Da più di un decennio il notevole sviluppo economico del nord-Est costituisce un forte polo d’attrazione per gli immigrati, regolari e clandestini, che qui trovano opportunità di lavoro. In provincia di Treviso una miriade di grandi, piccole e medie imprese si spargono selvaggiamente sul territorio. Un’edilizia basata sulla riconversione sfrenata della maggior parte delle aree agricole in aree fabbricabili ad uso abitativo ed industriale, ha degradato il territorio e modificato profondamente l’aspetto dei paesotti della provincia. Da Treviso sino alla dorsale Pedemontana, ora, c’è un susseguirsi ininterrotto di case-fabbriche-negozi, sorto così senza regola, come per lo più senza regole è il lavoro che ha prodotto tale ricchezza. Le piccole e medie imprese conto terzi, cuore del modello veneto e humus della protesta leghista contro “Roma ladrona” e le tasse, hanno fatto dell’autosfruttamento e dello sfruttamento estremo dei pochi dipendenti, abbinati ad una sistematica evasione fiscale, le basi di costruzione del loro successo. Lavoro ce n’é tanto e a ritmi pazzeschi. La mancanza di manodopera locale, soprattutto per i lavori più pesanti e dequalificati, ha costretto le piccole e medie imprese, per prime, ad assumere “stranieri”, gli unici disponibili sul mercato del lavoro. Le porte della grande azienda si sono aperte, invece, solo più tardi, tre o quattro anni fa. La grande azienda non ha mai brillato per accoglienza, vuole andare sul sicuro. Chi è portatore di differenze in sospetto di conflittualità con le esigenze della produzione e del profitto viene lasciato fuori fino a che è possibile o finché si ottengono precise e vantaggiose garanzie nelle assunzioni. Questa refrattarietà l’azienda l’ha manifestata in passato per le donne e recentemente per la manodopera straniera. Solo dal 1998 la Zanussi-Electrolux, ultima fra le grandi aziende, comincia ad assumere gli extracomunitari.
Attualmente sono poco più di trecento in tutto il gruppo, la maggioranza dei quali (circa un 70%) lavora proprio qui nello stabilimento di Susegana (2000 dipendenti circa). Sono per lo più Africani (del Senegal, del Camerun e della Nigeria) e recentemente anche Cinesi. Vengono assunti con contratti a termine di 1, 4 o 6 mesi, rinnovabili per un’altra volta prima di ottenere l’assunzione a tempo indeterminato. La Zanussi già da anni utilizza questi contratti: offrono la possibilità di testare la produttività e la disponibilità dei lavoratori, che per un buon lasso di tempo si trovano col fiato sul collo dell’azienda, sotto il ricatto del rinnovo del contratto o dell’assunzione. In un’azienda che spinge continuamente sui ritmi e sui carichi di lavoro, avere a disposizione questi lavoratori è una risorsa: producono di più e a qualsiasi condizione, difficilmente scioperano, e, in più, sono utilizzati come merce di scambio per ottenere sempre maggiori concessioni dal sindacato in sede contrattuale. Il turn-over di lavoratori in questi anni è stato enorme: il clima interno di forte pressione non è certo estraneo all’abbandono o al rifiuto di molti della grande fabbrica.
Il 7 dicembre 1997 viene firmato, inoltre, un accordo sul salario d’ingresso. I nuovi assunti, a parità di lavoro, si trovano per tre anni con un salario decurtato di circa 500 mila lire, rispetto ai lavoratori assunti in precedenza. Lo stipendio mensile crolla miseramente ad 1 milione e 300 mila lire. Ed é proprio con questo salario che agli inizi del 1998 entrano in Zanussi i primi extracomunitari. Per la manodopera locale, che già mal sopportava le condizioni di lavoro in fabbrica, il “gioco non vale più la candela”. Il costo della vita nel ricco Nord-Est è elevato: gli affitti si attestano intorno alle 800 mila lire per un mini-appartamento, inadeguato ad una famiglia, i prezzi di tutto sono alti e gli standard di vita pure. Vestire bene, la macchina nuova, il telefonino sono status symbol necessari, un po’ per tutti, ma soprattutto per i giovani. Il soldo è importante, anche a costo di una montagna di ore di lavoro. Il salario e i turni della Zanussi, sotto questo aspetto, non sono per nulla appetibili. Lo restano solo per chi ha urgente necessità di lavorare a qualsiasi condizione e gli extracomunitari sono il bacino di manodopera ideale da cui attingere. La Zanussi, a questo punto, deve, per forza, spalancare le sue “democratiche” porte. Il basso salario a parità di lavoro è una truffa: non risolve i problemi del duro vivere quotidiano, ma li incancrenisce. La casa è una necessità primaria per gli immigrati. Pochi l’affittano a chi è di pelle diversa e, se lo fanno, il prezzo lievita a cifre incredibili. Mai come in questi anni vere e proprie topaie, inabitabili, hanno fruttato ai legittimi proprietari come dimore di lusso. Nelle case si abita in molti per far fronte alla spesa, spesso in troppi; ma c’è anche chi la casa non la trova, o non se la può permettere, e dorme in macchina, magari nel parcheggio della fabbrica, come è successo.
L’azienda ha aperto agli stranieri, dunque, a delle condizioni precise e particolarmente vantaggiose. Ha dato meno salario per ottenere in cambio, grazie al minor potere contrattuale di questi lavoratori, massima produttività e sfruttamento. Il fatto che quasi tutti siano tesserati Cisl già prima di entrare in fabbrica, offre all’azienda ulteriori garanzie: di filtro nella scelta delle persone da assumere e di asservimento di quel sindacato che incrementa, in qualità di agente di collocamento, il suo pacchetto di tessere. Pagano il loro obolo a tutti i nuovi-assunti extracomunitari in Zanussi!
L’approvazione del salario d’ingresso, prima, e, subito dopo, il coincidere non casuale della sua applicazione con l’apertura alla manodopera straniera, sono due facce della stessa medaglia: la perdita di potere contrattuale di tutti i lavoratori, avvenuta con il consenso pieno del sindacato. Uniche voci dissonanti sui salari d’ingresso, la componente di Alternativa sindacale della Fiom- Cgil di Susegana e il circolo operaio di Rifondazione comunista, nonchè1100 lavoratori di quello stesso stabilimento (80%) che già a marzo 1998 hanno firmato una petizione di rifiuto. Sono rimasti inascoltati. A nulla è valsa anche una manifestazione di circa 3000 lavoratori a settembre dello stesso anno a Treviso. L’asso nella manica dell’azienda sono stati gli stranieri e la loro necessità estrema di lavoro.
A questi avvenimenti la stampa non ha dato gran risalto. Ha suscitato clamore, invece, un anno più tardi, un secondo accordo, anch’esso siglato, all’insaputa dei lavoratori e delle Rsu, a livello nazionale. L’accordo del 18.10.1999 ha per contenuto la normativa relativa ai “congedi per l’unità famigliare” per i lavoratori extracomunitari. È il primo accordo di questo tipo in Italia. I suoi autori, padroni e sindacato, l’hanno definito “un accordo di avanguardia, costruito nel rispetto del modello di relazioni industriali partecipative”. L’accordo, che ratifica una proposta dell’apposita Consulta per l’integrazione istituita a livello nazionale tra azienda e sindacato, fa risultare per la prima volta gli extracomunitari come soggetti in sede contrattuale.
L’accordo segue uno strano percorso. Non viene reso noto, né alle Rsu, né ai lavoratori. Il sindacato tace. In fabbrica girano delle voci e destano malumore. Qualche capo accenna a ferie lunghe per gli extracomunitari. Il passaparola crea una reazione non buona, considerato che le settimane di ferie estive, quando la fabbrica è più in vivibile, sono solo due. Cresce una certa tensione. Il 28 ottobre, finalmente, azienda e sindacati in una conferenza stampa a Treviso presentano pubblicamente l’accordo. Il tutto avviene un po’ sottotono e modesto é lo spazio riservato alla notizia sui giornali locali. A far scoppiare il caso e a far conoscere a tutti gli operai l’esatto contenuto dell’accordo é un volantino del circolo di Rifondazione comunista di fabbrica, titolato provocatoriamente “Mandiamo in ferie le disuguaglianze”.
L’accordo viene analizzato in modo puntuale e critico e ne viene svelata la vera natura: si tratta di un ulteriore attacco aziendale all’unità contrattuale della classe operaia che utilizza, questa volta, una variabile di razza, pericolosa ed indubbiamente discriminatoria.
Il contenuto dell’accordo, in sé, prevede la possibilità, per i lavoratori immigrati dai paesi extracomunitari, di ottenere il permesso di assentarsi dal lavoro per 50 giorni di fila per raggiungere la famiglia. È valido solo per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato che possono mettere assieme ferie maturate non godute, permessi retribuiti, banca ore, festività soppresse fino ad un totale di 50 giorni, o, in alternativa, se non raggiungono tale quota, integrarla, nei primi tre anni di assunzione e per una volta sola, con al massimo 40 giorni di aspettativa non retribuita. Altri sono i limiti imposti: i congedi saranno concessi solo nei periodi di minore intensità lavorativa e compatibili con le con le esigenze tecnico-organizzative e produttive dell’azienda e per una percentuale massima di lavoratori assenti nello stesso periodo non superiore all’1%. In pratica è l’azienda a decidere il periodo e a fruirne sono al massimo venti extracomunitari, che devono aver formulato regolare richiesta di queste “ferie” almeno 90 giorni prima e per iscritto. La discrezionalità aziendale è veramente assoluta. L’accordo “è costruito su una base di perenne ricatto, sulla rinuncia a qualsiasi altro momento di fermata collettiva, e chi è a tre turni non riesce comunque a mettere insieme 50 giorni. Ma soprattutto tacciono (azienda e sindacati) sul fatto che i venti fortunati vanno scelti tra altri 300 e che, quindi, il padrone aprirà il mercato dei ricatti tra questi lavoratori, concedendo solo ai più accondiscendenti, con tutto ciò che questo significa, di usufruire di questo “vantaggio”. Supponendo, inoltre, una rotazione, tra l’altro non prevista nell’accordo, si potrebbe in media usufruire di questo diritto solo una volta ogni 13 anni” (intervento di Paola Morandin, segretaria del circolo del Prc Zanussi-Susegana).
Oltre alle obbiezioni specifiche, è l’impianto stesso dell’accordo ad essere respinto. Il circolo di Rifondazione condanna azienda e sindacati per “la scelta di aprire la strada ad una contrattazione separata, che non guarda alle risposte di un bisogno, ma all’appartenenza ad una comunità o, se si preferisce, alla non appartenenza alla Comunità Europea … In quell’accordo non è la condizione di bisogno (avere la famiglia lontana migliaia di Km) che dà al lavoratore la possibilità di accedere al diritto, ma la discriminante “etnica”: sei extracomunitario hai queste regole, non lo sei ne hai altre, anche se la necessità fosse la stessa. Questo è il pericoloso elemento di divisione introdotto, oggi sulle ferie e domani? …Noi pratichiamo concretamente la solidarietà e ci battiamo per il riconoscimento dei diritti di diversità. Pensiamo, però, che debbano essere collegati all’universalità dei diritti dei lavoratori che è elemento essenziale per l’unità e per esercitare la forza insita nell’unità dei lavoratori stessi.” (Paola Morandin). Siamo, in effetti, di fronte al potente “dividi et impera” del padrone, e non ad un gesto generoso. É un ulteriore elemento di divisione, oltre ai salari d’ingresso, che spinge verso una contrattazione sempre più flessibile e personalizzata, per lasciare gli operai soli, disuniti, di fronte allo strapotere aziendale. Cavalcare la discriminante etnica è, in più, molto pericoloso in un Nord-Est che ha terrore dei diversi, che esige ordine, che crea ronde padane, che teme, assieme al suo clero, il pericolo di “colonizzazione islamica”. La paura impedisce di vedere a questo popolo di ex-immigrati le condizioni reali di vita degli extracomunitari. Non scatta nessuna identificazione nel ricordo del passato migrante, velocemente rimosso. Le opportunità consumistiche, offerte dall’arricchimento recente, stordiscono troppo. Le sempre maggiori difficoltà del presente e la riaffiorante incertezza nel futuro si esprimono piuttosto in aggressiva autoconservazione, in egoistica difesa dei propri privilegi.
Il volantino contro l’accordo dei compagni della Zanussi di Susegana mette il dito su questo intreccio e solleva un vespaio. L’azienda e il sindacato tuonano prima dai giornali locali e, poi, anche da quelli nazionali e accusano il circolo di essere razzista, di essere contro l’accordo perché favorisce gli extracomunitari a discapito degli italiani. Rossi in fabbrica, leghisti fuori, li chiama Maurizio Castro, dirigente del gruppo. Fiom-Fim-Uim dalle pagine della defunta Unità scomodano anche don Milani: “Non è giusto fare parti uguali tra diseguali”. Sotto silenzio passa, invece, il fatto che su un terreno di discriminazione reale e di divisione tra lavoratori non si costruisce nessun accordo parziale che favorisca integrazione e tutela delle differenti identità. L’attacco è violento e distorti i contenuti dei volantini del circolo, che puntualmente replica e ripresenta le proprie argomentazioni. “Solo se si estende il diritto a tutti i lavoratori e si permette di usufruirne in base ai bisogni effettivi siamo in presenza di un reale avanzamento e non si mettono gli italiani contro gli extracomunitari e gli extracomunitari in lotta tra loro. Si eliminino i salari d’ingresso e si permetta a questi lavoratori, a parità di lavoro, di avere una retribuzione adeguata, ci si batta per risolvere l’emergenza della casa: questi sono i problemi prioritari da affrontare”. Ma questo sulla stampa non fa sensazione quanto le accuse dell’azienda!
I giornali fanno intervenire anche gli extracomunitari, utilizzandoli contro. Nelle loro dichiarazioni emergono, però, tutti gli elementi focalizzati dai compagni. Grace Agaren, nigeriana, afferma: “Ci trattano bene, anche se a qualcuno di noi non hanno rinnovato il contratto, anche se il lavoro c’era. Questi congedi sono giusti perché noi non ci tiriamo mai indietro quando si tratta di fare straordinari”. In genere, però, sono poche le parole che spendono a favore dell’accordo, e molte quelle dedicate al basso salario, ai costi per la casa, alla difficoltà di risparmiare, al desiderio di portare la famiglia qui, alla fatica per mettere insieme i soldi per il biglietto dell’aereo. Tutto questo passa in second’ordine. L’importante è sottolineare sempre la filantropia dell’azienda, e del sindacato, salvare la facciata di perbenismo che ben convive con l’intolleranza profonda e con il mantenimento dei propri privilegi e profitti. Un astuto paternalismo muove queste concessioni finto-caritatevoli con lo scopo d’approfondire le disuguaglianze e bloccare le possibili contraddizioni sociali. È la vittoria dell’ideologia aziendale che permea ormai il sindacato, la classe politica e l’opinione pubblica e che non tollera chi le scompiglia i piani.
Non si perdona nulla ai compagni che l’hanno smascherata. Le loro voci fuori del coro sanno però parlare agli operai, ricordandoli che non sono azienda, che i loro bisogni di rado coincidono con gli obbiettivi dell’impresa, e che non si possono chiamare ferie-diritto per gli extracomunitari ciò che non è altro che nuova flessibilità produttiva.
L’intervento del partito, gli articoli di Liberazione, tolgono i compagni del circolo operaio dall’isolamento. Non è un semplice sostegno, ma una battaglia comune contro un potente attacco dei padroni. Si apre un dibattito all’interno della Fiom Cgil, che è costretta, almeno, a ridimensionare l’esaltazione iniziale sugli aspetti “progressivi e filantropici” dell’accordo. Qualche lentezza nella comprensione l’ha, invece, di primo acchito, la struttura di partito provinciale. Il volantino suscita perplessità e contrasto perché non viene recepita la reale portata di fondo dell’accordo e nemmeno la violenta reazione dell’azienda. Questa difficoltà è segno di una distanza, presente al nostro interno, dai reali meccanismi del mondo del lavoro. Non va sottovalutata, o condannata, ma problematizzata. Certi automatismi immediati agli operai della fabbrica, ad esempio anche la semplice certezza che, se il padrone tuona dai giornali nazionali, qualcosa di grosso si è toccato, ed è, senza ombra di dubbio, una fregatura per gli operai, non sono più un portato comune al nostro interno. L’esempio è banale, ma indicativo e solleva delle riflessioni. La perdita di certi automatismi, i tentennamenti avuti in questa occasione, vanno recepiti come un ritardo che rischia di avvitare il partito su se stesso. Non siamo immuni dalla subalternità culturale alla logica vincente dell’azienda che permea ormai tutto il quadro sociale, compresi i partiti della “sinistra” moderata e i sindacati; e nemmeno lo siamo dalla fuga verso velleitari estremismi di testimonianza, disancorati o superficialmente ancorati alla realtà. Va, dunque, riproposta con forza la centralità del mondo del lavoro, in tutte le sue diversificate forme, come fonte di valore e di ricchezza e quindi come terreno di reale conflitto. Senza riappropriarci di questo rischiamo di perdere la capacità di comprensione e di intervento politico proprio sul quel terreno dove si misurano i concreti rapporti di forza e la nostra reale capacità di essere vicini alla gente, portavoci dei loro bisogni. Vanno potenziati i circoli esistenti nei luoghi di lavoro, laboratori formidabili di concreta iniziativa politica antagonista che s’irradia sul territorio. La loro esperienza deve diventare patrimonio di conoscenza comune, terreno da cui partire per riproporre un’analisi critica sulle nuove e molteplici forme dell’organizzazione del lavoro attuale. Va ripresa una seria analisi e aperto un chiaro dibattito sulle nostre prospettive a medio e lungo termine relative alla ricostituzione di un blocco sociale antagonista.
Ad un anno di distanza dall’accordo sui congedi lunghi per i cittadini extracomunitari, si può tentare un piccolo bilancio.
In un anno a Susegana solo venti extracomunitari hanno usufruito del congedo.
L’accordo si è rilevato essere un vero e proprio “specchietto per le allodole”. È servito all’azienda per cominciare a legare più a sé gli extracomunitari, in quanto soggetti meno adattati alla logica aziendale. Quest’ultimo dato, che va tenuto in considerazione, emerge chiaramente dall’alto numero di lettere di contestazione che hanno questi lavoratori, dal loro maggior assenteismo e dalla maggior facilità a cambiare i luoghi di lavoro, nonché dalla loro buona partecipazione alle varie iniziative di lotta in fabbrica. (I compagni s’impegnano a tradurre i volantini nelle varie lingue.)
È stato funzionale a creare maggior divisione fra i lavoratori extracomunitari e fra questi e gli italiani. Come primo accordo di questo tipo firmato in Italia ha avuto la funzione di testa di ponte per aprire la strada ad un nuovo tipo di contrattazione segmentata riguardante una categoria di soggetti apportatori di una diversità specifica (essere extracomunitari), con lo scopo di frammentare la classe operaia. La Zanussi anche in questo caso ha mantenuto fede al suo ruolo di laboratorio di sperimentazione per la Confindustria di accordi innovativi da estendere poi sul piano nazionale. Qui si è sperimentata per la prima volta la concertazione e qui, pochi mesi fa, si è cercato di introdurre il “Job on Call”, il lavoro a chiamata, o “l’operaio squillo”, completamente a disposizione dell’azienda. I compagni del circolo, sorretti dal partito, hanno affrontato di nuovo, con forza, questa ennesima battaglia contro la flessibilità e la precarizzazione del lavoro e gli operai hanno risposto. L’accordo è stato bocciato in quasi tutti gli stabilimenti del gruppo Zanussi e i sindacati, questa volta, non hanno potuto non tenerne conto. Va data anche una valutazione su questo sindacato partecipativo, che tanto entusiasticamente sposa tutti gli accordi proposti dall’azienda e si erge come paladino a difenderli. È lontano dai bisogni dei lavoratori, vedi anche il caso degli extracomunitari, e continua, imperterrito, a perseguire una politica perdente di divisione del mondo del lavoro. Ha diviso pubblico e privato, la grande dalla piccola fabbrica, le generazioni tra loro (gli anziani dai giovani) e, ora, persegue la stessa linea anche con i nuovi soggetti sociali che entrano nel mondo del lavoro: gli immigrati. L’unica unità che concretamente riesce a realizzare è quella di un reale peggioramento delle condizioni di lavoro, valido, questo sì, per tutti i lavoratori.
* hanno collaborato Vittorio Zanardo e Paola Morandin