“Globalizzazione” e sistemi di istruzione

Col decreto legge 112 del 25 giugno 2008 “si accelera il ‘lavoro’ di demolizione dell’Università statale, condotto da decenni da un potente gruppo accademico-politico- confindustriale, che ha ‘utilizzato’ tutti i Ministri, tutti i Governi e tutti i Parlamenti succedutisi. […] I contenuti del Decreto- Legge non sono nuovi: essi sono stati ‘auspicati’ e/o ‘tentati’ e/o ‘praticati’ nel corso degli ultimi decenni, in maniera assolutamente trasversale, sulla base di una ‘ideologia’ italo-anglo-americana che in realtà aveva e ha come vero obiettivo (già in parte realizzato) quello di dirottare le risorse pubbliche per l’Alta formazione e la Ricerca verso autoproclamati centri di eccellenza. Lo strumento principale per imporre questo progetto è stato il Ministero dell’Economia, che ha di fatto avocato a sé poteri propri dei Ministri formalmente competenti per l’Università e la Ricerca”.

LA PRIVATIZZAZIONE DELL’UNIVERSITÀ ITALIANA
Col pretesto di mettere sotto controllo la spesa pubblica e risanare il bilancio, il governo Berlusconi sta portando a compimento il processo di privatizzazione delle università statali, avviato dal ministro Ruberti (del PSI) alla fine degli anni 1980, in accordo con le richieste avanzate dalle più influenti associazioni degli industriali italiani (Confindustria) ed europei (ERT). Allora il “movimento della Pantera”, promosso da organizzazioni di studenti e docenti tra il 1989 e il 1990, occupò diverse facoltà universitarie per opporsi al processo di privatizzazione, denunciandone gli effetti devastanti, consistenti nello svuotamento delle prerogative decisionali degli organi di governo dell’Università, malgrado l’adozione dei nuovi statuti, nella svalutazione dei titoli di studio e nella proliferazione dei corsi di laurea, generalmente allo scopo di creare nuovi posti di professore e garantire così la riproduzione della casta accademica e delle sue logiche di cooptazione e di selezione “familiare”. Il decreto prevede all’art. 16 la possibilità di trasformare le Università in fondazioni di diritto privato, in nome della flessibilità e della competizione, con una sospensione delle regole di contabilità dello Stato. Si consente di privatizzare strutture pubbliche che saranno mantenute con finanziamenti pubblici. Questa scelta è demandata ai Senati Accademici, organi i cui componenti sono stati eletti quando non era stato ancora loro attribuito tale delicatissimo e importantissimo potere di scelta. I rap – porti di lavoro saranno ampiamente de – regolamentati; si prevedono vincoli al turn- over (solo il 20% dei docenti che vanno in pensione saranno rimpiazzati) e tagli agli stipendi. Il decreto prospetta anche agevolazioni fiscali per quei privati che volessero versare contributi a queste nuove fondazioni e apre la strada a probabili incentivi finanziari statali per quegli atenei che optassero per questa forma di privatizzazione. Di fronte alla drammatica carenza di finanziamenti pubblici molti atenei potrebbero essere costretti a trasformarsi in fondazioni di diritto privato che acquisiranno la proprietà dei beni immobili delle Università. Ciò che sta accadendo in Italia non è però, come pure ritiene l’autore di una puntuale analisi critica del processo di privatizzazione dell’università, un’anomalia italiana, frutto di un neothacherismo berlusconiano , ma è l’applicazione – certo con alcune specificità italiane – della politica perseguita dalla Unione Europea (UE) e dai principali centri di coordinamento capitalistico sovranazionale (G8, World Bank, OECD) da vent’anni a questa parte, quando il capitale transnazionale, nella nuova fase dell’imperialismo che viene sommariamente indicata con il termine di “globalizzazione”, decide di porre direttamente, programmaticamente e organicamente, le mani sull’istruzione, dalla scuola materna all’università e i centri di ricerca, dalla for- mazione professionale alla educazione permanente (long life learning). L’invito all’intervento del capitale privato nella scuola e nell’università è una costante dei documenti della UE. Si veda ad esempio il recente documento della commissione europea “L’apprendimento permanente per la conoscenza, la creatività e l’innovazione”, in cui si richiede una più forte subordinazione dell’università, della scuola e della formazione professionale all’impresa, nelle forme del “partenariato” o della “sponsorizzazione”. Karl Marx nel VI capitolo inedito del Capitale e in altri passi ricorre, tracciando la storia della nascita e sviluppo del modo di produzione capitalistico, a due concetti correlati: “sussunzione formale” (usa il termine di origine latina: Subsum – ption) e “sussunzione reale” del lavoro al capitale. Nel primo caso – prima tappa del processo di sottomissione capitalistica del lavoro – il lavoro e il lavoratore mantengono alcune loro caratteristiche originarie, mantengono i “segreti del mestiere”, sono in grado di controllare il processo lavorativo. Il capitale li sottomette, sussume, appropriandosi del plusvalore prodotto, ma non ha ancora espropriato il lavoratore del controllo sul processo di produzione. Con la grande industria e le macchine, siamo invece alla sottomissione reale: il capitale conforma ai suoi fini propri il processo lavorativo, fa dell’operaio un’appendice della macchina.

IL RUOLO DELLA SCUOLA E DELL’ISTRUZIONE NELLE DIVERSE FASI DELLO SVILUPPO STORICO DEL CAPITALISMO
Questi concetti di Marx ci indicano la strada per la comprensione del contraddittorio processo di sviluppo capitalistico e possono essere estesi a tutta la sfera della vita sociale e non solo al lavoro. Il capitale intende sottomettere, conformandolo alle proprie esigenze, ogni aspetto della vita umana, in modo che risponda al suo scopo principale della produzione (Zweck der Produktion), la valorizzazione del capitale, l’accrescimento di valore. Ciò può essere intuitivamente comprensibile anche attraverso l’osservazione empirica della vita quotidiana, dove ogni cosa viene ridotta a merce, dall’acqua al genoma, e privatizzata. I recenti movimenti per la difesa dei “beni comuni” e contro la mercificazione ne sono una significativa reazione. Dalla prigione di Turi in cui era rinchiuso dal fascismo, il leader del Pcdi, Antonio Gramsci, riprende questa grande intuizione di Marx sulla sottomissione della vita al capitale. Nell’analisi dell’americanismo e del fordismo sviluppata nei Q u a d e rni del carcere, individua nel progetto americanista il tentativo di subordinare ogni aspetto della vita sociale, e non solo il lavoratore in fabbrica, ai voleri del capitalista che intende ridurre l’operaio a “gorilla ammaestrato”. Del resto, già Marx, nelle affascinanti e appassionate pagine del Capitale dedicate alle macchine e alla grande industria, vede la tendenza della sottomissione dell’operaio al capitale non solo dentro la fabbrica, ma anche fuori, nella vita quotidiana. Questa questione è diventata sempre più centrale nella riflessione dei filosofi critici contemporanei. Il capitalismo pretende oggi un controllo totale sulla riproduzione sociale. Nel processo di sottomissione reale dell’uomo e della natura, di tutte le sfere della vita al capitale, la scuola, l’istruzione, la formazione occupano un posto privilegiato. La classe transnazionale dei capitalisti oggi non può e non vuole disinteressarsi della scuola e dell’istruzione in generale, ma intende organizzarla e conformarla secondo le esigenze della fase attuale di sviluppo capitalistico. Che la scuola (intesa in senso lato, compresa la formazione universitaria) sia una dei terreni fondamentali in cui si gioca, nella competizione imperialistica globale, la possibilità del primato, che essa sia oggi più che mai necessaria per lo sviluppo economico, che il sapere sia sempre più incorporato nella produzione, è facilmente intuibile e viene del resto ripetuto dalle classi dirigenti capitalistiche come un mantra: “Solo adattandosi ai caratteri dell’impresa dell’anno 2000 i sistemi di educazione e formazione potranno contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione” (1996); “l’Unione europea si trova di fronte ad un formidabile cambiamento indotto dalla mondializzazione e dalle sfide provenienti da una nuova economia fondata sulla conoscenza”, per cui l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un obiettivo strategico superiore, aiutare l’Europa a “diventare la più competitiva e dinamica economia della conoscenza del mondo, capace di una crescita economica durevole” (2001); “l’istruzione è di aiuto per tutti per massimizzare le potenzialità degli individui e per partecipare ad una società basata sulla conoscenza” (2006); “ L’istruzione e la formazione sono essenziali nell’ambito dei cambiamenti economici e sociali” (2008); “lo sviluppo e il riconoscimento delle conoscenze, delle abilità e delle competenze dei cittadini sono fondamentali per lo sviluppo individuale, la competitività, l’occupazione e la coesione sociale della Comunità” (2008). Molti documenti impiegano abitualmente l’espressione “economia della conoscenza”, “società basata sulla conoscenza”, sul sapere. Lo svi- luppo tecnologico rende ciò evidente. È un fatto che la scienza è sempre più incorporata nella produzione. La vera seconda rivoluzione industriale che ha trasferito alle macchine tecnologiche anche le operazioni mentali di controllo lo rivela chiaramente. La prima rivoluzione industriale trasferì alle macchine la forza muscolare. Se nel ‘900 era sufficiente per la borghesia avere operai non analfabeti, capaci di lavorare con le macchine nella fabbrica fordista, alla classe operaia del XXI secolo si richiede un grado di istruzione tale da poter agire con competenza con i software informatici. La mondializzazione dell’economia richiede anche la conoscenza di una lingua di comunicazione standard – è oggi l’inglese – e conoscenze tecniche standard per il trasferimento di forza-lavoro da una parte all’altra del globo, secondo le esigenze del capitale. Si richiede inoltre una grande flessibilità, una capacità di adattamento a sistemi di produzione e tecnologie destinate a modificarsi rapidamente. Marx nel Capitale dedica attente pagine all’analisi dell’addestramento del lavoratore: occorrevano anni, un lungo tirocinio, un apprendistato per rendere abili braccia e mani al lavoro, per abituare l’occhio a una certa operazione, per l’adattamento psico-fisico (Gramsci) al lavoro di fabbrica. Nelle scuole professionali e tecniche si dedicavano molte ore al disegno tecnico, la mano doveva abituarsi, acquisire abilità. Tutto ciò oggi è superato dal CAD, non bisogna avere alcuna abilità manuale specifica, ma conoscere il funzionamento del software informatico. La scuola nell’era della prima rivoluzione industriale e del fordismo doveva addestrare gli operai, insegnare loro un mestiere. Dagli istituti professionali uscivano tornitori, saldatori, fresatori, carpentieri. Era una scuola che abituava anche alla disciplina (che il servizio di leva obbligatorio confermava) dell’obbedienza al capo, al regime di fabbrica. Nel 1923 il filosofo neoidealista italiano Giovanni Gentile, schieratosi col fascismo, disegnò organicamente la scuola di classe: da una parte la scuola per quanti erano destinati ad un lavoro esecutivo, subordinato, manuale. Dopo i 5 anni di elementari, c’era, per i figli delle classi subalterne, l’avviamento professionale ed eventualmente gli istituti professionali. Per quanti erano destinati a posizioni di comando, c’era il ginnasio e poi il liceo, che solo consentiva l’accesso all’università. Un ruolo intermedio offrivano gli istituti tecnici, e diventare un tecnico – geometra, ragioniere, perito industriale – rappresentava già un salto sociale per il proletariato. In Italia, ma anche in diversi paesi europei più avanzati, l’istruzione superiore era poco diffusa, la maggioranza della popolazione si fermava alla licenza elementare e gli investimenti statali per la scuola rappresentavano una quota marginale del prodotto interno lordo. La struttura economica richiedeva una massa di operai capaci di eseguire le direttive, addestrati al lavoro esecutivo, ai mestieri, che si apprendevano sul campo, fuori delle mura scolastiche. Risorse e attenzioni erano riservate alla formazione delle elite dirigenti, attraverso i licei e l’università. L’idealismo italiano e gli studi classici mantenevano ancora una patina di universalismo e di studio “disinteressato”, uno studio per sé, dove obiettivo prioritario della scuola era la formazione dell’uomo in quanto tale. La scuola gentiliana, apertamente e scopertamente classista, rappresentava organicamente una fase del capitalismo, che negli anni 1920-40 è protezionistico e nazionale. Se l’ideale degli industriali americani era il “gorilla ammaestrato”, un esecutore incapace di pensare e di ribellarsi (ma Gramsci ritiene ciò solo un’utopia negativa, perché l’operaio, anche alla catena di montaggio e nel lavoro ripetitivo, nonostante tutto, è capace di pensare, non era proprio il caso di dedicare risorse e attenzioni alla scuola di massa. Sarebbero stati sufficienti l’alfabetizzazione e un’educazione di base, un addestramento. L’istruzione superiore e poi l’università erano destinate all’elite dirigente, tecnico-manageriale e politica. L’attenzione maggiore che si ha negli USA rispetto alla “vecchia Europa” per gli studi tecnici è dovuta al maggior grado di sviluppo dell’industria americana, alla sua meccanizzazione spinta, al fordismo.

LE LOTTE DEL MOVIMENTO OPERAIO E DEMOCRATICO CONTRO LA SCUOLA DI CLASSE NEL II DOPO GUERRA
Nel II dopoguerra il movimento operaio e democratico, forte anche dell’esperienza della scuola politecnica sovietica e dei suoi successi in campo scientifico – furono sovietici il primo sputnik e il primo uomo nello spazio, sovietici erano gli studi avanzati di cibernetica, alcune università occidentali adottavano testi sovietici di Fisica – si batte decisamente in Italia, Francia, e in Occidente per la democratizzazione della scuola, per la parità di accesso per tutti, per il superamento della scuola di classe. Lettera ad una professo – ressa marca con forza, alla vigilia dei grandi movimenti del 1968, la denuncia e la lotta contro la scuola di classe. Uno degli slogan più frequenti fu in quegli anni “Basta con la scuola dei figli di papà, i figli degli operai all’università!” Una delle idee-guida dei movimenti di lotta in Italia degli anni 1960-1970 era non semplicemente la rivendicazione di una “scuola pubblica”, ma della “scuola della repubblica”, ispirata cioè ai principi della costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista. Si concepiva la battaglia sulla scuola come uno degli strumenti centrali per l’emancipazione del proletariato, come uno dei luoghi in cui si contrasta la riproduzione classista della società, che interviene attraverso la divisione del lavoro, tra “lavoro intellettuale” e “lavoro manuale”, tra attività creativa, dirigente e di comando e attività esecutiva. Si conquistarono così la scuola media unica (1962), con l’abolizione dell’avviamento professionale, cui erano destinati i figli del proletariato, ai quali era preclusa, sin dall’età di 11 anni, ogni possibilità di accedere ad una laurea universitaria; e l’apertura di tutte le facoltà universitarie ai diplomati degli istituti tecnici e professionali (1969), cosa che consentì di promuovere mobilità sociale e indebolire il sistema di una rigida divisione di classe. Ma, ancor più, la scuola era concepita dai movimenti di lotta di quegli anni come luogo della formazione dell’uomo e del cittadino portatori di un sapere critico, che è agli antipodi di una visione di essa come fabbrica di forza lavoro più o meno qualificata per l’industria. L’emancipazione del proletariato non può passare attraverso la riproduzione del proletariato in quanto tale, il mantenimento di esso in un ruolo subalterno al capitale. Quando si chiedeva il superamento della separatezza tra scuola e “mondo del lavoro”, tra fabbrica e scuola e l’unità nella lotta di studenti e operai (erano diffusissimi slogan quali: “Fabbrica e scuola – una lotta sola”; “Studenti, operai, uniti nella lotta”) non s’intendeva certamente subordinare la scuola alle esigenze dell’industria capitalistica, fare della scuola l’ancella della fabbrica, organizzando percorsi formativi, discipline, culture in funzione delle richieste delle imprese, ma, all’opposto, organizzare la scuola in funzione della liberazione della classe operaia dalle sue catene: non l’“impresa”, cioè, nelle condizioni attuali, il capitale, doveva entrare nella scuola per condizionarne il percorso, ma il “lavoratore”, in quanto antagonista del capitale, per portare nella scuola i valori, le idealità del movimento operaio e acquisire la formazione, la cultura critica per liberarsi dal dominio del capitale. Il che significa scuola come luogo di formazione dell’uomo in quanto universale e non di addestramento del lavoratore in quanto particolare subalterno. Una scuola, per parafrasare Immanuel Kant, che concepisca e pratichi la trasmissione e l’elaborazione di cultura come fine in sé e non come mezzo per entrare, subalterni, nel “mondo del lavoro”. Negli anni ’70 e ancora nei primi anni ’80 la scuola italiana vive una stagione importante, tanto nelle pratiche di lotta degli studenti e di una nuova leva di insegnanti usciti dalla fucina delle lotte del ‘68, portatori di una cultura critica e della trasformazione sociale, in nome della quale favoriscono l’introduzione di libri di testo fortemente innovativi, quanto nel percorso di una legislazione che, con tutti i limiti derivanti dai rapporti di forza esistenti, si ispirava a un’idea di partecipazione democratica e collegiale – di tutti i soggetti interessati e non solo degli insegnanti come corpo separato – alla direzione della scuola (i “decreti delegati” per gli organi collegiali del 1974). Quella degli anni 1960-70 fu una grande battaglia democratica, che strappò, tra l’altro, un relativamente consistente assegno di studio (presalario universitario) per gli studenti meno abbienti. Ma fu una lotta anche su contenuti e metodi dell’insegnamento: no al nozionismo, no alla divisione rigida tra discipline umanistiche e scientifiche, rifiuto di una pedagogia autoritaria, ricerca di una pedagogia attiva e partecipativa. Le classi dirigenti seppero cavalcare l’onda del ’68, cercando di piegare il movimento verso i propri fini, cosa che riuscì in parte. Rispetto a forti residui di cultura aristocraticoclericale, il movimento del 68 veniva utilizzato dalla borghesia per una modernizzazione di tipo americanista, stravolgendo la giusta richiesta di una scuola legata alla vita e alla società, rispondente in particolare alle istanze di giustizia ed emancipazione sociale provenienti dal proletariato, in una richiesta di legame tra scuola e industria, di finalizzazione degli studi all’impiego lavorativo. E ciò era peggiore dell’idealismo gentiliano, che poneva idealisticamente, beninteso solo per un’élite, il fine dell’insegnamento nella formazione dell’uomo come valore in sé. Fare del lavoro nelle condizioni capitalistiche, del lavoro subordinato al capitale, e dunque di un lavoro che rende parziale e mutilato l’uomo, lo scopo principale della politica scolastica, significa sin dall’origine proporsi come fine non la formazione di un uomo e cittadino (politico nel senso alto del termine) completo, ma di un’appendice della macchina capitalistica. La filosofia neoidealistica non venne superata nel marxismo critico, ma fu sostituita da una filosofia pragmatistica (e strumentale), che è non a caso la filosofia dominante nel mondo anglosassone. Il modello americanista della scuola seduce negli anni 80 buona parte degli eredi dei movimenti del ’68 e porta ad una pedagogia che privilegia le tecniche piuttosto che i contenuti e specializza e frammenta i saperi in modo funzionale allo specialismo e alla divisione del lavoro. Nei principali paesi europei, anche per effetto della pressione del movimento operaio, il periodo post 1945, fino agli anni 80, ha visto un significativo incremento della spesa statale per l’istruzione e la realizzazione di un’istruzione secondaria di massa. Tra il 1960 e il 1980 vi è stato un incremento senza precedenti degli investimenti nella scuola: in Francia si passa dal 2,4% del prodotto interno lordo (PIL) al 5%; in Germania Ovest dal 2,9% al 4,7%; in Italia dal 3,6% al 4,4%; in Inghilterra dal 4,3 al 5,6%. L’università non è più riservata ai soli rampolli delle classi dirigenti. La società diviene “aperta”, affluente, apparentemente meno classista in senso tradizionale. Ma è il capitale stesso che richiede ora una trasformazione della scuola per gestire al meglio le “risorse umane”. La seconda rivoluzione industriale richiede una diversa impo- stazione dell’istruzione, la formazione di soggetti al massimo flessibili al rapido mutamento delle mansioni lavorative. La scuola diventa oggetto di attenzione e di proposta di riforme. Apparentemente sembrano andare in direzione dell’inclusione piuttosto che dell’esclusione, verso una società “aperta”. Sembrano insomma incontrarsi settori di una borghesia progressiva internazionalizzante e modernizzatrice – i movimenti del 68 sono utilizzati come spinta alla modernizzazione – e il movimento operaio e democratico che rivendica istruzione pubblica e gratuita, parità di accesso e di chance per il proletariato. Anche l’istruzione permanente era una rivendicazione democratico-operaia. Si svilupparono negli anni 1960-70 scuole serali professionali e tecniche, corsi delle 150 ore per consentire ai lavoratori di conseguire il diploma di licenza media inferiore, elevamento dell’età della scuola dell’obbligo (fino a 16 anni) per sottrarre al lavoro minorile i figli delle classi subalterne, prolungamento del tempo scuola e “scuola a tempo pieno” per dare agli studenti disagiati opportunità di studio e anche per abituare tutti allo studio collettivo. Educazione permanente (lungo tutto l’arco della vita: long life learning), aggiornamento permanente, lotta all’evasione e all’insuccesso scolastico, elevamento dell’età della scuola dell’obbligo: sono anche gli obiettivi posti dagli industriali e dai governi della UE negli ultimi 20 anni, ma di segno cambiato: servono ora ad estendere il controllo del capitale su tutto il processo formativo.

LA SOTTOM ISSIONE REALE DEL LA SCUOLA AL CAPITALE TRANS NAZIONALE
L’attenzione del capitale alle politiche scolastiche si accentua in concomitanza con i grandi processi geopolitici ed economici che intervengono alla fine degli anni 80 del secolo scorso. La crisi e poi il tracollo dell’URSS e del socialismo reale pone il mondo capitalistico, l’Occidente, quale unico arbitro che pretende di assumere la guida della vita nell’intero globo. In relazione a ciò vi è l’accelerazione della costruzione di un’area capitalistica europea che mira non solo all’unità economica, ma anche all’egemonia politica: la costruzione quindi di un superstato europeo in collaborazione e concorrenza con l’area del dollaro. Con la fine delle economie sovietiche si costituisce uno spazio unico per il capitale, un mercato mondiale dominato da enormi e potentissime imprese multinazionali e transnazionali. Il mercato mondiale richiede ora una standardizzazione dei percorsi e pro – cessi di formazione, una uniformità dei titoli di studio, dei diplomi, degli attestati, delle certificazioni, perché possano essere spendibili in tutto l’occidente. Ciò pone l’esigenza di un controllo diretto sulla formazione di forza lavoro, del superamento di peculiarità nazionali e locali. Tutto il sapere mondiale deve essere disponibile per il capitale, e per esserlo, deve essere “compatibile”, traducibile in un linguaggio standardizzato. Si tratta, in breve, del superamento della dimensione nazionale dell’insegnamento e della scuola. È un processo grandioso, che porta contraddittoriamente, al contempo, all’unificazione del genere umano e alla soppressione – un impoverimento – delle peculiarità storiche. La differenza strategica tra comunismo e capitalismo è che il primo – ponendosi l’obiettivo dello sviluppo integrale della personalità umana e collocandosi nel processo storico di costituzione dell’umano – pensa l’unificazione del genere umano in una pluralità di differenze prodotte dallo sviluppo storico dei popoli; il capitale, invece, mosso dallo scopo della valorizzazione del capitale, tende a sopprimere le differenze, a standardizzare, ad unificare ogni cosa nel suo riduzionistico linguaggio. Il capitalismo, col suo insopprimibile carattere di classe, non può essere mai veramente universalistico. Il suo falso universalismo è riduttivistico e immiserente. Contro le accuse di livellamento rivolte al comunismo, bisogna dire che solo esso invece può pensare, di contro al capitale, la convivenza dialettica delle differenze, un’unificazione del genere umano che sia conforme allo sviluppo storico disuguale dei popoli, non riducibili a valore di scambio. Negli ultimi anni si siano moltiplicati incontri internazionali e direttive per definire gli standard dei processi formativi e dell’istruzione. La UE si è posto il problema da tempo ed ha varato dei codici, degli standard per la scuola e l’Università. Si veda il “processo di Bologna”, avviato nel 1999, e poi la “strategia di Lisbona” (2000), seguiti da molti altri incontri per definire, all’interno di un piano generale, i dettagli più minuziosi e particolareggiati. Come è stata attenta a definire le regole per la produzione e circolazione di merci nella Comunità Europea (CE) – per cui nulla può essere qui venduto senza il marchio di conformità alla CE (e i produttori cinesi coreani indiani devono adeguarsi a queste norme) – così deve essere anche per l’istruzione: la merce forza lavoro intellettuale deve essere certificata, avere il suo marchio di “origine controllata”, con tanto di certificazione, di competenze acquisite fuori e dentro le istituzioni scolastiche pubbliche o private, che vanno a costituire il suo “portfolio”, il suo pedigree. Dunque, nulla più deve essere affidato al caso: controllo delle procedure di formazione, organizzazione del sapere, verifiche. Vi è in questa tendenza del capitale anche l’aspetto progressivo dell’unificazione del genere umano: si accresce la possibilità concreta di circolazione degli studenti e degli intellettuali nel mondo, con l’impiego di metodi e un linguaggio comune. Vi è pianificazione, organizzazione, superamento della casualità, dei particolarismi. Come una merce deve oggi obbedire a criteri precisi di qualità, sicurezza, affidabilità, garanzia nel tempo. (il marchio CE), anche la forza lavoro intellettuale deve essere classificata secondo standard. Ma, di contro, vi è la sottomissione reale al capitale dei processi di apprendimento e formazione della personalità. Le università, ma anche le scuole, nascono nel medioevo come libere associazioni – scevre da particolarismi: universalistiche. Sono state tradizionalmente anche centri di elaborazione intellettuale e critica: si pensi alla filosofia classica tedesca, alla scuola di Francoforte, agli insegnamenti tesi a formare una mente critica. Sono state fino ad ora una sfera non completamente omologata, né pienamente controllata dal capitale, come poteva essere l’industria. Zone franche. O anche riserve indiane, tollerate come nicchie, enclave nel sistema. Ma dal momento in cui la conoscenza diviene una forza essenziale per lo sviluppo del capitale, essa non può essere lasciata al caso. La produzione della forza lavoro intellettuale deve essere regolamentata, programmata, organizzata in tutto il suo percorso, dalla scuola materna all’educazione permanente. Il capitale interviene ora in tutti i processi di formazione intellettuale e culturale: dalla produzione alla distribuzione. Come il capitale transnazionale tende a sottomettere e trasformare gli stati nazionali, riducendo le loro prerogative a livello di competenze regionali, svuotandoli della loro essenza primitiva, sussumendoli al capitale transnazionale, così esso opera anche su una delle istituzioni che furono alla base della nazionalizzazione delle masse, della loro inclusione – “apparati ideologici di stato” li definì Althusser – nello stato nazionale borghese: la scuola. La scuola, in cui si impara la lingua e la storia nazionale, la scuola, che è uno dei centri essenziali di costituzione della coscienza nazionale, la scuola in cui confluiscono millenarie tradizioni specifiche di ogni paese, peculiarità che costituiscono identità nazionali, deve denazionalizzarsi e riorganizzarsi in funzione della fase transnazionale del capitale. È proprio alla fine degli anni 80 dunque, quando vengono a coincidere il terremoto geopolitico della fine dell’URSS con lo sviluppo della mondializzazione imperialistica, che si intensifica l’attività di incontri e produzione di documenti di ministri della UE, G8, commissioni UE, grandi centri e fondazioni internazionali (ad esempio la fondazione Gorbaciov, centri istituzionali governativi e imprese private (la Confindustria, l’ERT) per individuare le direttrici di fondo, i caratteri, le direttive da impartire alla scuola dei paesi occidentali per renderla funzionale alla nuova fase del capitale. A partire dagli ultimi 20 anni, possiamo parlare di politiche transnazionali o sovranazionali per l’istruzione, cioè di una sovranazionalizzazione e contemporanea de – nazionalizzazione dell’istruzione. Questo processo è particolarmente evidente nei numerosissimi documenti prodotti dalla CEE e poi UE soprattutto dopo il trattato di Maastricht del 1992 sulle politiche scolastiche (Bologna 1999, Lisbona 2000, Copenhagen 2002). Se la UE vuole costruire un superstato, ha bisogno di conformare e uniformare gli apparati ideologici di stato, la scuola in primis, alle sue esigenze. Ciò ha anche un risvolto pratico nel valore legale dei titoli di studio, equipollenza, mobilità di ricercatori e studenti (di qui i progetti Erasmus, Socrates, ecc.). Ma la UE si pensa come potenza espansiva e invita o impone di adottare le sue direttive anche agli stati non ancora ad essa appartenenti. Ciò è evidente ad esempio per l’università nel processo di Bologna, con i tre gradi di laurea. Questo processo si sviluppa insieme con quella grande ondata ideologico- politica che va sotto il nome di ‘neoliberismo’, termine che reca anche non pochi equivoci: esso è un’ideologia che esalta le energie primordiali e vitali del singolo, del privato contrapposte alla pretesa elefantiasi e inefficienza del pubblico. Ideologia piuttosto rozza e primordiale che riesce a far presa e incontrare il senso comune. Questa ideologia si traduce in una politica di privatizzazioni che coinvolge tanto l’industria quanto i principali servizi, dalla sanità alla scuola ai trasporti. La destatizzazione della proprietà, la fuoriuscita dello stato dal controllo di grandi imprese strategiche consente alle imprese multinazionali di appropriarsi di industrie che la proprietà nazionale prima rendeva impossibile. La denazionalizzazione serve al processo di concentrazione e fusione di capitali transnazionali. Anche la scuola è oggetto di privatizzazione. Ma il neoliberismo che chiede deregolamentazione è ben lungi dal rivendicare l’assenza di regole: vuole deregolamentare il pubblico per imporre le proprie regole da padrone più forte. Si tratta non di trasferire al privato tutto il sistema di istruzione pubblica: sarebbe per esso troppo dispendioso e oneroso, e, in questi termini, assolutamente non profittevole. Ma di sottrarre alcuni settori del business della formazione allo stato (ad es. la formazione professionale) utilizzando però i contributi statali (buono famiglia per le scuole private e confessionali), e di imporre procedure e contenuti privatistici alle scuole (attraverso l’autonomia scolastica, la presenza di imprenditori nei consigli di istituto, trasformando le università in fondazioni). Insomma di sostituire la finalità privata a quella pubblica, di trasform a re la scuola in un’appendice dell’impresa capitalistica, modificando le finalità dell’istruzione: non più la formazione dell’uomo e del cittadino, ma della forza-lavoro per il mercato capitalistico. La campagna neoliberista contro la scuola pubblica ha anche come risvolto la sottrazione di finanziamenti pubblici alla scuola a vantaggio dei privati, la riduzione di risorse per la scuola pubblica. Al di là di tutti i discorsi ideologici e retorici sulla scuola del futuro e la scuola inclusiva, quest’ultimo aspetto pesa decisamente sul peggioramento della qualità della scuola e sull’esclusione di frange sempre più consistenti di proletariato dall’istruzione superiore e dall’Università.