Guerra e basi della guerra: un’isola contro

*Comitato sardo Gettiamo le basi

NELL’ATTUALE SCENARIO STRATEGICO-MILITARE LA SARDEGNA ACQUISISCE NUOVI COMPITI CHE LA INCHIODANO ANCORA PIÙ SALDAMENTE AL RUOLO DI CASERMA E SCUOLA DI GUERRA.

I venti di guerre infinite e preventive che soffiano impetuosi rendono indilazionabile l’impegno per sottrarre alle politiche di guerra le sue fabbriche, i suoi poligoni, le sue basi, imprescindibili strumenti di qualsiasi attività bellica e di esercizio della deterrenza convenzionale e nucleare per tenere sottomessi Paesi del Sud del pianeta. Se si vuole la pace, se si vuole disarmare il neoliberismo, è conseguente porsi come obiettivo prioritario la lotta per espellere le basi militari, basi in cui si testano sistemi di morte e si affinano le tecniche di sterminio, basi da cui partono le aggressioni “umanitarie” contro altri popoli perpetrate per garantire la rapina delle risorse, il controllo dell’area e delle rotte del petrolio.
Costruire la pace significa anche garantire la pace per i popoli condannati a vivere sotto l’impatto della presenza militare che sottrarre alla collettività l’uso sostenibile delle risorse naturali, nega il diritto al controllo democratico del territorio e, sopratutto, il diritto fondamentale alla sicurezza, alla salute e alla vita.

L’oppressione militare che penalizza la Sardegna in misura abnorme e iniqua ha trasformato la felice posizione di centralità mediterranea in una maledizione per il popolo sardo e i popoli dell’altra riva. Dagli anni ’50, nel quadro della strategia militare Nato-Usa, è usata come immensa base di addestramenti e sperimentazioni, deposito di armi, munizioni e carburanti, sede di potenti impianti radar di spionaggio, teatro di guerre simulate condotte con munizionamento vivo, “life fire”, esplosivi da guerra.
Nell’isola il demanio militare permanentemente impegnato ammonta a 24.000 ettari; in tutta la penisola italiana raggiunge i 16.000 ettari. A questa cifra vanno sommati i 12.000 ettari gravati da servitù militare. Gli spazi aerei e marittimi sottoposti a schiavitù militare sono di fatto incommensurabili, solo uno degli immensi tratti di mare annessi al poligono Salto di Quirra con i suoi 2.840.000 ettari supera la superficie dell’intera isola (kmq 23.821).

Nell’attuale scenario strategico-militare la Sardegna acquisisce nuovi compiti che la inchiodano ancora più saldamente al ruolo, stabilito al tempo della guerra fredda dalle potenze egemoni, di caserma e scuola di guerra, sempre più isolata dal resto del mondo dalle sterminate interdizioni militari del suo cielo e del suo mare. Oggi l’isola è la chiave per il controllo dell’intero bacino del Mediterraneo allargato che passando per il Mar Rosso arriva al Golfo Persico. E’ il perno del sistema politico militare di Nato/Usa per affrontare i “nuovi nemici” dell’altra sponda, del vicino e medio Oriente.
A partire dagli anni novanta i vertici militari annunciano, ripetutamente e con estrema chiarezza, che l’importanza strategica dell’isola è potenziata e “destinata” a crescere. Alle parole si accompagnano i fatti, tutti i poligoni sono interessati da opere sempre più imponenti di ammodernamento e riqualificazione. I segni forti e palesi del rafforzarsi della schiavitù militare non sono colti né dalle istituzioni, né dalla classe dirigente arroccate nella tradizionale politica del “non vedo, non sento, non parlo” e “distratte” dalla contestuale massiccia campagna pubblicitaria che batte su “un ampio processo di dismissioni” e favoleggia su “esigenze militari asservite alle esigenze civili” e “poligoni verdi, oasi di tutela ambientale”. Sono colti, invece, dalle popolazioni costrette, loro malgrado, a convivere con le devastanti attività militari.
Il progetto eterodiretto imposto alla Sardegna, lentamente, produce nel popolo sardo gli anticorpi. L’insofferenza popolare, fortemente radicata nonostante da mezzo secolo si tenti di soffocarla e di anestetizzarla, sembra scuotersi dall’atavica rassegnazione. Il giro rapido di vite costringe anche chi opta per l’at-tuale “Modello di sicurezza” e per il futuro assegnato alla Sardegna nelle alte sfere internazionali ad affrontare il problema, sempre eluso, dell’iniquità degli esorbitanti gravami che penalizzano l’isola e la condannano alla monocoltura militare incrementando i meccanismi di sviluppo distorto.
Lotte frammentate e isolate vanno man mano aggregandosi e coordinandosi. Acquistano forza la protesta e le iniziative delle associazioni di base, non solamente comitati che esprimono la loro opposizione alle politiche di guerra e alle “basi della guerra”, ma soprattutto aggregazioni dal basso di lavoratrici/lavoratori, cittadine/i preoccupate/i del pericolo che le attività militari rappresentano per il loro lavoro, la loro incolumità e la loro salute.

UN’ISOLA IN LOTTA CONTRO L’URANIO IMPOVERITO

Nel settembre 1999, la leucemia che ha ucciso Salvatore Vacca, in servizio in Bosnia, e Giuseppe Pintus, in servizio nel poligono di Capo Teulada, spinge la Sardegna a interrogarsi e a chiedere chiarezza sull’utilizzo di uranio impoverito, sia nelle zone teatro di massacri “umanitari”, sia negli immensi poligoni che l’isola è costretta a mettere a disposizione di Usa, Nato e Italia.
Il comitato sardo Gettiamo le Basi ostacola la rimozione della “strana” morte dei due militari sardi denunciando ripetutamente che l’ uranio, non solo uccide indiscriminatamente irakeni, somali, bosniaci, serbi, kosovari, afgani e militari italiani, ma espone ad alto rischio anche le popolazioni residenti nei pressi degli sterminati poligoni terrestri, aerei e navali che mortificano la Sardegna. Con lavoro da formica raccoglie indizi e prove, promuove convegni e petizioni popolari, organizza manifestazioni di piazza e volantinaggi davanti alle caserme, incalza la stampa e la classe politica.
L’attenzione si mantiene alta.

Teulada, impegnata da tempo immemorabile in una dura vertenza per ottenere un monitoraggio sanitario e ambientale acuisce la conflittualità permanente contro le FFAA accusate dalla popolazione, ormai apertamente, di contaminazione radioattiva. Nel settembre 2000, quando in Italia quasi nessuno parlava di uranio, interroga formalmente i vertici delle FF. AA. sull’uso dell’uranio impoverito nei 7.200 ettari del suo territorio espropriato e nel suo mare “off limits”. L’esigenza d’informazione e di controlli ambientali trasparenti si lega strettamente alla denuncia della sottrazione del lavoro e dei danni pesanti alla pastorizia, alla pesca e al turismo causati dalle attività del poligono. Le paradossali, confuse e contraddittorie “rassicurazioni” di generali, ministri e sottosegretari producono un effetto boomerang: l’allarme si generalizza e si acuisce l’attenzione di tutte le popolazioni residenti in prossimità delle zone militarizzate dell’isola.
Nel dicembre 2000, nonostante la cronica latitanza della sua classe politica, la Sardegna infrange definitivamente la coltre di silenzio sul “metallo del disonore” e impone la discussione a livello nazionale e internazionale. La stampa locale trascina tutti i media nazionali nella ricerca di chiarezza sulla “sindrome dei Balcani”.

La “sindrome Quirra” si delinea contemporaneamente all’emergere della “sindrome dei Balcani” e alle ammissioni sul criminale uso di DU da parte Nato-Usa, sia nelle zone teatro di guerra, sia nei “normali” addestramenti nei poligoni di Francia, Gran Bretagna, Germania, Grecia, Spagna.
Nel gennaio 2001 la coraggiosa denuncia di un medico di base e del sindaco- medico di Villaputzu, dr Antonio Pili, fa emergere i dati da brivido sull’incidenza di tumori al sistema emolinfatico (leucemia, linfoma Hodgkin, mieloma) che devasta la piccola frazione di Quirra situata tra la zona a mare e la zona interna del Poligono Interforze Salto di Quirra (PISQ).
Nell’isola non riesce né a distrarre né tanto meno a convincere il bizzarro verdetto d’innocenza dell’uranio impoverito emesso dalla commissione Mandelli nominata dal ministero della Difesa nel doppio ruolo di indagato e indagatore, giudice e parte in causa allo stesso tempo. Un meticoloso lavoro d’indagine dal basso porta alla luce anche la drammatica situazione di Escalaplano, paese confinante con il lato sud ovest del poligono. Le cupe dicerie che hanno sempre aleggiato intorno al poligono “protetto” dal segreto militare e dal segreto industriale sono superate in orrore dalla realtà. Ad oggi i dati accertati sono i seguenti: sei militari uccisi dalla leucemia, cinque in lotta contro il male; Quirra, 150 abitanti, 20 persone divorate da tumori al sistema emolinfatico; Escalaplano, 2.600 abitanti, 14 bambini nati con gravi malformazioni genetiche.
Questi sono solo i casi documentati, sappiamo di famiglie che non intendono rendere pubblici i loro drammi, sappiamo di casi di aborti e deformità genetiche tra gli animali, sappiamo di altri paesi coinvolti dalla contaminazione prodotta dal poligono.

La stampa sarda, per anni, grida in prima pagina l’agghiacciante realtà di morte e sofferenza. I media a diffusione nazionale rispondono con un tombale silenzio (poche le eccezioni: Liberazione, Metro, Enzo Biagi, Sigfrido Ranucci). Lo scandalo tragico della contaminazione prodotta dai giochi di guerra rimane a lungo relegato nell’isola. Le istituzioni e i parlamentari sardi, stanati dalla pressione popolare, si rifugiano in generiche dichiarazioni di principio e preannunci di lotte future. Strati crescenti di popolazione rivendicano con sempre maggiore determinazione il diritto di sapere quale uso hanno fatto della terra e del mare della Sardegna le Forze Armate e le multinazionali produttrici/trafficanti di armi.
Naufragano uno per uno i depistaggi e i tentativi delle varie Autorità politiche, militari e sanitarie, di assolvere le devastanti attività del poligono della morte propinando tranquillizzanti e strampalate “verità scientifiche di Stato”. Si radica nella comune percezione la certezza della contaminazione prodotta dai “giochi di guerra”. Persino l’Arma dei carabinieri, con discrezione e senza clamori, si attiva per stare alla larga dai poligoni e individua strutture più sicure, anche se meno idonee, per svolgere le sue esercitazioni. Alcuni sindacati della Polizia portano avanti pubblicamente la vertenza per porre fine alle loro esercitazioni nei poligoni all’uranio. I sospetti si allargano, si focalizza l’attenzione anche sull’inquinamento prodotto dalle “normali” attività militari, i sistemi radar, i sistemi missile-anti-missile, i giochi di guerra elettronica, lo smaltimento/ stoccaggio dei rifiuti nocivi e pericolosi, lo smaltimento, se smaltimento c’è stato, delle armi chimico batteriologice messe al bando con i trattati internazionali del 1972.
La richiesta iniziale – informazione e verità sulle cause delle alterazioni genetiche e dei tumori al sistema emolinfatico che imperversano tra militari e civili – si trasforma in lotta per la sospensione di tutte le attività del “poligono della morte”. Acquista forza e spessore la rivendicazione dei diritti umani violati: il diritto al controllo democratico del territorio, il diritto alla salute, all’incolumità, alla vita.
Considerata la portata degli interessi economici e militari in gioco, non stupisce che rimanga confinata nell’isola la lotta contro l’uranio impoverito e contro la contaminazione prodotta dalle Forze Armate Nato-Usa e dalle multinazionali delle armi che usano abitualmente i poligoni sardi per sperimentare nuovi e sconosciuti sistemi d’arma. Nonostante la lotta della Sardegna stenti a superare il mare che la isola, sappiamo bene di non essere soli, i crimini Nato-Usa non conoscono confini. I forti sospetti di contaminazione gravano, non solo nei poligoni sardi di Capo Teulada, Salto di Quirra, Capo Frasca, La Maddalena, ma anche nelle basi del Tr iveneneto, Puglia, Nettuno, Cecina. E’ una certezza nei poligoni di Semipalatinks, Moronvillers, Halifax, Vieques e molti altri.

I PESCATORI DI TEULADA

L’esproprio delle risorse naturali e il conseguente strangolamento della fragile economia provocato dall’ingombrante e minacciosa presenza militare suscita ondate ricorrenti di opposizione popolare. Pastori e pescatori di volta in volta si mobilitano in ostinata difesa del poco lavoro che è stato loro concesso di svolgere, dei pochi pascoli devastati dai giochi di guerra, delle ristrette zone di un mare saturo di ordigni bellici.
Nella seconda metà degli anni novanta la lunga e vincente lotta dei pescatori del Sulcis costringe la Sardegna a “vedere” il mare proibito e i danni subiti dalla collettività a causa della sottrazione delle ri-sorse naturali. Con determinazione impongono il riconoscimento del diritto al risarcimento danni per le giornate lavorative perdute a causa del “fermo di guerra”, diritto che si fonda nei principi codificati nel lontano ’76 dalla l.898 e ribaditi dalla l.104/90.
Oggi, nel 2004, la lotta prosegue, ha compiuto un salto di qualità, va oltre la richiesta del risarcimento economico e pone con determinazione il diritto al lavoro in sicurezza. La voce decisa “Rivogliamo il mare dei nostri padri” rimette in discussione l’usurpazione della terra e denuncia la sistematica distruzione delle risorse naturali, della fauna e dell’habitat marino.
La decennale battaglia per il monitoraggio del territorio si rafforza, esige la bonifica immediata del mare usato da mezzo secolo come discarica incontrollata di ordigni bellici esplosi e inesplosi. Dal novembre scorso la lotta non conosce tregua: assemblee permanenti, presidi del porto, occupazione delle aree militari interdette e blocco delle esercitazioni militari. La richiesta è profondamente materiale: il diritto al lavoro e la bonifica del mare che costituisce appunto la loro fonte di vita.
Permane la resistenza di vasti settori a prendere atto dei danni arrecati, non solo ai pescatori ma anche a tutta la popolazione, dagli enormi tratti di mare e cielo “off limits”. Si cerca di rimuovere il pesante danno subito dalla collettività in termini di restrizioni e divieti alla navigazione da diporto, mancato sviluppo dei trasporti, voli radenti, inquinamento acustico, frequenti incendi “con le stellette”, rischi sempre più frequenti di esplosioni di ordigni bellici fuori dalle aeree del poligono (a Teulada l’ultimo episodio risale al primo giugno, lo scorso anno il poligono Salto di Quirra nell’arco di tre mesi ha “perso” un radiobersaglio e cinque missili, uno è esploso in un vigneto, uno sulla spiaggia, un altro è stato ritrovato nei pressi di un ovile, altri sulla battigia di spiagge pubbliche).

LA SARDEGNA CONTRO LA US NAVY

Agli inizi del 2001 la decisione unilaterale degli Stati Uniti di costruire una NUOVA imponente base a terra a Santo Stefano e a La Maddalena, truffaldinamente mascherata da “Progetto Migliorie”, incontra l’ostacolo istituzionale della Regione (maggioranza centrodestra) che formalmente respinge il progetto. Il Parlamento, scippato ancora una volta delle sue prerogative, appare ben felice di non vedersi appioppare la patata bollente del mettere in discussione i diktat del potente Alleato-Padrone. Rimane a lungo isolata la voce di Elettra Deiana che puntuale si ostina ad interrogare i ministri sul rafforzamento della schiavitù militare che opprime l’isola e sui danni inferti al popolo sardo. Lentamente l’opposizione popolare incomincia ad esplicitarsi e organizzarsi. Passo dopo passo si sventa il gioco di relegare la costruzione della NUOVA base, definita “raddoppio” dai critici più timidi o meno informati, nell’ambito delle problematiche locali che non oltrepassano i confini comunali, si sventano i tentativi di ridurla e appiattirla ad un mero calcolo di volumetrie e metri cubi di cemento.
Si apre un dibattito sempre più serrato e allargato sulla pesante subordinazione delle esigenze civili agli interessi militari di una potenza straniera. Si rimettono discussione gli esorbitanti gravami militari che mortificano la Maddalena e l’intera Sardegna, l’attenzione si focalizza sul costo pagato dalla collettività, non solo in termini economici, ma anche e soprattutto in termini di rischio e di salute. Si rompe il potente muro di silenzio omertoso sulla mostruosità di un Parco Naturale – istituito dal governo ulivista – che ha come fulcro una base atomica di una potenza straniera, un Parco dove si impongono drastiche restrizioni al traffico di gitanti e al numero di bagni di turisti e residenti mentre si consente e si potenzia l’incontrollato andirivieni di sommergibili nucleari saturi di armi atomiche, un Parco dove gli Usa si arrogano il diritto di sommergere le coste con devastanti colate di cemento. Frange crescenti del mondo ambientalista riacquistano la voce. Riemerge il groviglio di misteri, bugie, abusi e illegalità che circonda la base nucleare degli Stati Uniti.
L’incidente del sommergibile nucleare Hardford dello scorso ottobre – tenuto segreto per oltre un mese dai vertici militari e politici – mette brutalmente a nudo il rischio dell’olocausto nucleare che incombe sulla Sardegna e rende palese l’inadeguatezza e la noncuranza delle varie Autorità competenti a garantire la sicurezza del territorio e i basilari diritti umani all’incolumità, alla salute, alla vita. Asl, sindaco, prefetto, sottosegretari e ministri tentano invano di minimizzare e tranquillizzare un’opinione pubblica sempre più allergica alle vecchie favole e all’anestetico delle “verità ufficiali”. Si ricorre al nuovo narcotico: la scienza di Stato e le verità scientifiche di Stato. Il narcotico, già dimostratosi del tutto inefficace nell’addormentare l’opinione pubblica e far dimenticare la “sindrome di Quirra-Escalaplano”, neanche questa volta produce l’effetto sperato. La credibilità delle autorità sanitarie e del ministero della Difesa, già pesantemente compromessa dalla gestione del caso Quirra, tocca lo zero assoluto. Anche la vicina Corsica si mobilita e si unisce alla Sardegna. Organizzazioni ecologiste sardo-corse affidano un’indagine ambientale al laboratorio indipendente francese CRIIRAD. I risultati sono sconcertanti nella loro prevedibilità: documentano nelle acque dell’arcipelago maddalenino una strabiliante concentrazione, 400 volte superiore alla norma, di torio radioattivo 234, un componente della miscela del combustibile che alimenta il reattore nucleare dei sommergibili Usa.
La lotta per bloccare la costruzione della nuova base dell’US Navy si radicalizza diventando lotta per l’e-spulsione della base esistente. Anche le istituzioni sono costrette a prendere atto di una realtà ormai intollerabile. Il 28 gennaio 2004 il Consiglio regionale incalzato dalla pressione popolare, dopo due giorni di dibattito serrato, boccia clamorosamente la linea filogovernativa della Giunta e delibera formalmente che la base statunitense deve essere smantellata in tempi “ragionevoli e prestabiliti”.
Il comitato “Firma po’ Firmai sa bomba” – nato nel novembre 2003, formato dai vari comitati locali “No Scorie” (comitati spontanei sorti nel maggio dello stesso anno nella lotta preventiva contro il famigerato progetto del generale Jean e del governo Berlusconi di stoccare in Sardegna le scorie nucleari), Rete Lilliput, “Gettiamo le Basi”, Sardigna Natzione e molte persone non direttamente legate ad alcuna appartenenza organizzata – porta avanti il referendum consultivo regionale che pone il quesito: “Siete contrari alla presenza in Sardegna di basi militari straniere, comunque istituite, atte ad offrire punti di approdo e di rifornimento anche a navi e sommergibili a propulsione nucleare o con armamento nucleare?”. Nonostante il silenzio stampa e l’assenza delle grandi forze politiche e sindacali, le 10.000 firme necessarie sono raggiunte e ampiamente superate.
La lotta continua, adesso aspettiamo di verificare le iniziative del Governatore recentemente eletto e dei neoconsiglieri regionali che nel corso della campagna elettorale hanno aderito alla campagna “Tre Firme per la Verità” sottoscrivendo l’impegno di: “battersi con ogni mezzo nonviolento, giuridico, politico, legislativo amministrativo per il ritiro di tutte le truppe e i mezzi militari di Paesi stranieri presenti in Sardegna, per la messa al bando dell’uranio impoverito e per la sospensione di ogni tipo di esercitazione nei poligoni militari della Sardegna fino a quando non sarà chiarita la causa dei tumori e delle malformazioni che colpiscono civili e militari.

L’ISOLA DI PACE

Strati crescenti di popolazione vanno acquisendo una sempre maggiore consapevolezza del ruolo che le basi militari giocano nelle politiche militari interventiste portate avanti dall’Italia.
La lotta contro l’occupazione militare della Sardegna – per i diritti umani negati, il diritto all’uso sostenibile delle risorse, il diritto al controllo democratico del territorio, il diritto a vivere senza l’incubo dell’olocausto nucleare, dell’uranio impoverito, della morte lenta per leucemia – e la lotta contro la guerra di aggressione in Irak si vanno lentamente intrecciando e rafforzando a vicenda dando spessore alla consapevolezza che ripudiare la guerra comporta il ripudiare le basi e i poligoni della guerra.
Diventa sempre più profondo e visibile l’abisso che separa il ruolo di lugubre scuola di guerra, aggressivo bastione armato del Mediterraneo –imposto alla Sardegna nelle alte sfere internazionali- e il progetto di futuro –deciso dalla Sardegna, dal suo popolo e dalle sue istituzioni – di ospitale crocevia di popoli e culture delle due rive del Mediterraneo. La Sardegna nel corso della sua storia millenaria non ha mai mosso guerre di aggressione ad altri popoli.
È sempre stata Isola di Pace e intende essere Isola di Pace. La lotta vincente di Vieques conferma che non c’è Stato né Forza Armata che non possano essere sconfitti da un popolo quando il popolo ha la ragione e la volontà di lottare per far prevalere i suoi diritti e le sue esigenze.
In Gettiamo le Basi lavoriamo per liberare la Sardegna dalla presenza militare con l’obiettivo che tutto l’apparato che sostiene e fomenta la guerra, così come schiavitù, razzismo, ingiustizia sociale, finisca al più presto nell’archeologia della storia. Crediamo che la Sardegna possa dare un enorme contributo perché è enorme il peso dell’oppressione militare che la mortifica. Liberandosi del ruolo di vittima si libera del ruolo di complice e concorre a liberare l’umanità dall’incubo della guerra.