La crescita economica degli Stati Uniti negli anni ’90 è stata sostenuta da una maxi-bolla speculativa. Le aspettative di profittabilità suscitate dalla “new economy” hanno indotto un crescente investimento nei mercati finanziari da parte delle famiglie e delle imprese, investimento che si risolve sia nell’acquisto diretto di azioni e altre attività finanziarie, sia nell’acquisto indiretto (fondi pensione, fondi d’investimento). L’investimento è stato reso possibile da un crescente indebitamento. Il debito delle famiglie è ormai giunto al 103% del reddito disponibile. Il risparmio privato è diventato negativo.
L’indebitamento dei privati cresce con il debito estero, che ormai ammonta al 132% del reddito nazionale, mentre le passività nette verso l’estero sono giunte al 20% del reddito nazionale.
Il debito estero è correlato a un crescente avanzo del conto dei movimenti di capitale che è servito a compensare un grosso disavanzo delle partite correnti (pari al 4% del reddito nazionale). Oggi gli Usa sono il più grande debitore del mondo.
La crescita dei valori delle attività finanziarie determinata dalla bolla speculativa ha fatto lievitare la ricchezza privata. La ricchezza netta delle famiglie è grande 6 volte il valore del reddito disponibile. D’altra parte il rapporto debito/capitale delle imprese ammonta al 35% (contro il 60% nel 1990). Questo aumento dei valori delle attività finanziare si è trasmesso all’economia reale attraverso un effetto ricchezza che ha determinato un forte aumento dei consumi.
In tali condizioni può bastare un’inversione delle aspettative per innescare un crollo della borsa e una crisi della produzione. Una volta avviata l’inversione di tendenza, si metterebbero in moto dei circoli viziosi di deflazione che potrebbero dare alla crisi dimensioni catastrofiche. La diminuzione dei valori delle attività finanziarie ridurrebbe la ricchezza e renderebbe difficile ripagare i debiti. Una parte di questi verrebbe pagata con la vendita delle azioni, il che aggraverebbe la tendenza ribassista della borsa. Un’altra parte verrebbe ripagata con l’aumento dei risparmi e quindi con la riduzione dei consumi e degli investimenti, il che aggraverebbe la recessione reale.
La Federal Reserve potrebbe cercare di contrastare la crisi per mezzo di una riduzione del tasso di sconto. Ma un tale tipo di manovra va incontro a due difficoltà.
La prima è che una riduzione dei tassi d’interesse potrebbe avviare un ridimensionamento del valore del dollaro, che è oggi fortemente sopravvalutato. Ciò contribuirebbe a invertire il flusso di capitale dall’estero, aggravando il problema del ripagamento dei debiti delle famiglie e delle imprese americane e approfondendo la crisi da deflazione del debito.
Peraltro, a fronte dell’eventuale riduzione dei tassi d’interesse nominali, che sono quelli che rilevano per i flussi monetari internazionali, potrebbe verificarsi una qualche rigidità di quelli reali, che sono quelli rilevanti per gli investimenti industriali. È possibile infatti che l’economia mondiale sia alla vigilia di un’epoca di deflazione dei prezzi. Se l’inflazione diventasse negativa, il tasso di decrescita dei prezzi costituirebbe un limite inferiore alla riduzione dei tassi d’interesse reali. E questa è la seconda difficoltà.
Alla base dell’ipotesi di deflazione dei prezzi ci sono tre osservazioni. Innanzitutto, l’attuale “rivoluzione tecnologica”, che marcerebbe sull’onda della diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tenderebbe a ridurre i costi di produzione. Inoltre la diffusione della “net-economy” anche tra le piccole imprese porterebbe a una riduzione dei costi di marketing e di distribuzione. Poi un’ulteriore spinta alla riduzione dei prezzi verrebbe dall’inasprimento della concorrenza sui mercati mondiali. Infine si deve tener conto degli effetti depressivi che la globalizzazione ha sulla forza sindacale e sulla dinamica salariale. Si può aggiungere che una recessione americana capace di innescare una depressione mondiale avrebbe anche l’effetto di calmierare i prezzi del petrolio, che potrebbero diminuire sostanzialmente nel prossimo futuro.
L’innesco della recessione americana potrebbe essere causato dall’elezione di Bush alla presidenza, cosa che peraltro i mercati finanziari hanno già cominciato ad anticipare. Bush ridurrebbe le tasse alle classi privilegiate e attaccherebbe anche quel po’ di welfare apportato dall’amministrazione Clinton. La disuguaglianza del reddito aumenterebbe e ciò causerebbe una riduzione dei consumi e della domanda aggregata. Il problema potrebbe essere aggravato se i repubblicani cercassero di compensare la riduzione delle tasse con una riduzione della spesa pubblica. In un clima politico del genere non c’è da sperare che il governo voglia usare politiche fiscali keynesiane per contrastare la recessione. È possibile che l’annunciata crisi americana resti confinata a quel continente senza produrre effetti rilevanti sulla crescita mondiale? Sarebbe possibile se gli altri due poli del capitalismo mondiale, quello europeo e quello est-asiatico, riuscissero ad avviare dei processi di sviluppo sostenuto, ma è molto improbabile che questa possibilità si realizzi. Il Giappone vive in una situazione di ristagno produttivo già dagli anni ’80. Ristagno che si è riusciti a tenere al disopra della soglia della catastrofe anche in forza della crescita americana, la quale ha permesso di far trainare l’economia giapponese dalle esportazioni. È chiaro che una recessione americana avrebbe effetti molto negativi sull’economia dell’Est asiatico. Né c’è da sperare che il governo giapponese possa contrastare autonomamente la tendenza alla crisi adottando politiche fiscali keynesiane, visto che deve oggi fronteggiare un enorme deficit di bilancio (8% del reddito nazionale) e uno spaventoso debito pubblico (150% del reddito nazionale).
Tanto meno c’è da sperare che il ruolo di locomotiva mondiale venga assunto dall’economia europea. Ciò perché il trattato di Maastricht e il patto di stabilità limitano fortemente le capacità di manovrare la politica fiscale in senso espansivo. Si aggiunga che manca comunque il soggetto politico, cioè un vero governo europeo, capace di perseguire una efficace politica fiscale. La Banca Centrale Europea potrebbe adottare delle politiche di riduzione dei tassi d’interesse, ma la recente esperienza ha dimostrato che tali politiche sono piuttosto inefficaci per rilanciare la crescita degli investimenti e dei consumi privati. Infine si può osservare che il grande capitale europeo sta ancora conducendo la sua battaglia contro il movimento operaio ed è probabile che non siano ancora terminate le manovre volte a riplasmare il mercato del lavoro e lo stato sociale in funzione della creazione delle condizioni strutturali per la torchiatura. Queste manovre passano per il mantenimento di uno stato di depressione economica.
La “crisi del 2001” è possibile, forse probabile. E sarà molto peggiore di quella del 1929.