformata da subito in una guerra dura, sporca, sanguinosa, con le forze di invasione impantanate per settimane intorno alle città e una resistenza che ha colto i generali del Pentagono e di Londra completamente di contropiede, solo parzialmente compensata dalla rapidità della caduta di Baghdad, peraltro ancora da decifrare. Forse se i vertici «alleati» (e soprattutto americani) si fossero preoccupati di studiare un poco la storia, la cultura e le tradizioni del Medio Oriente e di analizzare le precedenti esperienze (leggi la guerra del 1991) in modo serio e non con spirito di arroganza razzista, le cose sarebbero andate diversamente. Ma così va il mondo, e in questo mondo gli sbagli si pagano anche a caro prezzo; il guaio è che il prezzo reale lo ha pagato e lo paga il popolo iracheno, non solo governato per 25 anni da una dittatura, ma già martoriato e stremato dalla guerra precedente e da dodici anni di embargo tanto feroce quanto ingiustificato, e in prospettiva ridotto (almeno negli intenti Usa) a popolo colonizzato.
La stessa resistenza irachena costituisce una ulteriore controprova delle osservazioni che facevamo all’inizio. La «sorpresa» degli americani è stata tanto più grande in quanto proprio la gente del sud, di religione sciita e da sempre opposta al regime di Saddam, li ha accolti non come liberatori ma con ostilità o quanto meno con diffidenza. Quella stessa gente del sud, proprio perché sciita, non ha evidentemente nessuna intenzione di liberarsi di Saddam per cadere sotto la «protezione» interessata degli americani, di passare dal tallone del regime alla dominazione straniera , e per di più «infedele». Gli sciiti iracheni guardano tradizionalmente all’Iran, e i dirigenti delle due principali organizzazioni che li rappresentano – il Consiglio supremo della rivoluzione islamica (Sciri) e Al Dawa al Islamiya (letteralmente: Appello dell’Islam) – lo hanno detto e ripetuto chiaramente anche prima dello scoppio delle ostilità. A guerra iniziata, poi, il leader dello Sciri ayatollah Mohammed Bakr el Hakim ha espressamente rivolto da Teheran un appello alla sua gente perché operi «per abbattere la dittatura e resistere alla dominazione straniera»; e non a caso gli americani si sono decisamente opposti all’ingresso in Iraq dei diecimila esuli in armi pronti subito al di là della frontiera iraniana e che sarebbero comunque intervenuti contro Saddam, ma non si sarebbero certamente assoggettati agli ordini dei generali del Pentagono, come dimostra il caso di Saddam City, il sob-borgo sciita di Baghdad liberatosi da sé e che non ha coperto di fiori gli occupanti. Gli sciiti del sud non hanno dimenticato del resto la tragica esperienza del 1991, quando le forze della coalizione a guida Usa li incoraggiarono a ribellarsi ma restarono poi inerti e indifferenti di fronte alla sanguinosa repressione del regime, appunto perché Bush padre non voleva rischiare l’avvento a Baghdad di un governo filo-iraniano. Se la storia è maestra di vita, la lezione per gli sciiti è di non fidarsi (a dir poco) degli americani. E questo la dice lunga anche sulla «democrazia» che gli Stati Uniti vorrebbero imporre ai popoli del Medio Oriente: se infatti il principio della democrazia è quello classico che si esprime nella formula «un uomo un voto», l’Iraq del futuro potrebbe essere democraticamente governato dagli sciiti; ed è almeno dubbio che Bush e il suo staff siano disposti ad accettare una ipotesi del genere, tanto è vero che dai primi colloqui con gli oppositori a Nassiriya sono rimasti fuori proprio gli sciiti, oltre naturalmente al Partito comunista.
Dunque non guerra per la democrazia e nemmeno per combattere il terrorismo, visto che Saddam Hussein aveva certo molte colpe ma non aveva nulla a che fare con Bin Laden e le due torri, e che comunque il terrorismo non si combatte con i bombardamenti a tappeto e le invasioni; al contrario, la guerra anglo-americana contro l’Iraq, versione moderna delle guerre coloniali di vecchio stampo (non a caso, in tema di simboli, punta di lancia dell’attacco è stato il Settimo Cavalleria del macellaio Custer), è destinata a fornire nuovo alimento proprio alle organizzazioni terroristiche. E’ stato del resto lo stesso presidente egiziano Mubarak a dichiarare che questo conflitto produrrà «cento nuovi Bin Laden». E dunque guerra per il petrolio, cioè per l’egemonia a livello regionale e planetario, considerando il petrolio non solo come una fonte diretta e specifica di energia ma anche, appunto, come strumento per imporre il proprio dominio. E vedremo rapidamente in che senso.
La chiave per capire quanto stiamo scrivendo è quella di considerare la guerra all’Iraq, e la stessa «Enduring freedom», non come una vicenda a sé stante ma come anello di una catena più lunga e complessa. Nel novembre 2001 a Damasco il Segretario generale del Partito comunista siriano Yussef el Feisal nella sua relazione al congresso (cui assistevo in rappresentanza di Rifondazione comunista) sosteneva – con ragione – che la guerra all’Afghanistan, allora in corso da un mese, era appunto solo una fase di una unica lunga guerra iniziata nel 1991 in Iraq e proseguita nel 1993 in Somalia, nel 1999 in Jugoslavia, in quel momento in Afghanistan, oggi (possiamo aggiungere noi) di nuovo in Iraq e domani chissà dove, forse in Siria e in Iran e poi altrove. Se pensiamo dunque a una unica guerra, vediamo che grazie alle sue fasi successive si è consolidata una presenza militare americana nel Caucaso, nei Balcani, nell’Asia centrale ex-sovietica (Uzbekistan, Turkmenistan, Tajikistan), in Afghanistan e naturalmente nel Golfo (Kuwait, Arabia Saudita, Emirati): guardando la carta geografica, una linea continua di presenza militare americana, che corre oltretutto lungo i confini di Russia e Cina. In questa linea l’Iraq rappresentava un buco, una falla, e non di poco conto, visto che è potenzialmente – prescindendo dall’embargo – il secondo Paese esportatore di petrolio e in prospettiva il primo quanto a riserve stimate. Colmando questa falla, gli americani avranno il totale controllo dei giacimenti di petrolio e di gas del Caucaso, dell’Asia centrale e del Golfo nonché dei tracciati di tutti gli oleodotti, esistenti o in programma, da quelle regioni verso il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. E questo vuol dire che saranno loro a determinare i livelli di produzione e di prezzo e potranno dunque prendere letteralmente per la gola l’Europa (oltre che il Giappone, comunque più «docile»), che dal petrolio del Golfo dipende in larga misura. Altro che democrazia e terrorismo: una guerra per l’egemonia e contro l’Europa; e questo spiega fra l’altro la posizione di Francia e Germania, oltre che della Russia, con buona pace di chi sosteneva che le contraddizioni interimperialistiche, o intercapitalistiche, erano roba del secolo scorso.
Ma il controllo di quella immensa regione richiede garanzie di stabilità e docilità da parte dei Paesi che ne fanno parte; ed ecco allora l’esigenza di ridisegnare ex-novo la mappa geopolitica, come si accennava in principio, facendo perno sui due solidi pilastri Turchia e Israele, legati da qualche anno da un patto militare sponsorizzato dagli Usa che stringe letteralmente il cuore della regione in una morsa, ma che rischia anche di rendere ingovernabili sia la questione palestinese che il problema curdo (altra grande incognita del dopoguerra in Iraq sulla quale meriterebbe di fare un discorso a parte). Il problema riguarda ovviamente tutti i Paesi dell’area, ma investe in particolare da un lato Siria e Iran e dall’altro Egitto, Giordania e Arabia Saudita, con un codicillo particolare per la questione palestinese. Di Siria e Iran è presto detto: da sempre, e sia pure in modi e con motivazioni diverse, opposte a qualsiasi ipotesi di «pax americana», sono i prossimi obiettivi nella «lista nera» dell’Amministrazione Bush, anche se pensare fin d’ora a nuove operazioni militari – visto come sono andate le cose in Iraq e in Afghanistan – sarebbe poco meno che una follìa, della quale peraltro i falsi strateghi di Washington sono purtroppo più che capaci, come dimostrano le esplicite recenti minacce di Rumsfeld e Colin Powell (la presunta colomba dell’Amministrazione). Più complesso il discorso per gli altri tre Paesi, tutti formalmente già oggi «amici» o alleati degli Stati Uniti. L’Egitto di Mubarak è stretto in modo soffocante tra la sua posizione di Paese cardine del mondo arabo e la conseguente aspirazione a un ruolo di guida (anche se non paragonabile a quello dei tempi di Nasser) da un lato e dall’altro il pressoché completo allineamento, o piuttosto la subordinazione, alle scelte strategiche degli Stati Uniti dai quali dipende sia politicamente sia, soprattutto, economicamente (dice un vecchio assunto che su quattro forme di pane consumate dagli egiziani tre sono pagate con soldi americani); di qui la continua altalena fra dichiarazioni velleitarie e cedimenti reali, fra belle parole e fatti deludenti, fra aperture all’opinione pubblica interna (e panaraba) e sostegno alla politica Usa, un’altalena che può alla lunga portare verso una esplosione sociale e politica anche se gli apparati repressivi hanno potuto ridimensionare notevolmente il peso almeno operativo del movimento integralista. Ma il paradosso della nuova strategia «imperiale» americana è che nemmeno un regime «amico» in modo addirittura autolesionistico è più sufficiente, se si permette di prendere – sia pure tatticamente – posizioni come quella di condanna della guerra assunta dalla Lega araba.
Ancor più fragile la posizione della Giordania, autentico vaso di coccio nel cuore dell’area di crisi, senza più la copertura, sia pure relativa, di una personalità con il prestigio e le capacità del defunto re Hussein. Al di là delle sue intenzioni, il giovane re Abdullah – espressione come il re del Marocco Mohammed di una nuova classe dirigente «moderna» culturalmente condizionata dall’Occidente – non ha nei confronti di Washington il benché minimo margine di autonomia; come conseguenza la Giordania – che nel 1991 mantenne una posizione di difficile equilibrio, con re Hussein che si barcamenava abilmente fra le esigenze della realpolitik e la fortissima pressione pro-Saddam delle masse popolari – è oggi del tutto allineata se non con i proclami comunque con le esigenze di Washington, al punto da aver accettato (senza ammetterlo ufficialmente) sul suo territorio la presenza di alcune migliaia di militari dei corpi scelti Usa, al cui non diretto intervento sul territorio iracheno nessuno crede.
Molto più complesso e difficile il discorso sull’Arabia Saudita, un tempo alleato di ferro degli Usa che ora – dopo l’11 settembre, con i suoi 15 kamikaze (su 19) di provenienza saudita – non se ne fidano più; il che mette Riyad nella drammatica condizione di essere da un lato considerata in qualche misura coinvolta se non nelle azioni almeno nelle responsabilità ideologiche del terrorismo islamico e dall’altro concretamente esposta agli attacchi di Bin Laden e della sua organizzazione e, correlativamente, agli effetti destabilizzanti di una situazione economica che non è più la Bengodi di un tempo e degli evidenti scricchiolii di una struttura sociale e istituzionale sempre più in crisi.
Come conseguenza evidente e gravida di possibili ripercussioni, il patto di fedeltà che legava i Saud alla Casa Bianca è di fatto ormai logorato. La mappa geopolitica della regione è davvero, come si vede, in fase di rimescolamento, quale che sia il corso finale degli eventi in Iraq. Ed è chiaro fin d’ora, per venire a un ultimo nodo cruciale, che in questa mappa non c’è posto per uno Stato palestinese degno di questo nome (come del resto non c’è posto nemmeno per uno Stato o un «potere autonomo» curdo). La guerra di Sharon contro il popolo palestinese e la guerra di Bush contro l’Iraq altro non sono che due facce di una stessa medaglia, quella della «guerra infinita» per l’egemonia americana a livello planetario. Sharon ha detto chiaramente fin dall’inizio che «Arafat è il nostro Bin Laden», per aggiungere poi, subito prima dello scoppio della guerra all’Iraq, che «dopo Saddam toccherà ad Arafat»; e Bush gli ha di fatto lasciato carta bianca, parlando a più riprese e in termini vaghi di «Stato palestinese» (per accontentare gli arabi «amici») ma sparando a zero su Arafat e lasciando che il premier portasse avanti la sua guerra di annientamento contro l’Anp e i Territori autonomi. In concomitanza con l’attacco all’Iraq si è assistito da parte americana a un improvviso rilancio della ipotesi negoziale, ma si tratta ancora una volta di una mossa del tutto strumentale: lo Stato previsto nella «mappa» di Bush è uno Stato a sovranità più che limitata, provvisorio e con confini indefiniti; una ipotesi cioè forse meno tragica della soluzione puramente «militare» di Sharon ma non meno sinistra e altrettanto inaccettabile per il popolo palestinese. Basti il fatto che si è inneggiato alla nomina di un primo ministro dell’Anp solo perché consente, almeno formalmente, di «scavalcare» Arafat e proprio nel momento in cui quel primo ministro non ha nulla da governare, perché i Territori sono sotto la morsa dei tank israeliani e le strutture dell’Autorità palestinese sono state azzerate a suon di bombe e di missili. Poi, naturalmente, c’è anche chi si stupisce che tanti giovani palestinesi siano pronti a immolarsi per colpire «il nemico» e che la resistenza irachena e Saddam siano potuti diventare per la gente di Gaza e della Cisgiordania dei punti di riferimento. Ma questo, piaccia o non piaccia, è lo scenario aperto dal delirio bellicista di Bush e del suo staff e dai suoi progetti di «risistemazione» del Medio Oriente. Un progetto sul quale i popoli di quella parte del mondo, ma non solo di quella, stanno aprendo gli occhi, per imparare – come ha detto il presidente siriano Bashar el Assad respingendo le minacce di Bush – che «la salvezza risiede solo nella resistenza», in tutte le forme e a tutti i livelli.