Marximo occidentale/marxismo orientale?
Assurdo è voler leggere Gramsci in base alla dicotomia marxismo occidentale/marxismo orientale e facendo corrispondere questa dicotomia a quella di marxismo fondato sull’egemonia/marxismo fondato sulla dittatura. Gramsci non ha esitazione ad approvare lo scioglimento cui bolscevichi e socialisti rivoluzionari procedono dell’Assemblea Costi tuente che si contrappone ai Soviet e al nuovo potere rivoluzionario, e non esita ad approvarlo come “un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che fatalmente ha dovuto assumere”. Qualche mese prima, Gramsci ha polemizzato contro il ministro riformista Bissolati, che ha minacciato non già di sciogliere il Parlamento ma di aprire il fuoco contro di esso, o contro i suoi settori riluttanti a lasciarsi contagiare fino in fondo dal clima di guerra totale e di fanatica eccitazione sciovinistica.
Sono gli anni in cui, persino negli USA, gli organismi rappresentativi vengono epurati, in violazione delle stesse norme vigenti, degli elementi ritenuti indesiderati. Non si vede perché ai bolscevichi, che hanno vissuto l’esperienza della deportazione in Siberia dei loro deputati contrari alla guerra, debba essere negato il “diritto” di ricorrere, al fine di salvare la rivoluzione e bloccare per sempre la guerra, a misure analoghe a quelle progettate o messe in atto, in condizioni assai meno drammatiche, dagli stessi paesi liberali in funzione della continuazione ad oltranza della mobilitazione totale e della guerra. Tanto più che, se in Occidente ad essere colpiti o minacciati di essere colpiti da misure straordinarie sono gli organi che pure incarnano in modo esclusivo il principio di legittimità, nella Russia sovietica lo scioglimento dell’Assemblea Costitu ente è solo un momento dello scontro tra due principi di legittimità che in pratica si affrontano già dalle giornate di febbraio. A quest’ultimo fatto accenna Gramsci, allorché insiste sul contrasto tra “Costituente e Soviety” (così suona il titolo dell’articolo) ovvero tra le diverse “forme rappresentative” scaturite dal processo rivoluzionario.
Abbiamo visto Gramsci condannare inizialmente il giacobinismo in termini anche assai aspri. Sono proprio le lotte della rivoluzione russa ad aiutarlo a comprendere quelle a suo tempo sviluppatesi nel corso della rivoluzione francese e a spingerlo a rivedere il giudizio sul giacobinismo. Su L’Ordine Nuovo pubblica il saggio in cui Albert Mathiez, il grande storico della rivoluzione francese, paragona giacobini e bolscevichi. C’è un altro fatto significativo per la comprensione della formazione del gruppo ordinovista. Ancora in età matura, Togliatti ama ricordare di essersi impegnato da giovane nella traduzione della Fenomenologia dello spirito, l’opera che non a caso, pur nella critica più severa di Robespierre, rifiuta di demonizzare e di trattare alla stregua di un semplice criminale uno statista semmai ossessionato dalla “virtù”; un’opera che smaschera l’ipocrisia dell’anima bella e, indirettamente, dell’ipocrisia di cui è intessuta la demonizzazione del giacobinismo.
Per questo suo sforzo di comprendere le ragioni del Terrore, giacobino e bolscevico, dobbiamo escludere Gramsci e il gruppo ordinovista dal marxismo occidentale? E dobbiamo includervi invece Rosa Luxemburg, la quale condanna lo scioglimento dell’Assemblea Costituente e accusa i bolscevichi di ripercorrere la via del “dominio giacobino”? Nello stesso momento in cui prende le difese della democrazia, la grande rivoluzionaria critica duramente i bolscevichi per la loro riforma agraria “piccolo-borghese”, che concede la terra ai contadini, e invita il nuovo regime a “soffocare sul nascere con pugno di ferro ogni tendenza separatistica” proveniente da “popoli senza storia”, “cadaveri imputriditi che emergono dai loro sepolcri secolari”. In questa critica e in questo invito, sono implicitamente contenuti gli elementi che condurranno circa dieci anni dopo alla diffusione su larga scala del gulag e degli orrori dell’universo concentrazionario. La collettivizzazione forzata dell’agricoltura – vero atto di nascita dello “stalinismo”– si svilupperà per l’appunto all’insegna del pugno di ferro contro le tendenze borghesi e piccolo-borghesi dei contadini che sono membri per lo più di “popoli senza storia”, per usare l’infelice linguaggio che la Luxem- burg desume da Engels.
Per suggestive e lungimiranti che possano apparire e siano in effetti le parole della grande rivoluzionaria (“la libertà è sempre solo la libertà di chi pensa diversamente”), che sembra qui presagire il successivo orrore e la successiva catastrofe del regime nato dall’Ottobre bolscevico, bisogna tuttavia dire che, nel complesso, è Gramsci a rivelare un senso più robusto della realtà storica. E non solo per il fatto che, in quella determinata situazione, la scelta non è tra dittatura e democrazia parlamentare bensì tra dittatura e dittatura, come ben sapevano anche tanti statisti borghesi (Churchill in testa) che già dopo gli avvenimenti di febbraio manovrano in ogni modo per stabilire in Russia una dittatura capace di imporre all’esercito e al popolo la continuazione di una guerra e di una carneficina senza fine. No, Gramsci rivela un senso robusto della realtà, anche per l’attenzione che rivolge alla questione nazionale e alla questione contadina, le due questioni strettamente intrecciate la cui rimozione o il cui disinvolto trattamento hanno provocato la catastrofe. E, per di più, comincia a prendere coscienza, come abbiamo visto, delle conseguenze catastrofiche dell’attesa messianica dell’estinzione dello Stato, oltre che della coscienza e identità nazionale.È dunque Gramsci l’autore che può fornire spunti preziosi per un bilancio impietosamente critico, e tuttavia non liquidatorio, della vicenda storica iniziata con la rivoluzione d’Ottobre.
In ogni caso, non resiste all’indagine critica la contrapposizione marxismo occidentale fondato sull’egemonia/marxismo orientale fondato sulla dittatura. Con la loro incomprensione della questione nazionale e contadina, con il loro escatologismo che attende la fine dello Stato, della nazione, della religione, del mercato e, in ultima analisi, della storia, il cosiddetto marxismo occidentale è esso stesso corresponsabile della catastrofe verificatasi a Est. D’altro canto, il Pol Pot che ha fatto i suoi studi a Parigi e operato i suoi misfatti in Cambogia è da sussumere sotto la categoria di marxismo occidentale o orientale?
Gramsci e la storia del socialismo
Invece che con la coppia di concetti marxismo occidentale/marxismo orientale, si opera talvolta, in modo più o meno consapevole, contrapponendo in modo antitetico esperienza storica del “socialismo reale” da una parte e pensiero utopico dall’altra. In tal caso, o si predica un fantomatico ritorno a Marx, oppure alle personalità direttamente coinvolte nella gestione dei paesi e dei regimi scaturiti dalle rivoluzioni comuniste si contrappongono le figure considerate nobili anche perché lontane dall’esercizio del potere. Se ci interroghiamo sugli autori più citati e più amati a sinistra oggi, dopo il crollo del “socialismo reale”, non credo ci possano essere molti dubbi sulla risposta: sono Gramsci, Luxemburg, Che Guevara. Si tratta di personalità tra loro assai diverse ma che hanno in comune il fatto di essere in qualche modo degli sconfitti, che non hanno potuto partecipare alla gestione del potere scaturito dalla rivoluzione e che hanno invece dovuto subire la violenza dell’ordinamento politico-sociale esistente. Esprimendo tali preferenze, è possibile proclamare la propria fedeltà agli ideali del socialismo, il proprio dissenso o disagio nei confronti del capitalismo trionfante e del Nuovo Ordine Internazio- nale, senza prendere posizione sul bilancio storico del regime o dei regimi nati a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Rispettabile è questo atteggiamento che ha il merito di rifiutare le palinodie pavide e precipitose, e tuttavia esso ha già liquidato l’essenziale della lezione di Marx ed Engels, i quali hanno costantemente insistito sul fatto che la teoria rivoluzionaria si sviluppa attraverso il confronto col movimento storico reale. Soprattutto, un tale approccio si rivela del tutto incapace di comprendere il pensiero e la personalità di Gramsci. Questi è stato anche dirigente comunista di primo piano e non può essere trasformato in una sorta di Horkheimer o di Adorno italiano, impegnato a costruire una teoria critica senza rapporto o con un rapporto esclusivamente polemico col movimento comunista e col “movimento reale” di trasformazione della società. Assente è nella Scuola di Francoforte il problema dell’unità tra intellettuali e coscienza comune. Essa assume idealmente le posizioni di Erasmo, cui i Quaderni del carcere contrappongono, ripetutamente e positivamente, Lutero. Ben lungi dall’avere la finezza e la cultura del grande umanista, il contadinesco riformatore mette tuttavia in moto un processo di tumultuosa trasformazione: nella sua rozzezza esprime il travaglio del parto di una società nuova; il vecchio mondo si presenta certo più luccicante o più laccato, ma è lo splendore di una civiltà fondata sull’esclusione e al tramonto.
Oltre che un avvenimento storico concreto, la Riforma è anche la metafora della Rivoluzione d’Ottobre. Per questa sua accanita difesa dell’”ordine nuovo”, nelle configurazioni da esso via via assunto nel corso del processo storico, Gramsci potrebbe essere considerato l’antagonista di Nietzsche. Questi, nel perseguire sin nelle sue più remote origini la modernità e la rivoluzione, contrappone ad ogni tappa di questa rovinosa parabola la maggiore ricchezza culturale e il maggior equilibrio dell’antico regime di volta in volta rovesciato. Parago- nato a Voltaire o Montaigne fa una pessima figura Rousseau, e lo stesso vale per Lutero nel confronto con Erasmo e il Rinascimento; rispetto poi agli autori dell’antichità classica, Gesù e gli “agitatori cristiani […] chiamati Padri della Chiesa” sono come “l’”esercito della salvezza” inglese” rispetto a Shakespeare e agli “altri “pagani”” che esso pretende di combattere. Non solo sul piano propriamente culturale, ma anche su quello morale e antropologico, gli esponenti del vecchio regime si rivelano superiori ai rappresentanti del nuovo, immancabilmente rozzi e fanatici. Ha un valore paradigmatico ed esemplare il modo in cui Nietzsche descrive il contrasto tra romanità e cristianesimo: da una parte Pilato, il quale dichiara di non sapere cos’è la verità, dall’altra Gesù che con essa pretende di identificarsi; da una parte la “nobile e frivola tolleranza” di Roma, che ha al suo centro “non già la fede, ma la libertà dalla fede”, dall’altra “lo schiavo” che “vuole l’incondizionato, comprende solo il tirannico, anche nella morale”. Poco propenso a distinzioni o giustificazioni, Nietzsche traccia una linea di continuità dal fanatico Credo quia absurdum di Tertulliano alla fede altrettanto fanatica del movimento socialista nella palingenesi sociale.
Gramsci è pienamente consapevole del fatto che il vecchio ordinamento può trovare nella poesia “un canto del cigno” che può essere di “mirabile splendore”. È come se tutte le diverse configurazioni dell’antico regime rovesciato dalle successive ondate della modernità e della rivoluzione avessero trovato in Nietzsche un canto del cigno straordinariamente seducente. Ma non per Gramsci, il quale continua ad essere col nuovo, di cui tuttavia non sottovaluta e non occulta le terribili difficoltà e deformazioni. Nel salutare la rivoluzione d’Ottobre, egli sottolinea che essa inizialmente produrrà solo “il collettivismo della miseria, della sofferenza”. Ma non è neppure questo l’aspetto più importante. Gramsci s’impegna in uno sforzo di comprensione simpatetica del nuovo anche quando, agli occhi di un osservatore superficiale e ignaro della terribile complessità del processo storico e del processo rivoluzionario, esso appare tradire le ragioni stesse della sua nascita. Straordinaria è la pagina dedicata, nel 1926, all’analisi dell’URSS e del fenomeno “mai visto nella storia” che è implicito nel faticoso processo di costruzione di una società socialista o postcapitalistica: una classe politicamente “dominante” viene “nel suo complesso” a trovarsi “in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta”. Le masse popolari che continuano a soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del “nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra”; e, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo o di ripulsa, in quanto il proletariato, come non può conquistare il potere, così non può neppure mantenerlo, se non è capace di sacrificare interessi particolari e immediati agli “interessi generali e permanenti della classe”.
Non avrebbe alcun diritto di richiamarsi a Gramsci chi volesse trasformarlo nel teorico di un utopismo impotente e impegnato a fuggire ogni contaminazione del reale. La sua lezione va, invece, in direzione esattamente contrapposta. Nel 1924, mentre infuria lo squadrismo e si delinea ormai con chiarezza la vittoria del fascismo, il dirigente comunista rifiuta ogni bilancio liquidatorio della storia del movimento operaio, respingendo già nel titolo di un articolo dell’”Ordine Nuovo” la tesi secondo cui “il passato fu tutto un errore”; e, invece, “nel passato esiste […] l’errore, la negatività, la morte, ma esiste anche la vita, lo sviluppo della tradizione sana del movimento rivoluzionario italiano; c’è anche nel passato una parte positiva che oggi continua a svilupparsi nonostante la reazione e il terrore bianco”.
È un criterio che i Quaderni del carcere fanno valere per quanto riguarda il passaggio dal capitalismo al socialismo, nonostante che l’esperienza traumatica del macello consumatosi nel corso della prima guerra mondiale e del successivo avvento del fascismo stimoli un atteggiamento di liquidazione della storia della borghesia come un cumulo di errori e orrori. In polemica contro tale tendenza, che trova espressione anche nel Saggio di Bucharin, Gramsci invece osserva:
“Giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato. L’antistoricismo metodico non è altro che metafisica”.
Liquidare “il passato come “irrazionale” e “mostruo so”” significa ridurre la storia politica e delle idee a una grottesca vicenda di mostri, a un “trattato storico di teratologia”.
È dunque da considerare ancor più grevemente “metafisico” l’odierno atteggiamento di coloro che, anche all’interno della sinistra, vorrebbero ridurre il periodo storico iniziato con la svolta epocale dell’Ottobre 1917 ad un nuovo capitolo di teratologia, che è poi l’altra faccia dell’insulsa e improbabile agiografia con cui la borghesia oggi trionfante pretende di ascendere alla gloria degli altari. Nonostan te gli orrori della prima guerra mondiale e del fascismo, Gramsci si è rifiutato di leggere la storia moderna come un trattato di “teratologia”; non c’è motivo di leggere in questo modo la storia del “socialismo reale”, nonostante gli errori, le colossali mistificazioni e gli orrori che l’attraversano. L’autore che ha insistito sulla necessità di ereditare i punti alti della Rivoluzione francese può ben essere d’aiuto oggi a comprendere l’ineludibilità del problema dell’eredità della Rivoluzione d’Ottobre. Ancora una volta, non può essere definito “critico” il “comunismo” che non si ponga con rigore il problema del bilancio e dell’eredità storica del passato.
Questo intervento è parte del libro di Domenico Losurdo “Antonio Gramsci, dal liberalismo al comunismo critico”, Gamberetti, Roma