1. La discussione sul referendum potrebbe essere archiviata con la constatazione che il quorum non è stato neppure sfiorato e con la conseguente presa d’atto della sconfitta dell’obiettivo dichiaratamente perseguito. Una simile tentazione equivarrebbe tuttavia ad una rimozione e le rimozioni non sono mai servite a nulla, men che meno in politica, se non a determinare il repentino passaggio da euforie maniacali a stati depressivi che, non permettendo di capire, conducono rapidamente all’impotenza e alla resa.
L’impegno più produttivo al quale non dovremmo sottrarci, a ridosso del risultato referendario, consiste dunque nel tentare di comprendere le ragioni che, in concorso fra loro, hanno determinato quell’esito. Quest’analisi è più che mai necessaria, tanto per prendere coscienza di errori e sottovalutazioni che non sono mancati, quanto per meglio apprezzare il significato del voto che si è invece espresso; ma, soprattutto, per ragionare sullo stato della sinistra che la vicenda referendaria illumina come una riuscita metafora.
Procediamo con ordine.
Contro il voto hanno congiurato:
a) un imponente quanto inedito schieramento di forze avverse, sociali e politiche, di governo e di opposizione, che hanno prodotto un vero e proprio fuoco di sbarramento ed una martellante campagna astensionista; dall’altra parte alcuni piccoli partiti d’opposizione, che sommando le proprie percentuali di consenso elettorale superano di poco la soglia del 10%, e la Cgil che, con ragioni sue proprie, si è disposta a condurre la campagna per il “sì”, scontando tuttavia il giudizio di segno opposto di un uomo del carisma di Cofferati, che pure era stato protagonista di una grande stagione di lotte sociali all’insegna dell’estensione dei diritti nel lavoro;
b) la confusione che questa eterogenea congerie di partiti e di soggettività ha suscitato nelle persone, occultando il reale oggetto del contendere e nascondendone dunque il carattere contestativo delle scelte di politica sociale promosse dal governo;
c) la stimolazione di un riflesso fideistico, antico e mai del tutto sconfitto, retaggio della tradizione del movimento operaio, per cui se il partito “chiama” se ne deve seguire l’indicazione, anche se questa sembra poco convincente, giacchè alla fonte da cui essa emana è riconosciuta un’autorità indiscussa (“non capisco perché devo farlo, ma se colui che io stimo me lo chiede vuol dire che una buona ragione ci sarà”…);
d) l’insinuazione ossessivamente ripetuta che il referendum avrebbe diviso ciò che altri avevano tenuto unito, e che tale divisione avrebbe compromesso i risultati elettorali positivi delle ultime tornate amministrative, somministrando a Berlusconi e cortigiani una insperata boccata d’ossigeno;
e) l’allusione ad uno scopo tutto politico ed interno alle convenienze di Rifondazione Comunista, che avrebbe visto nel referendum, prima ancora che lo strumento per estendere essenziali diritti alla platea di lavoratori che ne è esclusa, il grimaldello per rompere l’alleanza dell’Ulivo e attivare un’altra dinamica a sinistra;
f) l’oscuramento dell’informazione mediatica che ha raggiunto livelli scandalosi, relegando i pochi dibattiti televisivi in orari impossibili e ostacolando una precisa cognizione della materia in discussione;
g) la sistematica contraffazione dei termini del problema che è stata scientemente agita, dando ad intendere che la “giusta causa” sarebbe operante anche nelle aziende con meno di 16 dipendenti, ma nascondendo che la legge consente al datore di lavoro di aggirarla con una mancia risarcitoria che difficilmente supera le tre mensilità e che estingue ogni altro dovere nei confronti del lavoratore illegittimamente cacciato dal lavoro; oppure sostenendo che il licenziamento discriminatorio è vietato a tutte le aziende, indipendentemente dalla loro grandezza, ma trascurando di dire che l’onere della prova giudiziaria è a carico del dipendente e che non si è mai (dico mai) visto alcun padrone cadere nell’ingenuità di indicare in un movente discriminatorio la ragione di un licenziamento; oppure raccontando che la eventuale reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe concretamente inattuabile in un’azienda di piccole dimensioni, quando è noto che ciò non può essere imposto neppure dove l’articolo 18 è pienamente in vigore e che il dipendente può comunque optare per una soluzione risarcitoria pari a 15 mensilità. E si potrebbe continuare, ma questo ed altro è stato tenuto debitamente nascosto, mentre è stata alimentata sino al parossismo la paura per un provvedimento che, se attuato, avrebbe letteralmente “messo in ginocchio le piccole imprese” e dunque l’intera Italia che sulla microeconomia fonda le proprie chances competitive.
Insomma, ne abbiamo davvero sentite di cotte e di crude.
Uno degli argomenti più gettonati a sinistra è stato che un’azienda di tre dipendenti non è uguale alla Fiat, ma si è totalmente omesso che la divaricazione del diritto non interviene fra piccole e grandi aziende, bensì fra un’impresa di 15 ed una di 16 dipendenti; e ci si è dimenticati di dire che – sino ad ora – il centrosinistra ha ritenuto impraticabile tanto l’abbassamento della soglia dei 15 dipendenti, quanto una sostanziosa elevazione del risarcimento dovuto dalle microaziende ai lavoratori licenziati senza giusta causa.
Ora, il fatto che in un simile contesto, segnato fra l’altro da una cronicizzazione dell’astensionismo che pesa ormai su ogni e qualsiasi consultazione elettorale, il 25,7% degli italiani abbia declinato l’invito a disertare le urne, si sia sottratto alle indicazioni dei propri partiti di riferimento, abbia utilizzato sino in fondo il proprio discernimento ed in una proporzione dell’87%, pari ad oltre dieci milioni di persone, abbia votato per l’estensione a tutti e a tutte dell’articolo 18, costituisce a mio avviso un fatto di grande valore politico che sarebbe delittuoso trattare con indifferenza, tanto da parte di chi ha promosso il referendum o vi ha comunque svolto un ruolo attivo, quanto da parte di chi, pur respingendolo, continua a reclamare la necessità di una estensione dei diritti nel lavoro.
Nessuno che possegga un minimo di razionalità politica e che persegua l’intenzione di scalzare dal governo del paese questa destra infame può pensare di farlo prescindendo dalla concreta rappresentanza di quella parte del paese che con il voto referendario ha detto di non credere che il buon andamento dell’economia sia in concorrenza con i diritti e con la dignità dei lavoratori.
2. Il secondo grande tema che viene chiamato in causa parla della profonda mutazione culturale che ha coinvolto intere generazioni di lavoratori occupati nell’area in espansione del precariato e nella piccola impresa.
Di queste persone conosciamo ben poco e neppure possiamo scommettere sulla consistenza dell’apporto da loro dato alla recente consultazione. Possiamo però dire, intuitivamente, che il loro rapporto con il lavoro è molto diverso da quello nel quale si è formato l’“operaio massa” protagonista di tante battaglie per l’emancipazione collettiva. Con esse, in ogni caso, noi non riusciamo a stabilire una comunicazione di qualche efficacia. Certo non ne abbiamo la rappresentanza sociale, né influiamo nella formazione delle loro idee se non in termini molto indiretti e meno efficaci di qualsiasi tifoseria sportiva.
La precarizzazione del lavoro ha trasformato tanti giovani lavoratori in individui isolati, inevitabilmente privi di memoria che nessuno ha trasmesso loro, tendenzialmente propensi a vedere, gli uni negli altri, non già compagni di lavoro oppressi da una medesima condizione di sfruttamento e di illibertà da fronteggiare con una risposta organizzata ed unitaria, bensì potenziali concorrenti in un microcosmo dove la soluzione dei problemi o è individuale o non è.
Questa disintegrazione dell’identità sociale in impetuosa accelerazione trova ora nella legge 30 la propria apoteosi, ma le basi teoriche e i primi rilevanti fondamenti normativi sono in discreta parte rintracciabili nella prolungata gestazione legislativa del centrosinistra.
L’adozione del cosiddetto “pacchetto Treu” era dichiaratamente ispirata alla persuasione che la flessibilità del lavoro costituisse la leva fondamentale per generare competitività del sistema industriale ed incremento dell’occupazione: in quel grembo è maturato l’uovo del serpente.
Quanto questo sia vero e quali pessimi risultati questa concezione abbia prodotto nella cultura della sinistra, lo abbiamo visto proprio nella recente campagna referendaria.
La convinzione dell’estabilishment DS che l’estensione dell’articolo 18 alle piccole imprese avrebbe prodotto maggiore precarietà, altro non è che il riflesso di una più ampia e pervasiva ideologia, che ormai separa (quando non contrappone) diritti e progresso generale della società.
Il punto è di un’importanza fondamentale, poiché racconta della rimozione dell’architrave su cui poggiava la cultura politica dei partiti comunisti occidentali e della stessa socialdemocrazia europea, vale a dire l’idea che un nesso inscindibile lega la democrazia nel lavoro, il processo emancipativo dei lavoratori e gli interessi dell’insieme della società. In questo quadro trovavano composizione dinamica anche interessi di ceti medi e di piccola borghesia produttiva.
La stessa politica delle alleanze – che tanta parte ha avuto nel dibattito della sinistra – non era mai pervenuta ad un così radicale rovesciamento della prospettiva.
La vera metamorfosi che si è compiuta nella sinistra moderata non è consistita, dunque, nel disconoscimento della definizione “comunista” del partito o in una sorta di resa dei conti di natura ideologica, bensì in un profondo rivolgimento delle radici classiste della rappresentanza sociale.
La rivoluzione copernicana ha investito tutte le fondamentali categorie interpretative e si è connotata come una vera e propria scelta di campo. Il baricentro si è spostato dalla programmazione al mercato, dal lavoro all’impresa, dall’istanza egualitaria alle pari opportunità, dalla solidarietà alla competitività, dal concetto di trasformazione sociale a quello più tranquillizzante e adattivo di modernizzazione. Ogni venatura critica che avesse il sapore della radicalità è stata espunta dai comportamenti come dal linguaggio, e l’azione politica si è connotata per un vago evoluzionismo progressista. Soprattutto, si è inseguita una pericolosa illusione: che un’economia di mercato fortemente deregolamentata potesse convivere (ed essere temperata da) con una società solidale. Si è cioè smarrita la consapevolezza – che fu propria di un’intera tradizione storica e che era ben presente negli artefici della Costituzione repubblicana – che chi domina incontrastato i rapporti sociali ipoteca anche il segno della politica e la funzione dello stato. Si è perso di vista che allo svilimento della democrazia nel lavoro e alla sconfitta dei lavoratori non può che corrispondere una torsione autoritaria nelle istituzioni, e che l’una cosa dà la misura dell’altra. Dimostra invece di averlo compreso assai bene Berlusconi, che non ha caso ritiene ormai matura la cancellazione di quell’articolo 41 della Costituzione che subordina la libertà d’impresa all’utilità sociale, al rispetto della dignità e della sicurezza di chi lavora.
3. Questo è – credo – il tema di fondo che abbiamo di fronte, il deficit strategico non colmato che si ripresenta ad ogni piega della vicenda politica italiana e che reclama sistematicamente il conto ad una sinistra ancora incapace di farsene carico. Quand’anche la scelta di promuovere il referendum fosse stata avventurosa e tatticamente sprovveduta, rimane drammaticamente squadernata davanti a noi l’assenza di una politica di difesa del lavoro, sottoposto ad un attacco di inaudita violenza: un attacco che è ormai prossimo a raggiungere l’obiettivo di liquidare la specificità del diritto del lavoro (inteso a proteggere la parte più debole) per sostituirvi, puramente e semplicemente, il diritto commerciale.
Vi è nell’insieme della sinistra percezione di tutto ciò? Si è colta la “geometrica potenza” distruttiva, la portata dell’effetto combinato della legge delega sul mercato del lavoro (e del decreto applicativo di recente emanazione) con le nuove discipline del contratto a termine, dell’orario di lavoro, con la limitazione del campo di applicazione dell’articolo 18 già approvata da un ramo del parlamento?
Si è compreso che il raggio d’azione delle nuove norme spazia dall’accesso al lavoro alla modalità della prestazione sino all’elusione della giusta causa per quanti (sempre meno) possono ancora vantarne il diritto?
Proviamo ad elencare:
– abolizione del divieto di intermediazione di manodopera, introdotto nel 1960 da un governo centrista per arginare il dilagare del lavoro nero e del caporalato;
– somministrazione del lavoro in affitto (anche a tempo indeterminato) da parte di agenzie fornitrici ad aziende utilizzatrici, che potrebbero così disporre di centinaia di dipendenti senza averne in carico alcuno;
– trasferimento di ramo d’azienda, anche in assenza di qualsiasi preesistente autonomia del segmento da cedere, così da consentire la totale frantumabilità dell’impresa, la compromissione dei diritti dei lavoratori e della tenuta dello stesso sistema contrattuale;
– invenzione di nuove tipologie di lavoro atipico ad alto tasso di precarietà, come il lavoro a chiamata, che colonizza tutto il tempo del lavoratore utilizzandolo (e pagandolo) soltanto per la porzione che serve; come il lavoro ripartito, dove i lavoratori sono coobbligati in solido, per cui se uno si licenzia o viene licenziato capita la stessa sorte anche all’altro, a meno che il padrone non disponga diversamente; come il part-time, ormai affrancato da ogni vincolo della contrattazione collettiva e dunque utilizzabile secondo ogni possibile variante, la cosiddetta “clausola elastica” che consente le più acrobatiche escursioni sul nastro orario; come il lavoro a progetto, che è con ogni evidenza un contratto a prestazione, dove il corrispettivo economico è quello delle tariffe in vigore per il lavoro autonomo e dove non è riconosciuto alcun diritto: nulla in caso di malattia e di infortunio che anzi, dopo 30 giorni, sono giustificato motivo di recesso del contratto; come il lavoro occasionale, riservato a casalinghe, studenti, disoccupati, disabili, immigrati per piccoli lavori domestici, di giardinaggio e simili e per una durata non superiore ai 30 giorni l’anno, che saranno pagati con vouchers da 7,5 Euro per prestazione oraria, comprensiva di compenso netto, quota previdenziale e canone interpositorio per l’agenzia.
Si aggiunga a tutto ciò la nuova disciplina del socio-lavoratore di cooperativa, che afferma il primato dei regolamenti interni sul contratto di lavoro, e si avrà un quadro sufficientemente rappresentativo della devastazione in atto.
Al sindacato, infine, viene riservato il compito di compartecipare, tramite la costituzione di enti bilaterali, alla certificazione (e dunque alla legittimazione sociale) di questo ginepraio di rapporti di lavoro, inibendo ex-ante qualsiasi possibilità di successiva contestazione da parte dei singoli.
Ora, è noto che questo spettacoloso florilegio di precarietà, giustamente salutato dal presidente di Confindustria come un evento storico, come un autentico passaggio d’epoca, era ampiamente noto nella formulazione della legge delega, prima ancora che il Consiglio dei Ministri ne redigesse i decreti applicativi.
Ciò non impedì al centrosinistra di criticare apertamente l’intenzione della Cgil di promuovere due referendum, di impronta eminentemente difensiva, contro la legge delega e contro le misure limitative dell’articolo 18, ove queste fossero state trasformate in legge dal parlamento.
E, a dirla tutta, lo stesso centrosinistra non ha mostrato alcun entusiasmo neppure per la pars costruens delle proposte di legge avanzate dalla Cgil, che spaziano dalla tutela in favore dei disoccupati, dei lavoratori discontinui, dei cassaintegrati, sino ai diritti dei collaboratori coordinati e continuativi, dei dipendenti delle piccole imprese, del rito accelerato per il processo del lavoro.
4. Si tratta ora di fare in modo che la constatazione che oltre dieci milioni di elettori, vale a dire, quantitativamente, due terzi dell’elettorato del centro sinistra e del Prc messi insieme, hanno condiviso una proposta di unificazione al punto più alto dei diritti dei lavoratori dipendenti, induca qualche opportuna riflessione e spinga a ricostruire legami e rappresentanza del mondo del lavoro che sono andati via via sbiadendo.
Tutti coloro che non trovano infondata la sostanza di questa analisi e che condividono l’urgenza di un’iniziativa politica duratura devono darsi una mossa, quali che siano la propria collocazione, la propria scelta di militanza politica, senza stigmi preclusivi, velleità di primogenitura.
È mia opinione che il campo da arare sia più esteso di quanto non si pensi.
Non si tratta di aggiungere nuovi recinti a quelli che la sinistra sforna con generosa quanto inconcludente prolificità, ma di abbattere alcuni dei tanti steccati esistenti, con un preciso atto di volontà politica, alla luce del sole.
Altrimenti finiranno per prevalere recriminazioni e senso di frustrazione che non hanno mai macinato buona farina.
Se questo non accadrà, trovo assai difficile che si possa risalire il piano inclinato dal quale si è ruzzolati. Perchè quand’anche l’impressionante miscela di protervia sociale, di insipienza, di arroganza antidemocratica e di vocazione totalitaria della compagine al potere finissero per sospingere le forze di sinistra e democratiche al governo del paese, a quel punto si riproporrebbe il tema degli indirizzi di fondo, della politica economica, del blocco sociale sul quale investire per rendere quel successo duraturo e non un effimero cambio di guardia.
Non si suscitano grandi passioni, non si evoca la partecipazione consapevole alla politica se la posta per cui ci si impegna, se il giro d’orizzonte culturale dentro il quale ci si muove ridisegna troppo da vicino i tratti dell’avversario che si combatte.