Guerra e terrorismo alla luce della storia degli ultimi decenni

COME GLI STATI UNITI ALIMENTANO IL TERRORE. CUPI SCENARI DI GUERRA E RUOLO FONDAMENTALE DELLA RESISTENZA.

Lo slogan «no alla guerra, no al terrorismo » esprime la volontà di pace che anima un vasto e variegato movimento. Ma, limitandosi a ripeterlo nelle piazze o nei talk show televisivi, si alimentano due pericolosi equivoci: da un lato, lo slogan dà l’idea che si tratti di due distinte e contrapposte fonti di minaccia; dall’altro, accetta acriticamente la categoria di terrorismo così come è stata coniata a Washington.
È proprio facendo leva sulla psicosi del terrorismo, presentato come il principale nemico non solo dell’ America ma dell’umanità, che l’amministrazione Bush ha raccolto i consensi che le hanno permesso, assieme ad altri fattori relativi al sistema elettorale e alla possibilità di brogli, di ottenere un secondo mandato.
Sulla stessa psicosi, sapientemente creata e alimentata dai repubblicani dell’amministrazione Bush, aveva fatto leva anche il democratico John Kerry nella sua corsa alla Casa bianca. «La guerra contro il terrorismo è la lotta fondamentale del nostro tempo», aveva dichiarato nel suo discorso programmatico alla Temple University (25 settembre 2004), ribadendo che «il suo esito determinerà se noi e i nostri figli vivremo nella libertà o nella paura», in quanto «è uno scontro tra la civiltà e i nemici della civiltà, tra le migliori speranze dell’umanità e le paure più primitive». E aveva concluso: «Ci stiamo confrontando con un nemico e una ideologia che devono essere distrutti. Siamo in guerra. Siamo in una guerra che dobbiamo vincere».
È quindi ancora più importante non accettare acriticamente la categoria di terrorismo, così come è stata coniata a Washington . Occorre invece capire che cosa abbia determinato l’insorgere di tale fenomeno e che cosa sia classificabile come terrorismo. Per farlo, non c’è che un modo: analizzarlo sullo sfondo degli avvenimenti storici degli ultimi decenni.

UN’IDEA PERFETTA DI NEMICO

Il 1° luglio 1991, preceduto dal «crollo del Muro di Berlino» (9 novembre 1989), si dissolve il Patto di Varsavia: i sei paesi dell’Europa centro- orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell’Urss. Il 26 dicembre 1991, si dissolve la stessa Unione sovietica: al posto di un unico stato se ne formano quindici. La scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione dell’Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
Il mondo a questo punto è a un bivio. La decisione di quale delle due vie imboccare è sostanzialmente nelle mani di Washington: da un lato c’è la possibilità di avviare un reale processo di disarmo, cominciando con lo stabilire, in linea con la proposta di Gorbaciov, un programma finalizzato alla completa eliminazione delle armi nucleari; dall’altro, c’è la possibilità di approfittare della scomparsa della superpotenza rivale per accrescere la superiorità strategica degli Stati uniti d’America, rimasti l’unica superpotenza sulla scena mondiale. Senza un attimo di esitazione a Washington imboccano la seconda via.
Il «nuovo ordine mondiale», che i governanti di Washington enunciano in questo periodo, è concepito come un sistema globale incentrato sulla leadership statunitense, all’interno del quale ogni paese deve avere un ruolo funzionale agli interessi statunitensi. Da qui il concetto di una stabilità intesa come conservazione e rafforzamento dei fattori su cui poggia la leader-ship statunitense, e quello di una «sicurezza nazionale» che, travalicando i confini, ingloba ogni regione del mondo, in quanto ogni regione è in varia misura importante per gli interessi della «potenza globale » statunitense. Da qui la giustificazione dell’impiego delle forze armate statunitensi ovunque nel mondo sorgano fattori di instabilità che possano mettere in pericolo la stabilità funzionale agli interessi e alla leadership globale degli Stati uniti d’America.
Il rinnovato sforzo bellico viene accompagnato, a Washington, dalla ridefinizione del nemico da combattere. Durante la guerra fredda, era chiaro quale fosse il nemico degli Stati uniti: l’«impero del male», rappresentato dall’Unione sovietica. A un certo punto però essa si disgrega, lasciandoli nella posizione di unica superpotenza, ma di fronte a un grave dilemma: qual è ora il nemico? Senza più la «minaccia sovietica », come avrebbero potuto gli Usa continuare ad armarsi e mantenere la loro indiscussa leadership nei confronti degli alleati, soprattutto europei?
Viene allora introdotta la formula delle «minacce regionali», sulla cui base sono condotte le prime due guerre del dopo-guerra fredda: quella del Golfo (sotto la presidenza del repubblicano George Bush) e quella contro la Jugoslavia (sotto la presidenza del democratico Bill Clinton). Ambedue focalizzate sul nemico numero uno del momento, prima Saddam Hussein, quindi Slobodan Milosevic.
Con la prima guerra gli Usa rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove sono concentrati i due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Con la seconda, rafforzano la loro presenza e influenza in Europa, nel momento critico in cui se ne stanno ridisegnando gli assetti, e rivitalizzano la Nato attribuendole (col consenso degli alleati) il diritto di intervenire fuori area ed estendendola ad Est nei paesi dell’ex Patto di Varsavia.
Il mondo però non va come decidono alla Casa bianca. L’economia statunitense, pur restando la maggiore, perde terreno soprattutto nei confronti di quella dell’Unione europea ed entra in recessione. Contemporaneamente, in Arabia saudita e nel mondo arabo vi sono crescenti segni di insofferenza di fronte al predominio statunitense e alla stessa presenza militare Usa nella penisola arabica, mentre in Asia il riavvicinamento russo-cinese prospetta la possibilità di una coalizione in grado di sfidare gli Usa.
Esattamente in questo momento critico, l’attacco terroristico dell’11 settembre permette all’amministrazione Bush di lanciare la sua offensiva militare e politica. Essa viene motivata con la necessità di combattere il terrorismo, quello che il presidente Bush definisce «un nemico oscuro, che si nasconde negli angoli bui della terra» e che «ha preso di mira l’America». Un’idea p e r fetta di nemico: oltre che oscura, intercambiabile e duratura. Inizialmente essa assume il volto del militante islamico Osama bin Laden, che viene subito denunciato dall’amministrazione Bush come mandante degli attacchi dell’11 settembre.

QUANDO OSAMA BIN LADEN ERA AMICO DI WASHINGTON

Osama bin Laden, che gli Stati uniti indicano come capofila del terrorismo internazionale, è lo stesso che gli Stati uniti sostenevano quando organizzavano e armavano i mujaidin islamici in funzione anti-sovietica. Quale sia la reale storia dei rapporti fra gli Stati uniti e i mujaidin, e quindi con bin Laden, lo racconta uno degli artefici della politica statunitense di quel periodo, Zbigniew Brzezinski, già consigliere del presidente Jimmy Carter per la sicurezza nazionale dal 1977 al 1981.
In una intervista concessa nel 1998 al settimanale francese Le Nouvel Observateur (15-21 gennaio 1998), Brzezinski afferma: «Secondo la versione ufficiale della storia, la Cia cominciò ad aiutare i mujaidin nel 1980, ossia dopo che l’esercito sovietico aveva invaso l’Afghanistan il 24 dicembre 1979. Ma la realtà, finora segretamente custodita, è completamente diversa. Fu in effetti il 3 luglio 1979 che il presidente Carter firmò la prima direttiva per l’aiuto segreto agli oppositori del regime filo-sovietico a Kabul. […] Quell’operazione segreta fu un’eccellente idea. Ebbe l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana. Il giorno in cui i sovietici ufficialmente varcarono il confine, scrissi al presidente Carter: ora abbiamo l’opportunità di dare all’Urss la sua guerra del Vietnam. In effetti, per quasi dieci anni, Mosca dovette continuare una guerra insostenibile per il governo, un conflitto che provocò la demoralizzazione e infine la disgregazione dell’impero sovietico ».
È dunque l’amministrazione Carter a iniziare, prima e non dopo l’invasione sovietica, l’addestramento e l’armamento dei mujaidin, preparando la «trappola afghana» in cui cade l’Urss di Leonid Brezhnev che, temendo il formarsi di uno stato ostile ai suoi confini, decide di invadere il paese per garantire che vi sia un governo amico. Si accende così la guerra che l’amministrazione Carter voleva e che alimenta, continuando ad addestrare e armare i mujaidin. Jimmy Carter sarà insignito, il 10 dicembre 2002, del Premio Nobel per la pace per «il suo instancabile sforzo di trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali ».
Durante le amministrazioni Carter e Reagan, dal 1979 al 1989 la Cia addestra in Pakistan e Afghanistan, tramite l’Isi (il servizio segreto pachistano), oltre 100 mila mujaidin, reclutandoli anche in diversi altri paesi arabi. Tra questi si distingue Osama bin Laden, un ingegnere e uomo d’affari appartenente a una ricca famiglia saudita (da tempo in affari con la famiglia Bush), che arriva in Afghanistan nel 1980 portando grossi finanziamenti e reclu-tando nel suo stesso paese 4 mila volontari.
Dopo la fine della guerra nel febbraio 1989, in seguito al ritiro delle truppe sovietiche, i mujaidin conquistano Kabul nell’aprile 1992, costringendo il presidente filo-sovietico Najibullah a rifugiarsi sotto la protezione delle Nazioni Unite. In una situazione di anarchia, caratterizzata dallo scontro tra le diverse fazioni di mujaidin, viene eletto presidente Burhannudin Rabbani. È a questo punto che viene creata, nel 1994, l’organizzazione dei talebani. I suoi militanti vengono formati in scuole religiose, costituite dal governo pachistano nella zona di confine, nelle quali sono indottrinati in base a una versione ultra-integralista dell’Islam. Vengono contemporaneamente armati e addestrati, così che possano conquistare il potere in Afghanistan: nel settembre 1996, con il sostegno del governo pachistano, la milizia talebana conquista Kabul, deponendo il presidente Rabbani e impiccando l’ex presidente Najibullah. L’operazione è tacitamente approvata dal governo statunitense. Nel frattempo, Osama bin Laden fonda l’organizzazione multinazionale Al Qaeda (la Base), reclutando militanti musulmani in diverse parti del mondo. Quando, nel 1998, l’intervistatore chiede a Brzezinski se non si è pentito di aver sostenuto il fondamentalismo islamico, dando armi e assistenza ai futuri talebani, egli risponde: «Che cosa è più importante per la storia del mondo? I talebani o il collasso dell’impero sovietico?». Colui che nel 2001 viene proclamato terrorista numero uno e quindi nemico numero uno degli Stati uniti è, dunque, ben noto a Washington, per essere stato alleato degli Stati uniti nella guerra in Afghanistan contro l’Unione sovietica. Come prima è stato utile come amico, ora lo è come nemico. Ma il fatto di essere considerato nemico non gli impedisce di mantenere contatti con agenti della Cia, con i quali si incontra nel luglio 2001, due mesi prima degli attacchi terroristici di New York e Washington, quando è a farsi curare all’Ospedale americano in Dubai.

I MISTERI DELL’11 SETTEMBRE

Tutto questo solleva forti dubbi sulla versione ufficiale dell’11 settembre. Essi trovano conferma quando, nel maggio 2002, viene alla luce che «il Federal Bureau of Investigation era consapevole da diversi anni che Osama bin Laden e la sua rete terroristica stavano addestrando propri piloti negli Stati uniti».
Non si spiega perché i servizi segreti statunitensi, al momento in cui ricevono informazioni su un probabile dirottamento di più aerei, non preavvertano il Norad (North American Aerospace Defense Command) lasciando il territorio statunitense così sguarnito da non riuscire l’11 settembre, in quasi due ore, a intercettare neppure uno dei quattro aerei in mano ai terroristi. Non si spiega perché essi non adottino neppure le più elementari procedure standard di protezione del presidente quando, la mattina dell’11 settembre, egli è in visita alla scuola elementare Booker a Sarasota (Florida), dove resta per quasi mezzora a leggere ai bambini la storia di una capretta, mentre i primi due aerei hanno già colpito le Torri Gemelle e gli altri due sono ancora in volo.
«Un’indagine dettagliata sulla cronologia degli eventi dell’11 settembre – conclude Nafeez Mosaddeq Ahmed, autore di una rigorosa documentazione sul ruolo svoltovi dall’amministrazione Bush (Guerra alla libertà, Fazi Editore, 2002) – spinge a pensare che un fallimento così totale e generalizzato sia stato possibile solo a causa di un atteggiamento ostruzionistico intenzionale da parte di funzionari di primo piano del governo e delle forze armate » e che «componenti di primo piano del governo degli Stati Uniti, delle forze armate e delle agenzie d’intelligence sapessero che ci sarebbero stati gli attacchi dell’11 settembre e ne siano stati, in vario modo, complici. Esistono motivi per ritenere che elementi dell’intelligence militare americana possano essere stati complici nel finanziare e fiancheggiare i terroristi dell’11 settembre».
Tale ipotesi viene rafforzata dal fatto che, dopo aver dimostrato una catastrofica inefficienza di fronte agli attacchi terroristici contro New York e Washington, gli stessi servizi segreti danno prova di eccezionale efficienza appurando, nel giro di poche ore, che essi sono stati compiuti da Osama bin Laden e Al Qaeda. Due giorni dopo, il 13 settembre, l’amministrazione Bush conferma che «il militante islamico Osama bin Laden», indicato come mandante e organizzatore degli attacchi terroristici, «opera dall’Afghanistan ». Dichiara quindi di voler «rimuovere i santuari e mettere fine agli stati che sostengono il terrorismo ».
Tre giorni dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, il senato e la camera dei rappresentanti decretano che «il Presidente è autorizzato a usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli determina abbiano pianificato, autorizzato, commesso o sostenuto gli attacchi dell’11 settembre 2001, o abbiano dato rifugio a tali organizzazioni o persone, allo scopo di prevenire qualsiasi futuro atto di terrorismo internazionale contro gli Stati uniti da parte di tali nazioni, organizzazioni o persone». La guerra inizia il 7 ottobre 2001 con il bombardamento dell’Afghanistan, effettuato dall’aviazione statunitense e britannica.

L’OCCUPAZIONE DELL’AFGHANISTAN

Viene così messa in atto la strategia decisa a Washington non dopo, ma prima dell’11 settembre 2001. Lo rivelano attendibili fonti, secondo le quali «il presidente Bush, due giorni prima dell’11 settembre, era in procinto di firmare un piano dettagliato che prevedeva operazioni militari in Afghanistan» per rovesciare l’ormai inaffidabile regime talebano.
Con l’occupazione dell’Afghanistan e l’insediamento di un governo filoamericano capeggiato da Hamid Karzai, la potenza statunitense compie, in nome della «guerra globale al terrorismo», il passo decisivo per estendere la sua presenza militare, politica ed economica nell’ Asia centrale: un’area di enorme importanza, sia per la sua posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina e India, sia per le grosse riserve di petrolio e gas naturale del Caspio (su cui si affacciano Kazakistan e Turkmenistan), sia per la sua vicinanza alle riserve petrolifere del Golfo, dove con l’occupazione dell’Iraq gli Usa hanno rafforzato la loro presenza militare.
Già nel 1994, tre anni dopo la disgregazione dell’Unione sovietica, gli Stati uniti proclamano esplicitamente che la regione del Caspio rientra nella loro «sfera d’interessi». Nello stesso anno, l’anglo-statunitense Bp-Amoco si assicura in Azerbaigian (membro con la Russia della Comunità di stati indipendenti) una prima concessione petrolifera. Nello stesso anno scoppia la guerra in Cecenia (repubblica della Federazione russa), i cui capi ribelli, arricchitisi dal 1991 con i proventi petroliferi, sono sostenuti dai servizi segreti turchi (longa manus della Cia). Quando, dopo gli accordi di pace del 1996, la Russia inaugura nel 1999 l’oleodotto tra il porto azero di Baku sul Caspio e quello russo di Novorossiisk sul Mar Nero, esso viene sabotato nel tratto in territorio ceceno. I russi realizzano allora un bypass attraverso il Daghestan, ma in agosto un commando ceceno di Bassaev lo rende inagibile. In settembre, Mosca effettua il secondo intervento armato in Cecenia. Nello stesso anno, per iniziativa di Washington, viene aperto un altro oleodotto che collega Baku al porto georgiano di Supsa sul Mar Nero, mettendo fine all’egemonia russa sull’esportazione del petrolio del Caspio. Nello stesso anno, sempre su iniziativa statunitense, Turchia, Azerbaigian, Georgia e Kazakistan decidono di costruire un oleodotto che collega Baku al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, sottraendo alla Russia il controllo sull’esportazione della maggior parte del petrolio del Caspio.
Allo stesso tempo gli Stati uniti si muovono per distaccare da Mosca le repubbliche ex sovietiche dell’ Asia centrale, portandole nella propria sfera d’influenza. Dopo l’11 settembre Washington dà la spallata decisiva, installando basi e forze militari, oltre che in Afghanistan, in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan e Georgia.
Contemporaneamente, all’interno della Federazione russa, il miliardario Mikhail Khodorkovskij, padrone della compagnia petrolifera Jukos, tenta la scalata al potere politico con l’appoggio della statunitense ExxonMobil (cui sta per vendere un terzo della Jukos quando viene imprigionato) e il banchiere Boris Berezovskoj sostiene e finanzia da Londra il gruppo ceceno di Shamil Bassaev, organizzatore tra l’altro dell’attacco alla scuola di Bessan.
Così si svolge il nuovo «grande gioco» interno e internazionale attorno a una posta di enorme importanza strategica: il controllo dell’ex Unione sovietica e, in particolare, delle sue ricchezze energetiche.

L’OCCUPAZIONE DELL’IRAQ

All’occupazione dell’Afghanistan segue, dopo breve tempo, quella dell’Iraq, confermando l’esistenza di un preciso piano mirante al controllo dell’intera area dall’Asia centrale al Medio oriente. Tale piano nasce negli anni Novanta, quando si forma a Washington un gruppo di pressione, di cui si fa portavoce Project for the New American Century, organizzazione «non-profit» costituita nel 1997 con «lo scopo di promuovere la leadership globale americana ». È in tale quadro che, il 26 gennaio 1998, viene inviata al presidente Clinton una lettera aperta in cui gli si chiede di «intraprendere una azione militare per rimuovere Saddam Hussein dal potere» poiché, in caso contrario, «una significativa porzione delle riserve petrolifere mondiali sarà messa a rischio ». Secondo le stime della Energy Information Administration del governo Usa, l’Iraq possiede, oltre alle riserve petrolifere accertate (112 miliardi di barili) altre riserve per circa 220 miliardi di barili: ciò significa che non è l’Arabia saudita ma l’Iraq il paese con le maggiori riserve petrolifere del mondo.
La lettera è firmata da un gruppo di «falchi», che successivamente assume importanti incarichi nell’amministrazione, quando George W. Bush è insediato alla presidenza il 20 gennaio 2001: Donald Rumsfeld, che diviene segretario alla difesa; Paul Wolfowitz, vice-segretario alla difesa; Peter Rodman, assistente segretario alla difesa per gli affari della sicurezza internazionale; Richard Armitage, vice-segretario di stato; John Bolton, segretario di stato per il controllo degli armamenti; Richard Perle, capo del comitato politico della difesa; William Kristol, consigliere del presidente Bush; Zalmay Khalilzad, inviato speciale del presidente e ambasciatore presso l’opposizione irachena; Elliot Abrams, assistente speciale del presidente e direttore per gli affari del Medio Oriente e Nord Africa. Dietro il gruppo dei firmatari vi sono Dick Cheney, direttore della Halliburton, la maggiore fornitrice mondiale di servizi per le industrie petrolifere, che diviene vicepresidente nell’amministrazione Bush, e Lewis Libby, che diviene capo del suo staff.
Lo scopo strategico perseguito dal gruppo dei «falchi», firmatari della lettera al presidente Clinton, emerge chiaramente da un documento pubblicato dallo stesso Project for the New American Century nel settembre 2000. Esso afferma che, «mentre l’irrisolto conflitto con l’Iraq fornisce l’immediata giustificazione, l’esigenza di mantenere nel Golfo una consistente forza militare americana trascende la questione del regime di Saddam Hussein», dato che il Golfo è «una regione di vitale importanza » in cui gli Stati uniti devono avere «un ruolo permanente».
È dunque lo stesso gruppo di potere, che nel gennaio 2001 forma il nocciolo duro della amministrazione Bush, a dichiarare che il conflitto con il regime di Saddam Hussein non costituisce la questione centrale, ma semplicemente «fornisce l’immediata giustificazione » alla strategia mirante ad assicurare agli Stati uniti «un ruolo permanente» nella «regione di vitale importanza» del Golfo persico. La strategia di cui George W. Bush diviene esecutore viene decisa, prima che egli sia portato alla presidenza, dal gruppo di «falchi» che domina la sua amministrazione: espressione delle potenti connections del petrolio e delle armi, dei potenti interessi politici e strategici che si intrecciano nel mondo sotterraneo della cupola del potere.

LA «GUERRA GLOBALE AL TERRORISMO»

Per la «guerra globale al terrorismo », l’amministrazione Bush potenzia non solo le forze armate ma l’intero apparato dei servizi segreti, ufficialmente composto dalla Cia e da altre 12 agenzie federali. Questo apparato ha il compito non solo di raccogliere informazioni, ma di catturare ovunque nel mondo coloro che sono ritenuti pericolosi per gli Stati uniti, e di tradurli a Guantanamo a Cuba e in altri luoghi di detenzione sotto giurisdizione statunitense.
Lo autorizza un atto ufficiale senza precedenti nel sistema giuridico internazionale: il 13 novembre 2001, «il presidente Bush, invocando la sua autorità costituzionale di comandante in capo e la risoluzione del Congresso sull’uso delle forza militare, firma un ordine che autorizza speciali tribunali militari a processare stranieri accusati di terrorismo. […] Sulla base di quest’ordine, è il presidente stesso a decidere chi sono i terroristi da incriminare e quindi processare in questi tribunali ».
Si apre contemporaneamente il fronte interno della «guerra al terrorismo ». Il 16 settembre – quando ancora la popolazione è sotto shock dopo aver assistito in diretta televisiva al crollo delle Torri Gemelle e alla morte di circa 2.800 persone, che, sul momento, si teme siano molte di più – la Casa bianca annuncia una legge speciale contro il terrorismo: lo Usa Patriot Act, che viene presentato al Congresso il 24 settembre. Sono passati poco più di dieci giorni dall’11 settembre: un tempo sorprendentemente breve per redigere un testo di tale complessità, lungo 342 pagine.
Al Congresso, il Patriot Act non è accolto come l’amministrazione avrebbe voluto: il leader di maggioranza al senato, il democratico Tom Daschle, dichiara di avere dubbi che la legge possa passare al senato in una settimana, come vorrebbe l’amministrazione. Tutti sanno che il senatore ha i poteri per rallentare, se non bloccare, l’iter della legge. Il 15 ottobre, arriva all’ufficio di Tom Daschle al senato una lettera che, aperta, rivela di contenere una dose mortale di antrace. L’invio di questa e altre lettere all’antrace viene attribuito al terrorismo di stampo islamico. Il 16-17 ottobre, dopo che 28 impiegati al congresso risultano positivi all’antrace, vengono chiusi gli uffici del senato e della camera dei rappresentanti.
Il 24 ottobre, il Patriot Act passa in tutta fretta alla camera dei rappresentanti e, l’indomani, al senato. Esso introduce, nella sezione 802, il reato federale di «terrorismo interno », che si applica a una vasta gamma di situazioni che non hanno niente a che fare con il terrorismo. Dopo il 26 ottobre, giorno in cui il Patriot Act entra in vigore, gli attentati all’antrace, che hanno provocato cinque vittime, si diradano fino a cessare. Successive inchieste appurano che l’antrace usato in questi attentati non può che provenire dagli stessi laboratori militari statunitensi.

ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Che cosa dimostrano i fatti storici degli ultimi decenni? Lo possiamo riassumere in alcuni punti schematici.
1) Il filone centrale del terrorismo scaturisce dalla strategia imperialista di conquista del mondo con la guerra, attuata dalla «potenza globale » statunitense, ed è funzionale alla guerra stessa in quanto serve a creare l’immagine di un nemico che va affrontato senza esitazioni con la «guerra globale al terrorismo ». Condotta con metodi terroristici (dal bombardamento indiscriminato di civili alle esecuzioni mirate, dai rapimenti alle torture), essa si svolge in gran parte nel mondo sotterraneo dei servizi segreti
2) Il terrorismo viene alimentato, nel mondo arabo e musulmano, da settori di classi privilegiate che, esclusi dal potere, se ne servono per acquistare peso politico. In tale azione, utilizzano il risentimento popolare di fronte al predominio statunitense e alla sudditanza dei propri governi. Emblematico è il caso di Al Qaeda. Poiché fa leva su fatti reali, essa riscuote simpatie e riesce a reclutare militanti che, in base anche alla convinzione religiosa, sono pronti a dare la vita. È probabile però che le dimensioni reali e le ramificazioni di questa organizzazione vengano esagerate, da parte sia dei suoi capi, sia di chi se ne serve per motivare la «guerra globale al terrorismo». È anche probabile che la sigla di Al Qaeda sia utilizzata per rivendicare atti terroristici di altra matrice.
3) La categoria «terrorismo» viene usata per condannare tutti gli atti di resistenza, dall’Iraq alla Palestina. Si può non essere d’accordo con le azioni dei partigiani iracheni contro coloro che vanno ad arruolarsi nell’esercito fantoccio, o le azioni suicide di militanti iracheni e palestinesi. Ma non si può, con questo, accomunarle nella categoria «terrorismo » così come è stata coniata a Washington per far passare gli aggressori per aggrediti.
Né si può (come fa Bertinotti nell’intervista del 9 settembre a Repubblica) affermare che in Iraq «il conflitto non ha fatto nascere il terrorismo, ma ne alimenta la violenza», suggerendo così che l’Iraq fosse uno dei santuari del terrorismo prima della guerra, e che la resistenza irachena, termine con cui si riferisce solo «a chi è fuori del terrorismo », fa parte delle «resistenze con la ‘r’ minuscola» perché, a differenza della Resistenza italiana, «non contiene in sé la soluzione del problema».
Non ci si può mettere in cattedra, stabilendo quali azioni sono classificabili come terrorismo e quali come resistenza (con la ‘r’ minuscola), in una situazione come quella irachena, senza premettere che all’origine c’è la guerra di aggressione e occupazione effettuata dagli Stati uniti. Né ci si può dimenticare che, nella Resistenza italiana, i partigiani erano definiti banditi dai nazi-fascisti e che l’attacco di Via Rasella del 1944 è stato definito dalla stessa Corte di Cassazione, nel 1999, «legittima azione di guerra» compiuta, mentre «era in corso l’occupazione di gran parte del territorio nazionale ad opera dei tedeschi », da persone che avevano «la qualità di legittimi belligeranti».
Riguardo poi all’affermazione che quella irachena sarebbe una resistenza con la ‘r’ minuscola perché, a differenza della Resistenza italiana, «non contiene in sé la soluzione del problema», va detto che, come fu in Italia e ora è in Iraq e altri paesi, l’atto stesso di resistere all’aggressione e all’occupazione costituisce «la soluzione del problema ». Non si dovrebbero quindi avere dubbi che quella in corso in Iraq è una lotta legittima che entra a far parte della storia della Resistenza.