“Bush avverte Hussein ma evita di porre qualsiasi scadenza”: con questo titolo The New York Times descrive quello che viene da molti definito lo “stop and go” della guerra all’Iraq. La definizione in realtà non è esatta: il dispiegamento di forze nell’area del Golfo non ha mai subìto alcuna battuta di arresto, ma prosegue secondo un preciso piano. Di questo passo, verrà schierata attorno all’Iraq verso la fine di febbraio una forza composta da circa 250mila uomini, oltre mille aerei e decine di unità navali, tra cui almeno 6 portarei con i loro gruppi di bat-taglia. Si intensificano, nel frattempo, gli attacchi aerei statunitensi e britannici nella “no-fly zone” meridionale, dove sono stati colpiti in cinque mesi oltre 80 obiettivi usando bombe a guida di precisione.
Le basi militari per l’attacco sono ormai pronte. Esso sarà diretto dalla base aerea di Al-Udeid nel Qatar, a poco più di 1.000 km da Baghdad, dove il Comando centrale ha allestito un quartier generale mobile, che ha finito di collaudare a metà dicembre. Sono pronte anche le altre basi, situate in Kuwait, Arabia saudita, Bahrain, Oman, Emirati arabi uniti, Gibuti e Turchia. Si aggiunge a queste la base di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, da cui decolleranno i bombardieri strategici B-52 e B-2 Spirit. È contemporaneamente in atto uno schieramento di forze navali anche nel Mediterraneo: la porta-erei Harry Truman si sta preparando ad attaccare l’Iraq occidentale con i suoi 85 caccia, che arriveranno sugli obiettivi sorvolando Israele e Giordania. Si stanno preparando nel Mediterraneo anche i sottomarini, in grado di colpire l’Iraq con i loro missili da crociera. La macchina da guerra è dunque in moto.
Perché allora il presidente Bush non dà il “go”? La domanda è abbastanza ingenua: l’ordine sarà dato quando lo schieramento delle forze sarà completato e saranno state create le condizioni ottimali per giustificare l’attacco. Per questo Bush evita di porre all’Iraq una precisa scadenza: una volta stabilita, essa obbligherebbe gli Stati uniti a iniziare la guerra anche se le condizioni non fossero ottimali. In effetti i problemi non mancano. Per meglio comprenderli, è utile prendere come punto di riferimento la prima guerra del Golfo. Che cosa c’è di analogo e di diverso rispetto alla situazione del 1990-91?
Analogo è lo scopo strategico: rafforzare la presenza militare statunitense nell’area del Golfo, dove sono i due terzi delle riserve petrolifere mondiali economicamente sfruttabili. Ma ci sono tra le due situazioni anche notevoli differenze. Nel 1990 Saddam Hussein commise un colossale errore di calcolo politico, interpretando l’atteggiamento apparentemente morbido di Washington come un implicito nulla osta a risolvere militar-mente la disputa col Kuwait. Compì in tal modo un aperto atto di aggressione, fornendo agli Stati uniti l’occasione che cer-cavano: quella di lanciare, in nome del diritto internazionale, una operazione militare su larga scala nell’area strategica del Golfo, approfittando del momento favorevole creato dalla fine della guerra fredda e dall’inizio della disgregazione del blocco avversario (il 9 novembre 1989 “crolla” il Muro di Berlino, il 1° luglio 1991 si dissolve il Patto di Varsavia, il 26 dicembre la stessa Unione Sovietica).
A differenza del 1990, oggi l’Iraq non ha compiuto alcuna aggressione e le ricerche sulle sue presunte armi di distruzione di massa sono state finora infruttuose. E’ quindi più difficile per gli Stati uniti creare una motivazione “legale” per la guerra e, su questa base, ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991. Washington non lascia però niente di intentato. Da mesi conduce una offensiva “diplomatica” in cui usa i più svariati strumenti di pressione sui governi titubanti: dai ricatti (soprattutto nei confronti dei paesi indebitati con il Fmi e dipendenti dal “sostegno” economico statunitense) alle promesse sottobanco (come quella di garantire gli interessi russi nell’industria petrolifera irachena).
Altre promesse sottobanco vengono sicuramente fatte agli alleati europei, per convincerli che, aiutando gli Usa, avranno il loro tornaconto. Washington ha chiesto alla Nato di schierare le proprie navi nel Medi-terraneo orientale, per proteggere le unità navali statunitensi mentre bombardano l’Iraq con i loro aerei e missili, proteggendo allo stesso tempo le basi Usa in Europa e possibilmente quelle nel Golfo persico. Un ruolo adatto a quell’Europa che vuole la guerra, ma senza macchiarsi le mani. Gli alleati, se gli Usa acconsentono, potrebbero comunque partecipare alla guerra inviando a titolo personale (come ha fatto la Gran Bretagna) unità di combattimento nel teatro bellico. I governi dell’Europa centro-orientale, appena entrati nella Nato, non aspettano altro per guadagnarsi i galloni sul campo. E, in caso di necessità, potrebbe intervenire “legalmente” anche la Nato in quanto tale, poiché, a differenza che nella prima guerra del Golfo, oggi può operare fuori della propria area (come ha stabilito il vertice di Washington dell’aprile 1999).
Un’altra differenza tra le due situazioni consiste nel fatto che, mentre nel 1991 gli Stati uniti attaccarono l’Iraq ma non lo occuparono anche se avrebbero potuto farlo, oggi intendono invece occuparlo. Le ragioni per cui non lo occuparono nel 1991 sono molteplici. Al momento della prima guerra del Golfo esisteva ancora l’Unione sovietica: occupando l’Iraq, gli Usa avrebbero mostrato il loro vero scopo strategico, provocando un irrigidimento dell’Urss che avrebbe potuto riportare al potere la “linea dura” contraria al dissolvimento dell’Unione. L’occupazione avrebbe potuto inoltre provocare la disgregazione dell’Iraq, accrescendo il peso dell’Iran di Khomeini e suscitando la reazione della Turchia, contraria alla formazione di uno stato curdo ai suoi confini.
Gli Usa intendono invece oggi occupare l’Iraq, per diverse ragioni. Anzitutto, perché hanno ancora più bisogno del petrolio iracheno, fondamentale alla loro macchina economica che scarseggia sempre più di forniture energetiche interne. Re-centi prospezioni hanno dimostrato che non è l’Arabia saudita ma l’Iraq il paese con le maggiori riserve petrolifere mondiali: occupandolo e controllando le sue riserve, gli Usa possono avere in mano una formidabile arma economica e politica. In secondo luogo, gli Usa intendono occupare l’Iraq perché ritengono che i rapporti di forza siano oggi per loro più favorevoli di quanto lo fossero nel 1991. Questo è vero da un lato ma, dall’altro, va tenuto conto del fatto che, all’interno del mondo arabo, vi è oggi maggiore ostilità nei confronti dello strapotere statunitense e che l’occupazione dell’Iraq accrescerebbe tale ostilità.
L’occupazione dell’Iraq esporrebbe inoltre le forze statunitensi a rischi molto maggiori di quelli cui furono esposte nel 1991. Venne schierata allora, per la guerra, una forza di 750.000 uomini, di cui il 70% statunitensi. In 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuò, con 2.800 aerei, oltre 110.000 sortite, sganciando 250.000 bombe. Parteci-parono ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, porto-ghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi, mentre forze britanniche e francesi affiancarono quelle statunitensi nell’offensiva terrestre, che “si limitò” a massacrare soldati e civili iracheni in ritirata. Le perdite statunitense e alleate furono quindi minime.
Oggi la situazione è diversa. Gli Stati uniti non appaiono in grado di radunare una coalizione analoga a quella del 1991, che fornì un non trascurabile 30% degli effettivi e,con la sua stessa presenza, servì a presentare la guerra come una operazione della “comunità internazionale” a difesa del “diritto internazionale”. Probabilmente non vogliono neppure una coalizione di questo tipo (e nemmeno l’intervento della Nato in quanto tale), poiché vogliono essere i soli (con il maggiordomo britannico) a occupare l’Iraq e controllare le sue riserve petrolifere. L’amministrazione Bush rischia però molto di più con una guerra quasi esclusivamente statunitense in cui si dovrà occupare le città, dove probabilmente si trincereranno le forze scelte irachene, e si dovrà poi mantenerne il controllo. Una fila di bare di ritorno dall’Iraq risusciterebbe negli Stati uniti l’incubo della guerra del Vietnam, ritorcendosi politicamente contro l’amministrazione Bush.
Un altro problema per l’amministrazione Bush è che, mentre nella prima guerra del Golfo gli alleati degli Stati uniti, soprattutto quelli arabi, si addossarono oltre il 78% della spesa (48 su 61 miliardi di dollari), nella seconda guerra del Golfo, il cui costo viene stimato in 200 miliardi di dollari, Washington non potrebbe contare su un analogo contributo. Un problema non da poco per un bilancio federale salassato dalla spesa militare – 372,5 miliardi di dollari nel 2003 che, con altre voci di carattere militare, salgono a 495, circa un quarto del bilancio federale – il quale subirà nell’anno fiscale 2003 (iniziato il 1° ottobre 2002) un deficit di 200 miliardi di dollari e, nel prossimo, di 300 miliardi. Angosciato da tutti questi problemi, il presidente Bush si è rifugiato nella fede, annunciando l’istituzione della “Giornata Nazionale della Santità della Vita Umana”. Condan-nando l’aborto, egli ha dichiarato che “ogni bambino è una priorità e una benedizione e io credo che tutti debbano essere accolti nella vita e protetti dalla legge: attraverso politiche etiche e la compassione degli americani, continueremo a costrui-re una cultura che rispetta la vita”. Parole sante. Le ascoltano dal cielo gli oltre 500mila bambini iracheni morti per l’embargo imposto dagli Usa e i tanti altri mai venuti alla vita per i bombardamenti all’uranio impoverito.