Il 21 gennaio 1921 e il nostro presente

Che senso ha oggi, a 84 anni di distanza, ricordare, commemorare, la nascita del partito comunista? Senso politico, intendo dire, per i comunisti che operano oggi, in un contesto e in una situazione molto lontani da quelli in cui i delegati della “mozione di Imola” decisero a Livorno di abbandonare il congresso del PSI al teatro Goldoni e di dirigersi al teatro San Marco per deliberare la costituzione del “Partito Comunista, Sezione italiana della Terza Internazionale”.
Rispetto al 1921 sono mutate moltissime cose, nel nostro paese e nel mondo. Quasi un secolo ci separa da quell’evento, ed è un secolo densissimo di storia e di trasformazioni.
I comunisti che si accinsero allora alla straordinaria impresa di dar vita a un nuovo partito in rottura con un forte partito socialista, assumendosi una grande responsabilità storica, avevano alle spalle una Russia rivoluzionaria vittoriosa, che stava compiendo i primi passi di una radicale trasformazione sociale, operavano in un mondo in cui il capitalismo, che aveva scatenato una guerra di dimensioni catastrofiche, appariva morente, in declino, incapace di riorganizzare la produzione e la vita sociale, tanto meno di esercitare egemonia (per cui il giovane gruppo dei comunisti torinesi, con Gramsci, pensò di fondare una nuova rivista intitolata all’ Ordine nuovo che si sarebbe edificato sulle macerie del vecchio mondo in decomposizione), mentre la prospettiva di una rivoluzione in alcuni paesi dell’Occidente (Austria, Ungheria, Germania) sembrava a portata di mano, e l’Italia del 1919-1920 era percorsa da scioperi, occupazioni delle terre e delle fabbriche di enorme intensità, forza e radicalità nelle forme di lotta e negli obiettivi.
Oggi non c’è una retrovia comunista per la rivoluzione mondiale; l’imperialismo vive profonde contraddizioni e suscita, dalla Palestina all’Iraq, all’America Latina, opposizione e resistenze, ma è all’offensiva, conservando ancora elementi di egemonia oltre che di forza militare; il risveglio dei movimenti di lotta in Italia riesce ad esprimere capacità difensiva e a rompere la gabbia ideologica dell’orizzonte capitalistico quale unico modo di produzione possibile, a parlare dell’esigenza di un’alternativa sociale mondiale, ma non è paragonabile all’intensità e alla forza espressi nel biennio rosso.

Vi sono modi diversi per una formazione politica di rivolgersi al proprio passato. Lo si può fare trasferendosi totalmente dal tempo presente in quello passato, accogliendo in toto il passato come se la storia non avesse arato altri terreni e compiuto nuovi percorsi. È il modo della nostalgia e dell’agiografia, che è incapace di cogliere le trasformazioni in corso, che ritorna indietro in un tempo mitico. Si può fare anche l’operazione inversa, riscrivendo il passato alla luce del presente, selezionando la memoria di esso alla luce delle scelte tattiche immediate. È il modo bassamente strumentale di rapportarsi con la propria storia, tradendola. E vi è il modo di ricordare per svuotare di significato, di trasformare il passato in un’icona davanti a cui inchinarsi religiosamente, ma della quale si è smarrito il senso. È l’evocazione di uno spettro privato della sua essenza, portato come un santo al capezzale, senza più memoria effettiva di quel che fu (un po’ come il volto di Che Guevara che si trova nei poster delle sale da biliardo o inciso sulle Tshort). Vi è la forma del ripudio del passato, il dichiararlo non solo irrimediabilmente lontano dal presente, ma opposto a quello che oggi si vuole essere. È il rifiuto della propria storia, della propria eredità, dei propri padri, che porta a cercarsi altre origini, altre tradizioni, a un passaggio di campo teorico e politico, come è avvenuto in modo massiccio nella fase acuta della crisi dell’URSS e delle società est-europee, quando decine di migliaia di comunisti sono divenuti nello spazio di un mattino liberal-democratici, innamorati del libero mercato e della proprietà privata. E vi è infine il modo della rimozione pura e semplice, che preferisce non ricordare e non commemorare, tanto quel passato – anche rivisitato e revisionato – viene avvertito da taluni distante dalle forme, dai modi, dalle idealità e obiettivi del presente. È la damnatio memoriae che oggi sta colpendo tanta parte della storia dei comunisti e alla quale contribuisce anche quella parte del “movimento” che con quella storia ha preferito tagliare i ponti.
Nei confronti della storia dei comunisti si sono di recente praticati gli ultimi due modi, ripudio e rimozione, spesso, purtroppo, dall’interno stesso del PRC.
Qui cercherò di esporre le ragioni per cui la commemorazione del 21 gennaio 1921 è oggi un passaggio politico-culturale importante.
Non praticherò, però, la strada della nostalgia, anche se a quella storia e ai compagni che ne furono protagonisti guardiamo con l’affetto, la simpatia, il rispetto dovuti a chi si sobbarcò un compito immenso su ancora gracili spalle; non diremo acriticamente che il partito comunista nato dalla scissione dal PSI a Livorno è il modello di partito che oggi è necessario e che altri migliori e più adeguati non possono esservi. Né proverò a riscrivere la storia ad uso della tattica presente. Non sorvolerò, dunque, sul fatto che il programma di Imola della frazione comunista dichiarava con nettezza che “il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese” (punto 3); o che “dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato statale borghese e con la instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese” (punto 6); o, ancora, che “la forma di rappresentanza politica nello stato proletario è il sistema dei consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, inizio della rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura del proletariato” (punto 7). Il partito comunista nacque sulla base del grande impulso dato a tutte le forze rivoluzionarie antimperialiste e anticolonialiste nel mondo dalla rivoluzione d’Ottobre, cui seguì la formazione dell’Internazionale Comunista, che dettò le 21 condizioni ai partiti socialisti e operai per aderire ad essa. Le modalità e le condizioni, i caratteri con cui nasce a Livorno il partito comunista furono oggetto di riflessione critica tra gli stessi protagonisti della scissione sin dalla prima metà degli anni venti, nella lotta che oppose Bordiga a Gramsci, fino al congresso di Lione del 1926. E, successivamente, la ricostruzione critica e il dibattito storiografico sulla formazione del partito comunista conosceranno in Italia una grande stagione tra gli anni ‘60 e i primi anni ’80, quando nel partito comunista e tra gli intellettuali marxisti, nelle formazioni politiche comuniste e rivoluzionarie costituitesi tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 la storia del partito comunista era oggetto di appassionati dibattiti e studi, a differenza di oggi, quando prevale l’azzeramento della memoria storica.
Credo che quella storia vada ancora oggi studiata e appresa con rispetto, passione e simpatia critica, senza appiattire il presente su di essa e senza appiattire quella storia sul presente. Non farò del 1921 un’icona vuota di senso, né trasformerò gli eventi del 1921 in quello che oggi sembrerebbe più opportuno per una formazione comunista del tempo presente. Come non intendo rimuovere né ripudiare la nostra storia, non intendo praticare la forma della nostalgia né tantomeno quella del travisamento.
In netta contrapposizione con chi ha abbandonato e ripudiato quel passato, concependo la “rifondazione comunista” come cesura con esso, non intendo però celebrare un rituale consumato nella nostra polemica con chi taglia i ponti della storia dei comunisti e ignora volutamente che l’abbandono di una tradizione comporta spesso non l’approdo a nuovi lidi, ma l’accogliere come riferimento altre tradizioni più forti di altra parte (e così il teorico liberaldemocratico Norberto Bobbio sostituisce Lenin).

Qual è allora il senso politico con cui guardare oggi alla costituzione del partito comunista in Italia? Perché insistere nella commemorazione di un evento da cui ci separano lunghi decenni di storia e il mutamento di moltissime condizioni che allora presiedettero alla nascita del comunismo novecentesco? Non è questa la sede di un convegno di storia del partito comunista (di cui pure ci sarebbe tanto bisogno per la formazione politica dei militanti).
Commemorare la nascita del Pcdi significa in primo luogo, non sembri banale, ricordarci di essere comunisti, ricordare cioè che – al di là della tanta acqua passata sotto i ponti e delle tante trasformazioni intervenute nelle forme e nei modi del nostro agire politico – le nostre origini, insieme con il nome di “comunista”, hanno le loro radici in quegli eventi.
Il senso politico della commemorazione del 1921 va colto nella domanda di senso che una formazione politica (che sia politica e non lobby di interessi) si pone. Nel ricordo delle proprie origini, nel confronto con esse, si chiarisce il senso dell’agire politico presente, il valore strategico delle scelte, le ragioni profonde e durature del proprio essere partito politico comunista . Non è solo un doveroso e non formale omaggio agli eroici compagni che affrontando sacrifici e lotte diedero vita al partito. Anche se questo va fatto, e in modo assolutamente non formale. Ricordare e riflettere sulla propria storia è un momento essenziale nella vita di una formazione politica che abbia della politica una concezione alta, di progetto strategico e non di galleggiamento nella palude dell’esistente. Dire che il nostro essere comunisti affonda le sue radici nella nascita del partito comunista nel 1921 significa riaffermare che il comunismo del terzo millennio è figlio – sviluppato, maturo, carico di non pochi anni di storia – della grande rivoluzione, mondiale e non solo russa, che si avviò con il 7 novembre 1917, dalla quale trassero ispirazione i partiti comunisti che si costituirono negli anni venti, ad occidente e ad oriente. E ciò significa che il comunismo al quale ci riferiamo non trae la sua origine in un passato indeterminato e confuso, ma in una rivoluzione, che, nell’elaborazione del suo massimo interprete, Lenin, sintetizzava e sviluppava il patrimonio di elaborazioni teoriche e di lotte politiche e sociali del movimento operaio dell’800 alla luce delle grandi trasformazioni intervenute con l’affermarsi dell’età dell’imperialismo e della guerra.
La scelta stessa del nome “comunista” da dare ai nuovi partiti traeva origine dalla rottura consapevole con i partiti socialisti e lavoristi precedenti, perché questi avevano tradito il loro compito, schierandosi con le rispettive borghesie nella guerra mondiale del 1914.
Rivendicare, pur nelle profonde differenze dell’oggi, una continuità con la costituzione dei partiti comunisti sorti su impulso della rivoluzione d’ottobre è una scelta fondamentale. Non significa copiare pedissequamente quel passato: sarebbe anacronistico (come mostra il fallimento dei tentativi di dar vita a micropartiti politici rimodellati su quello del 21), ma significa porre con chiarezza la questione di quello che con metafora tolta alla biologia chiamiamo “codice genetico” dei comunisti. È solo con la nascita dell’Internazionale su impulso della vittoriosa rivoluzione d’ottobre che si chiariscono, con una coscienza del fine mai vista, i programmi e la prospettiva strategica della rivoluzione mondiale alla quale ogni partito comunista nazionale fu chiamato a contribuire. Prima di quella rivoluzione i partiti – anche quelli rivoluzionari – si chiamavano “socialdemocratici”. I maggiori partiti sorti nella seconda metà dell’800, a cominciare da quello tedesco, preferirono questa denominazione. Così fu anche per quello russo e per la frazione bolscevica guidata da Lenin. I partiti socialisti della seconda internazionale, dal 1889 al 1914, furono parlamentaristi, gradualisti evoluzionisti, riformisti. Essi costruirono vaste e potenti organizzazioni, seppero dar vita a forti sindacati, riuscirono a volte a contrattare discrete condizioni per il proletariato, ma non seppero o non vollero comprendere le contraddizioni dirompenti che l’imperialismo creava, e finirono, con qualche eccezione, con lo schierarsi con i rispettivi parlamenti per la guerra: furono “socialpatrioti”. Non seppero fermare la guerra, né seppero o vollero tra sformare la guerra in rivoluzione sociale, come fecero i bolscevichi.
Il comunismo contemporaneo, il nostro comunismo, nasce in rottura con la tradizione, le concezioni, la pratica politica e il “cretinismo parlamentare” della socialdemocrazia ottocentesca. La costituzione del Pcdi è forse il caso più emblematico di questa rottura, perché, a differenza dei partiti socialisti francese e tedesco, il partito italiano non aveva votato né sostenuto la guerra (si comportò molto meglio del partito di D’Alema in occasione della guerra della NATO contro la Jugoslavia nel 1999), e aveva al suo interno una maggioranza – il centro di Serrati – che apprezzava la rivoluzione d’ottobre e non rifiutava in linea di principio i 21 punti dell’Internazionale Comunista. Eppure, per il modo in cui questo partito e i suoi rappresentanti nella CGL si erano comportati durante le lotte del 1919-1920, per la mancanza di direzione politica rivoluzionaria, per le oscillazioni e le ambiguità del centro di Serrati, la frazione dei “comunisti puri” decise di separarsi dal PSI e dar vita al Pcdi. Nella consapevolezza della gravità dell’atto, soprattutto in una fase in cui l’azione squadristica del fascismo aveva cominciato a manifestarsi pericolosamente, si ritenne comunque necessaria la scissione, perché si trattava di affermare una diversità radicale. Ciò che rendeva comunista il partito era la coscienza del fine strategico da raggiungere, la consapevolezza dello scontro sociale di lunga durata tra proletariato e borghesia, tra sfruttati e sfruttatori, che doveva sfociare nella socializzazione dei mezzi di produzione dopo la conquista del potere politico e l’esproprio delle classi borghesi e agrarie: “noi comunisti pensiamo che ogni modificazione nel regime economico e di produzione non possa che essere susseguente alla presa di possesso del potere politico, che essa non deve essere semplicemente un velo, o una panacea che nulla guarisce, ma debba veramente essere un avviamento alla vera socializzazione”(1) .
Il partito comunista che nasce a Livorno reca dunque con sé, nel suo codice genetico, una radicale alterità rispetto non solo ai partiti conservatori e borghesi, ma anche a quelli socialdemocratici, riformisti, lavoristi, a quelli che si chiamerebbero oggi di centro-sinistra o di sinistra. Questa alterità consiste non tanto nella qualità morale dei suoi militanti – anche se i leader comunisti ne fecero motivo di vanto e d’orgoglio – ma nel progetto politico, nello scopo finale, nella visione generale della società. Il partito comunista non accetta l’orizzonte borghese, l’economia di mercato, il sistema capitalistico, si batte per un suo reale superamento nella società socialista, mentre i partiti conservatori, borghesi o riformisti si muovono tutti all’interno di quest’orizzonte. I comunisti si propongono di rivoluzionare la società, i rapporti di proprietà, mentre i partiti riformisti si propongono di gestire in modo diverso o più razionale l’esistente, non hanno il “tormento” comunista della rivoluzione sociale. Nel codice genetico dei comunisti del 1921 c’è questa alterità di visione del mondo e di progetto. Il che non significa che i comunisti non possano collaborare con gli altri partiti socialdemocratici o lavoristi in lotte comuni per l’affermazione di diritti, per la difesa degli interessi degli sfruttati, ma significa che i comunisti mantengono ben netto, anche durante queste alleanze, il loro fine strategico, il compito che si sono dati col loro atto di nascita.
Commemorare le proprie origini, allora, non è solo un atto dovuto, un omaggio tributato ai “padri fondatori”, ma significa non smarrire le ragioni di fondo del proprio essere, lo scopo finale per il quale si è comunisti e non genericamente “sinistra”, la discriminante essenziale che separa chi concepisce il suo agire politico tutto all’interno del sistema capitalistico e imperialistico e chi agisce politicamente per operare una rivoluzione dei rapporti di produzione. Qui non si discute delmodo in cui l’obiettivo si potrebbe realizzare, non si può affrontare dogmaticamente la questione delle forme e dei metodi di lotta; non è questo che contraddistingue i comunisti, che nel corso della loro storia hanno sperimentato la combinazione e l’esistenza di forme diverse di lotta. Ma la discriminante di fondo è nel fatto che il partito comunista colloca ogni sua azione politica all’interno della strategia di trasformazione dei rapporti di proprietà, o meglio, dei rapporti sociali di produzione, nozione che indica in modo più ampio e determinato il processo sociale complessivo. La differenza dei comunisti dalla “sinistra”, anche da quella che si definisce radicale, è nel fatto che i comunisti hanno consapevolezza del fine – il superamento del capitalismo nel socialismo – che si fonda sull’analisi materialistica dei rapporti di produzione. Nell’organizzare o partecipare alle lotte, essi guardano alla prospettiva. Altrimenti non avrebbe alcun senso definirsi comunisti, si potrebbe benissimo marciare sotto le bandiere di un partito riformista o laburista.
Nella ragnatela dei fatti quotidiani, nel mercato della politica e delle schermaglie politiciste in cui si annega ogni riferimento alle classi sociali e si parla solo di alchimie di schieramenti, di “poli”, “GAD”, eccetera, rischia di smarrirsi il fine, la ragione di fondo, il codice genetico dei comunisti. Ecco che commemorare la nascita del partito non è operazione nostalgica, rituale, archeologica, ma è una bussola che indirizza il nostro agire presente. L’epoca storica in cui nacque il comunismo del 900 non è finita, le contraddizioni del capitalismo sono oggi ancora più acute, coinvolgono anche l’ambiente e mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa del pianeta, richiedono, con forza ben maggiore che in passato, la soluzione. Le forme e modi di una trasformazione rivoluzionaria non possono certamente essere la fotocopia del passato, mutano, ma dare soluzione alle contraddizioni antagonistiche del mondo rimane la necessità e l’obiettivo della nostra epoca storica. Carico di storia, ma ancora giovane e vitale, il comunismo è il futuro dell’umanità.

Note

1 Dal discorso di Umberto Terracini al congresso del PSI a Livorno, 17 gennaio 1921, in Livorno 1921 – documenti e discorsi, ed. Laboratorio Politico, Napoli ,1996, pp. 62-63.