Globalizzazione e imperialismo: due facce della stessa medaglia

“Globalisation is imperialism” (“La globalizzazione è imperialismo”).
Con questo eloquente titolo di copertina il nuovo numero di African Communist (marzo 2001) pubblica il testo della relazione del segretario generale del Partito comunista sudafricano (PCSA), Blade Nzimande, alla sessione del febbraio 2001 del Comitato centrale, “su alcune questioni strategiche dell’attuale quadro internazionale”.
Con il consenso dell’autore, ne pubblichiamo un’ampia selezione.

“Il nostro obiettivo principale è una riflessione sull’attuale situazione internazionale dall’osservatorio privilegiato del lavoro condotto dal PC del Sud Africa (PCSA) nello scorso decennio a partire dal crollo dei paesi del blocco sovietico, e la conseguente identificazione degli impegni e delle priorità essenziali per il PCSA nel prossimo decennio. […]
Ovviamente si deve cominciare dalla globalizzazione. Nel programma [del 10° Congresso del PCSA] si può leggere quanto segue:
“Fin dalla sua fondazione nel 1921, il PCSA ha sempre adottato un approccio internazionalista; abbiamo sempre cercato di intendere l’interdipendenza della nostra battaglia dalle lotte socialiste, operaie, democratiche e di liberazione nazionale in tutto il mondo… Il PCSA è convinto che l’internazionalismo è oggi più importante che mai … la comprensione strategica delle forze internazionali odierne è essenziale per la messa a punto di un chiaro programma della lotta per trasformare il Sudafrica”. […]
A partire dal 10° Congresso del PCSA, il nostro cospicuo lavoro internazionale, lungi dal ridursi, si è intensificato per più versi, anche per un aumento di attività che hanno evidenziato segni favorevoli di un rilancio dell’organizzazione internazionale del movimento operaio e comunista, dopo un decennio di confusione successivo al crollo dell’URSS.
Come sopra abbiamo accennato, gli anni ’90 sono terminati in modo ben diverso dal loro inizio. Nell’arco di 10 anni, siamo passati dal trionfalismo capitalista al movimento anti-WTO di Seattle. Benché il capitalismo resti il sistema largamente egemonico sul piano mondiale, nel nostro continente e nel nostro paese, si produce un’opposizione al suo illimitato dominio. La povertà si accentua di concerto con la globalizzazione capitalistica. Solo nell’ultimo decennio, ottanta paesi si sono impoveriti rispetto alle loro condizioni al principio degli anni ’90, nonostante tutte le pretese di superiorità del “libero mercato”. […]

Sei tesi sulla globalizzazione

Abbiamo scelto di lumeggiare il nostro dibattito sui compiti strategici nella presente congiuntura mondiale ricavandone delle tesi sulla globalizzazione capitalistica. L’esposizione è deliberatamente stesa in forma polemica per costringerci a riflettere criticamente sui nostri stessi assunti circa la globalizzazione e valutarne la correttezza ma anche per accennare a vari miti circa la globalizzazione. È possibile che queste tesi non siano sulla globalizzazione in quanto tale, ma piuttosto sulla globalizzazione e lo stato nazionale, questione comunque molto importante per la nostra lotta per la trasformazione e per le soluzioni perseguibili ai fini di portare avanti un programma di sviluppo progressista.

Tesi 1.
La globalizzazione è imperialismo

Può parere scontato, ma è importante ribadire la nostra analisi della globalizzazione come imperialismo. Dobbiamo ribadire tale impostazione per svariati motivi. Con l’accentuarsi della globalizzazione capitalistica e della sua ideologia neoliberista, il termine “globalizzazione” viene sempre più inteso, consapevolmente o inconsapevolmente, come designante un fenomeno neutro, obiettivo, inevitabile con “lati buoni” e “cattivi”. Secondo quest’impostazione, dovremmo cercare le condizioni più favorevoli per l’incorporazione per i paesi in via di sviluppo, cercando di sfruttare il “lato buono” della globalizzazione per cercare di superare quello cattivo. Linea di ragionamento che si trova pure nel nostro movimento e condiziona il nostro approccio alle realtà globali odierne. La versione più insidiosa di questi ragionamenti è quella che tenta di usare il marxismo ed, in particolare, il Manifesto dei Comunisti per giustificare la globalizzazione quale processo inevitabile ed oggettivo di sviluppo capitalistico. Una variante è quella secondo cui Marx ed Engels avrebbero sostenuto che il capitalismo doveva raggiungere il suo più completo sviluppo prima di poter essere distrutto e che, pertanto, cercare di attaccarlo prematuramente sarebbe volontarismo della peggior specie. Così coloro che cercano di contrapporsi alla logica della globalizzazione capitalistica vengono solitamente tacciati di “estremismo irrealistico ed infantile” e d’incomprensione della realtà di fondo con cui dobbiamo fare i conti. A prescindere dall’ovvia banalizzazione di Marx, Engels e Lenin, quest’impostazione presenta numerosi e gravi punti deboli. In sostanza ci prescrive o impone non già di lottare contro il capitalismo e l’imperialismo, bensì di perseguire le più favorevoli condizioni d’incorporazione nell’attuale ordinamento economico mondiale. Con ciò si sottolinea solo un lato del marxismo, ossia la sua analisi della logica economica e dello sviluppo capitalistico, cassando l’altra più essenziale dimensione, di fatti il nucleo stesso del marxismo, cioè la lotta di classe. Il che equivale ad un disarmo ideologico unilaterale che e stato efficacemente denunziato, alla luce del crollo del socialismo esteuropeo, dal compagno Slovo, nell’opuscolo “Fallimento del socialismo?”.
La globalizzazione è un processo tanto oggettivo quanto soggettivo, il logico sviluppo di una forma specifica di prassi umana: il capitalismo e l’accumulazione del capitale. Mettere in rilevo solo il carattere oggettivo, come fa il marxismo volgare, porta a disarmare le forze contrapposte alla globalizzazione capitalistica. Sottolineare solo il carattere soggettivo è infantilismo. Entrambi questi atteggiamenti non sono marxisti.
Il nostro punto di partenza per intendere le realtà globali odierne deve ancora essere l’analisi e l’interpretazione dell’imperialismo, formulate da Lenin; secondo Lenin, nella sua forma economica elementare,
“l’imperialismo è il capitalismo a quello stadio di sviluppo nel quale si è instaurato il dominio dei monopoli e della finanza; in cui l’esportazione dei capitali acquista una forte importanza; in cui è iniziata la divisione del mondo tra i cartelli internazionali; in cui la suddivisione di tutti i territori del globo tra le maggiori potenze capitaliste è stata completata”
rispetto al tratto principale dell’imperialismo, cioè il capitale finanziario e le implicazioni politiche del suo predominio, Lenin notava che:
“Il capitale finanziario è una forza così grande e si potrebbe dire decisiva in tutti i rapporti economici ed in tutte le relazioni internazionali, che è in grado di assoggettarsi e di fatto si assoggetta, perfino degli stati che pur godono della più piena indipendenza politica… Naturalmente il capitale finanziario trova più “conveniente”, e ne ricava il maggior profitto, una forma di soggezione che include la perdita dell’indipendenza politica dei paesi e dei popoli assoggettati.”

Far riferimento a Lenin non significa ignorare i cospicui cambiamenti che si sono realizzati successivamente alla stesura del saggio “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Ma la caratterizzazione leniniana dell’imperialismo illustra il dato di fatto che quel che oggi è detto “globalizzazione” è uno sviluppo e una crescita quantitativa e qualitativa dell’imperialismo. In sostanza i “marxisti” volgari cercano di rimuovere il contenuto ed il fondamento imperialista della globalizzazione capitalistica, insinuando così che l’emarginazione e la miseria in Africa sarebbero più che altro un’aberrazione, o il “lato cattivo” della globalizzazione, correggibile solo con la persuasione e con l’appello alla razionalità umanitaria, e con ciò rimovendo l’esigenza della lotta antimperialista.
Per esempio la capitale lotta per un Risorgimento Africano è in essenza lotta antimperialista, che esige la solidarietà collettiva e la contrapposizione al neoliberismo ed all’oppressione del nostro continente da parte del Nord. Queste argomentazioni, invece, corroborano “l’idea che si può far ben poco se non ritagliare le politiche dei paesi in via di sviluppo sull’attuale modello neoliberista”.
Si dice a volte che sottolineare il carattere imperialista della globalizzazione significa non capirla o sfuggire al confronto con essa. Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà. Contrapporsi alla globalizzazione capitalistica nella coscienza che tale contrapposizione deve essere informarsi ad un’impostazione antimperialista è ben più realistico dei tentativi di “mettere tra parentesi” l’imperialismo.
Come ha sempre detto il PCSA, affrontare la realtà globale senza comprenderne adeguatamente il carattere capitalistico comporta tutta una serie di problemi.

Tesi 2.
La globalizzazione è al contempo integrazione ed emarginazione dei paesi in via di sviluppo.

Ciò che definisce tratto dell’imperialismo è di attrarre nella sua orbita economica tutti i paesi del mondo, a condizioni, tuttavia, che favoriscono i paesi capitalistici avanzati a detrimento di quelli in via di sviluppo. Ciò costituisce una delle principali contraddizioni della globalizzazione. Questa simultaneità di integrazione ed emarginazione coglie il dato di fatto per cui l’integrazione in quanto tale non si traduce in vantaggi per il mondo in via di sviluppo, appunto per il carattere imperialistico e capitalistico della globalizzazione. Così, l’integrazione, significa un restringimento delle opzioni progressiste e di sviluppo per i paesi in via di sviluppo, che si trovano privi della possibilità di sperimentare programmi che portino vantaggi al popolo. È quindi errato presumere che l’integrazione nella globalizzazione porti benefici. La massima espressione di questo fenomeno di simultanea integrazione ed emarginazione è dato dai Programmi di Riforme di Struttura (PRS) ai paesi in via di sviluppo, imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale. In sostanza le ricette dei PRS mirano ad aprire i paesi in via di sviluppo alle attività delle transnazionali, intese al profitto, mediante liberalizzazioni, privatizzazioni e degradazione; questi PRS non hanno nulla a che fare con la soluzione delle esigenze socioeconomiche della maggioranza della popolazione dei paesi in via di sviluppo. Essenzialmente, questi paesi vengono integrati attraverso l’emarginazione, giacché la loro collocazione periferica è insieme causa ed effetto della natura imperialistica del capitalismo. È vero anche l’inverso, che cioè i paesi in via di sviluppo vengono emarginati attraverso processi d’integrazione nel capitalismo globale, in quanto tale integrazione li rende dipendenti dall’ordine economico internazionale.
Questa tesi ha pure il merito d’identificare e denunziare un altro mito, quello che noi, come paese, cerchiamo un’integrazione “diversa”, mentre in realtà siamo integrati attraverso l’emarginazione. Il che rende ancora più evidente l’importanza della lotta comune con altri paesi in via di sviluppo contro la stessa logica dell’imperialismo nella fase attuale. Ciò e pure importante per contrapporsi al neoliberismo, il quale curiosamente, appare condivide col marxismo volgare, l’idea secondo cui l’emarginazione conseguirebbe dall’incapacità dei paesi in via di sviluppo di creare condizioni e “segnali” appropriati per una piena integrazione nella globalizzazione capitalistica. Per questo motivo, le ricette neoliberiste esaltano insieme integrazione ed emarginazione: più rapidamente i paesi in via di sviluppo vengono integrati, aprendo le loro economie, più profondamente vengono emarginati. Ciò è anche più evidente per il continente africano, come dimostra un ventennio di PRS.
Il processo di simultanea integrazione ed emarginazione getta molti paesi in via di sviluppo in una anche più grave spirale di contraddizioni. Più aprono le loro economie, non solo vengono emarginati dai vantaggi economici dei paesi “sviluppati” (emarginazione “a testa in giù”), ma i loro governi si emarginano anche rispetto alle masse (emarginazione “a deretano in su”). Quello dello Zimbabwe è un esempio classico del fenomeno della simultanea integrazione ed emarginazione, rispetto sia all’economia globale predominante, sia dalla sua popolazione, come diretta conseguenza degli effetti del PRS.

Tesi 3.
La globalizzazione indebolisce e rafforza al contempo l’odierno stato nazionale: mito e realtà del “buon governo”

Pur essendo vero che, nel complesso, la globalizzazione indebolisce l’odierno stato nazionale, questa tesi va sfumata per cogliere adeguatamente gli effetti della globalizzazione sullo stato nazionale, nonché i compiti che, sul piano internazionale, spettano alle forze comuniste e socialiste.
Uno dei principali argomenti del “marxismo volgare” di cui sopra, e parimenti del neoliberismo, è che l’odierno stato nazionale può fare ben poco per attuare un progetto di sviluppo progressista, se non ispirarsi agli imperativi della globalizzazione. Noi partiamo dalla convinzione che lo stato nazionale resta tuttora un luogo ed uno strumento importante per portare avanti la lotta antimperialista nonché per costruire la solidarietà internazionale delle forze di progresso. Cosa ancor più importante, lo stato nazionale resta un luogo fondamentale per la mobilitazione popolare nella lotta per un ordine mondiale giusto.
Quali sono le implicazioni di questa tesi? È erronea l’affermazione pura e semplice che la globalizzazione indebolisce lo stato nazionale, benché ciò abbia elementi di verità, senza riconoscere al contempo che i paesi sviluppati vengono quanto meno indeboliti in modo diverso dai paesi in via di sviluppo. Di fatto, la fine della guerra fredda e la crescita di altri centri economici quali l’Unione Europea (UE) e le “tigri asiatiche” minacciano il predomino globale degli USA. Ciononostante, non si può in alcun modo affermare che lo stato nazionale degli USA venga indebolito dalla globalizzazione nello stesso modo, per esempio, del Mozambico. Questa è una dimensione della nostra tesi, che la globalizzazione al contempo indebolisce e rafforza l’odierno stato nazionale. L’altra dimensione di questa tesi è piuttosto una dinamica interna. Mentre in complesso, la globalizzazione indebolisce effettivamente lo stato nazionale, specie nei paesi in via di sviluppo, non si può non vedere che certi aspetti dello stato nazionale vengono rafforzati per attuare un programma neoliberista. Come la globalizzazione indebolisce lo stato nazionale – particolarmente quello post-coloniale dei paesi in via di sviluppo – non dobbiamo perdere di vista i motivi reali di tale indebolimento, né il fatto che talune funzioni dello stato nazionale sono in effetti rafforzate dalla globalizzazione.
La globalizzazione indebolisce soprattutto il ruolo di sviluppo dello stato nella crescita economica, pur rafforzandone la funzione regolatrice, e assai spesso, quella repressiva per portare avanti il programma neoliberista. Proprio in quanto i provvedimenti neoliberisti danno quasi sempre luogo ad una resistenza popolare, per far fronte a tale resistenza è necessario rafforzare gli apparati repressivi statali. Quindi, in molti casi, l’indebolimento dello stato si deve solo alle pressioni della globalizzazione dall’alto, ma altresì dalle pressioni dal basso, nella misura in cui uno stato che porti avanti un programma neoliberista si espone ad una riduzione del proprio consenso di massa. Lo Zimbabwe è ancora un esempio da manuale di questo fenomeno. I programmi neoliberisti, senza alcuna eccezione, vengono sempre attuati dall’alto e non coinvolgono mai la partecipazione né l’approvazione popolare. Per questo il nostro movimento deve guardarsi dallo sbandierare concetti del tipo “il governo deve governare” – per quanto possa sembrare un’ovvietà – specie ove ciò venga usato come succedaneo di una valida alleanza, consultazione e partecipazione popolare nelle grandi scelte politico-strategiche governative. Mentre lo stato vede regredire la propria capacità di portare avanti programmi economici a vantaggio delle masse popolari, la sua capacità regolatoria, cioè di sovrintendere a questo processo, tende a rafforzarsi, ed è ciò che viene definito solitamente “buon governo”. Naturalmente nessuno si opporrebbe al “buon governo” laddove esso significasse partecipazione popolare e fedeltà prioritaria al mandato del popolo del proprio paese, come presupposto per affrontare le odierne realtà globali.
Ma in realtà, il “buon governo” è venuto a significare l’asservimento dello stato ai mercati finanziari. “Buon governo” vuol dire creare le condizioni per cui il capitale privato consegna prevedibilità (“trasparenza”) per le proprie operazioni, ma a prescindere dalle masse del popolo dei nostri paesi. Significa governare per conto delle multi e transnazionali. “Buon governo” significa creare le condizioni “di apertura” per svendere enti fondamentali dello stato a quelle transnazionali che fanno le offerte più alte. Significa terziarizzazioni, attraverso la definizione dei servizi più essenziali per i poveri (scuole, ospedali, acqua potabile, strade, elettricità, ecc.) come “funzioni non prioritarie”, dimodoché la “funzione prioritaria” dello stato diviene quella di presiedere all’abbandono degli interessi della grande maggioranza del popolo lavoratore.
“Buon governo” nell’odierna ottica neoliberista significa svendere le conquiste dei popoli dei paesi in via di sviluppo, ottenute a caro prezzo, agli interessi dei privati e dello straniero; significa, in buona sostanza, l’abolizione delle conquiste delle lotte di liberazione nazionale, sacrificando gli interessi del popolo sull’altare della convenienza neoliberista, senz’alcuna resistenza e con un perenne rimando della lotta per il socialismo! Significa propagare concetti di “miglior prassi internazionale” che di fatto corrispondono alla “peggior prassi locale” (dal punto di vista della soddisfazione delle esigenze del popolo) e di costruire città, università, pratiche direzionali e normative “di classe mondiale” ma con un tenore di vita subumano per la popolazione locale! “Buon governo” significa privilegiare gli interessi del capitalismo privato a detrimento dei bisogni sociali delle masse popolari sotto specie di “realismo”, e trasformando lo stato nazionale per asservirlo agli interessi della borghesia con il pretesto di “utilizzare il capitale”: la totale neo-liberalizzazione dello stato nazionale nei paesi in via di sviluppo! In breve, il concetto che la globalizzazione indebolisce lo stato nazionale non prende neanche in adeguata considerazione il fatto che la globalizzazione, più che indebolirlo in senso proprio, trasforma lo stato nazionale – lo tramuta da potenziale custode degli interessi delle masse popolari, in strumento per l’attuazione di politiche neoliberiste. L’indebolimento dello stato nazionale ha luogo nel contesto di questa sua trasformazione.
Il più importante strumento ideologico nella trasformazione dello stato nazionale per effetto della globalizzazione è da individuare nel concetto apparentemente obiettivo delle attività “essenziali” e non. La distinzione e il rapporto dialettico tra trasformazione e indebolimento dello stato nazionale è fondamentale per intendere appieno gli effetti della globalizzazione, come si vedrà più sotto.
Robert Bates e Ann Kruger, in un saggio sulle “riforme di struttura”, fanno questa notevole asserzione:
“… le riforme di struttura economiche non sono “antistatali”, anzi paiono rafforzare i poteri del nucleo stesso dello stato, l’esecutivo, accrescendone il controllo su parametri essenziali di politica economica, che condizionano gli esiti dell’attività economica …; l’accresciuto ruolo dei mercati esige un rafforzamento dello stato, e particolarmente della sua burocrazia fianziaria”

Tesi 4. La necessaria “utilizzazione” del capitale privato “non è il punto di partenza” né si traduce necessariamente nelle privatizzazioni

La realtà della globalizzazione capitalistica è il predominio del capitale privato sotto forma delle transnazionali, che dominano quasi tutto il pianeta. Nessun serio rivoluzionario può permettersi di ignorare questa realtà o mancar di formulare strategie adeguate per affrontarla. Ma vi sono molteplici miti e pseudoconcetti che vengono propagati per effetto di questa stessa realtà, e che sono gravemente tendenziosi. Una critica che vien sempre mossa al nostro Partito, dall’esterno così come dall’interno del nostro movimento, è che noi non avremmo risposto in maniera soddisfacente all’interrogativo di come utilizzare il capitale privato nella fase attuale. Tuttavia, la nostra Conferenza sulla strategia del 2000 ha fornito la più esauriente risposta e prospettiva a questo interrogativo. Ma è errato formularlo così: come rivoluzionari, il nostro punto di partenza non è come utilizzare il capitale privato, bensì (come ha sempre detto il PCSA) di quale tipo di stato abbiamo bisogno. Abbiamo affermato che lottiamo per edificare uno Stato di sviluppo, dotato di una coerente politica industriale, che dovrebbe espletare una funzione dirigente nell’attuare un progetto di ricostruzione e sviluppo, compresi un intervento decisivo e una direzione nello sviluppo economico. Solo in quest’ottica possiamo poi chiederci come utilizzare il capitale privato, come componente del compito generale di edificazione di uno Stato democratico nazionale di sviluppo. Impostazione questa, distinta nel fondo da quella che principia a chiedere come utilizzare il capitale privato, e solo in un secondo momento definisce il ruolo dello Stato democratico quanto a fare i conti col capitale privato. Quest’ultima impostazione di fatto subordina la logica dello Stato di sviluppo a quella degli imperativi e della dinamica del capitale privato al soddisfacimento degli obiettivi di uno stato democratico nazionale. Cominciare col chiedesi come utilizzare il capitale privato implica inevitabilmente una sola risposta, quella delle privatizzazioni e del tentativo di sviluppare lo stato in maniera compatibile col mercato.
Peraltro, l’argomento più importante in questa tesi è che utilizzo del capitale privato non è uguale a privatizzazioni. Varie opzioni sono disponibili per l’utilizzo del capitale privato, e la privatizzazione è solo una tra tante. Forse, come ANC, non abbiamo esplorato a sufficienza le altre opzioni per l’utilizzo del capitale privato nell’ambito dell’edificazione di uno Stato di sviluppo. Qui abbiamo molto da imparare dalle esperienze cubana e cinese. Tali modelli economici possono infatti includere delle privatizzazioni, ma la loro tendenza generale è quella di associazioni tra pubblico e privato, condotte dallo Stato, senza alienazione della proprietà pubblica dal controllo statale. Per esempio, in molti casi, in Cina e a Cuba, delle aziende interamente statali entrano in associazione al settore privato, senza che in tali associazioni venga abolita la proprietà statale della componente pubblica. Ancor più importante il fatto che tali associazioni si svolgono nell’ambito di un evidente rafforzamento del ruolo dello stato nello sviluppo economico. C’è un’enorme differenza tra questa via e quella di svendere enti statali. La privatizzazione è in sostanza disimpegno, e non utilizzazione del capitale privato, e in altri casi la ritirata dello Stato dai settori in mano ai privati.
Inoltre, l’esistenza di un ampio settore privato non implica necessariamente che le associazioni debbano in tutti i casi coinvolgere il settore privato. Numerosi esempi in India (per es. nello stato del Kerala), Cuba, Cina, Brasile sono istruttivi quanto all’esplorazione di tutta una gamma di opzioni che escludono il capitale privato, per portare avanti un progetto di sviluppo. È, quindi un mito che la privatizzazione costituisca l’unica forma di utilizzo e gestione di risorse nel settore privato: mito (e realtà) propagati dal neoliberismo, che cerca non solo e non tanto l’associazione con lo Stato, ma la sostituzione del settore privato allo Stato in tutte le sfere sociali.

Tesi 5. La globalizzazione mina la capacità di affrontare la questione nazionale specie negli stati postcoloniali

Come PCSA, abbiamo sempre giustamente sostenuto che la rivoluzione democratica nazionale cerca di risolvere, in maniera interconnessa, le contraddizioni di classe, nazionali e di genere. Difatti, la questione nazionale era e rimane tutt’ora predominante nella nostra rivoluzione democratica nazionale, e nella maggioranza delle società postcoloniali del nostro continente. Proprio perché la conquista e colonizzazione imperialista ha condizionato fondamentalmente la questione nazionale, qualunque forma assumesse nei diversi contesti nazionali, la sua risoluzione non è configurabile prescindendo dalle sue origini imperialistiche.
La globalizzazione, in quanto esalta e riproduce le disuguaglianze di natura economica ed altre, nonché l’assoggettamento delle società già coloniali, specie africane e a maggior ragione nelle società già basate su insediamenti di coloni, come il Sudafrica, implica tre dimensioni principali, ossia la lotta per la sovranità nazionale, quella contro il retaggio dell’oppressione e discriminazione razziale e quella della ricostruzione nazionale e l’emancipazione economica della maggioranza della popolazione, quale fondamento indispensabile per affrontare i due primi aspetti. La globalizzazione, si è detto sopra, mina la sovranità nazionale restringendo le opzioni di sviluppo progressista e determinando la dipendenza dalla predominante economia globale, soggezione che tende a riprodurre il quadro di disuguaglianze di classe e quindi nazionali proprie dell’epoca coloniale. È quindi un mito che la questione nazionale possa venir affrontata – che si tratti di razzismo o di accesso alla terra – senza al contempo attaccare l’imperialismo. La lotta di liberazione nazionale è stata in pari misura lotta per l’emancipazione della maggioranza indigena della popolazione.
Anche a questo proposito è istruttivo l’esempio dello Zimbabwe. Il retaggio coloniale dell’espropriazione della terra per i neri venne esacerbato, piuttosto che attenuato, dall’adozione, a partire dal 1990, del PRS. Questi PRS non contemplano i bisogni fondamentali della maggioranza del popolo, anzi esasperano proprio quei problemi che pretendono di risolvere come la questione della terra nello Zimbabwe. Infatti privatizzazioni, deregolamentazioni e liberalizzazione aprono ulteriormente l’economia in modo da consolidare quei rapporti economici coloniali che i governi postcoloniali cercano di affrontare. E ciò perché sempre le stesse classi borghesi e latifondiste bianche si trovano in posizione di favore per acquistare gli enti privatizzati ed in genere per trarre maggiori vantaggi da un’economia liberalizzata.

Tesi 6. La globalizzazione genera i propri becchini

In questa tesi non c’è nulla di nuovo. Proprio perché l’imperialismo è un sistema iniquo di sfruttamento, non può far a meno di crearsi un’opposizione. È ovviamente in questione la sostenibilità di un sistema che ha ridotto alla miseria metà della popolazione mondiale. Nonostante il crollo dell’URSS, l’ultimo decennio, specie verso la fine, è stato connotato da una ripresa di lotte di massa di opposizione alla globalizzazione capitalistica. Le manifestazioni di massa praticamente contro ogni grande convegno internazionale ed i sempre più numerosi esperimenti di schemi di sviluppo alternativi sono indici di una crisi crescente della globalizzazione capitalistica. Questa ripresa di lotte di massa esige una risposta molto più mirata e l’egemonia delle forze organizzate comuniste e socialiste, per convogliare queste energie contro la globalizzazione capitalistica. È, infatti, questo uno dei compiti essenziali delle forze di sinistra socialiste e comuniste del mondo d’oggi. Base per mettere in campo una risposta coerente e duratura sarà anzitutto la messa a punto di un paradigma di sviluppo alternativo, intorno a cui coordinare e portare avanti queste iniziative. Solo coloro che hanno abbandonato la classe operaia e non hanno più energia per la lotta anticapitalista, sosterranno che non bisogna più attaccare la logica della globalizzazione capitalistica. È compito del PCSA contribuire a questo prolungato “tiro alla fune” contro la globalizzazione capitalistica. Sfidare la globalizzazione capitalistica non è solo auspicabile, ma possibile.
La sfida è quella di elaborare creativamente strumenti per mobilitare il popolo sia nei singoli stati nazionali, sia sul piano globale.
Ambiti di discussione
e di elaborazione

Il nostro lavoro internazionale continua a dimostrare che il PCSA gode ancore di molto prestigio a livello internazionale, il che impone grandi responsabilità negli sforzi per la ricostruzione efficace delle forze socialiste e comuniste a livello internazionale.
[…]
I compiti che si pongono alle forze di progresso nel continente africano sono grandi e complessi. Una questione che va risolta è se vi siano sul piano continentale forze di sinistra significative con cui possiamo costruire delle alleanze. Dobbiamo rinnovare contatti indipendenti con gli ex-movimenti di liberazione di tutto il continente ed in particolare nell’Africa del Sud?
Questi interrogativi sono importanti per il prossimo decennio, in quanto la nostra lotta per approfondire la rivoluzione nazional-democratica e la lotta per il socialismo saranno sempre a rischio se non troviamo alleati che condividano le nostre prospettive e mete strategiche.
Il crollo dell’URSS e la pressione della globalizzazione e dei movimenti controrivoluzionari al soldo dell’imperuialismo sul piano continentale e regionale sembrano aver portato la maggior parte delle forze di sinistra a ritrarsi dall’impegno per condurre le rivoluzioni nazional-democratiche n”fino in fondo” e per il socialismo. Invece, molte di tali forze paiono regredire ad un angusto nazionalismo africano, burocratizzarsi ed assumere un atteggiamento scettico e sospettoso dei movimenti operai.
E noi non corriamo forse il pericolo d’isolamento, in quanto PC, a livello regionale e continentale?
[…]
È possibile un Risorgimento africano senza una lotta antimperialista a livello continentale?
Quale forma deve assumere una lotta antimperialista, e quali ne sono i potenziali alleati e nemici?

Insegnamenti dei paesi socialisti esistenti come Cina, Cuba e Vietnam

Il PCSA intrattiene solidissimi rapporti bilaterali con i PC cubano, cinese e vietnamita. Abbiamo scambiato delegazioni, informazioni e visite con questi partiti e in conseguenza abbiamo instaurato relazioni assai ampie. Ma come PCSA non abbiamo studiato sistematicamente e collettivamente le nuove esperienze ed gli esperimenti avviati da tali paesi nell’epoca successiva alla guerra fredda. Per esempio la Cina nello scorso ventennio ha esperito un cospicuo boom e sviluppo economico, quasi senza confronto con qualunque altro paese socialista nel passato recente.
I cinesi hanno forse trovato il modo giusto per fare i conti con le realtà globali, così da rafforzare il socialismo in quel paese, o invece c’è un pericolo “endogeno” di ritorno al capitalismo? La sopravvivenza di Cuba, anzi il persistente funzionamento della sua economia, che dipendeva dall’URSS per oltre l’80% – malgrado l’iniquo embargo statunitense – è un fenomeno di estrema importanza, che va studiato da vicino. Più di tutto è suggestivo l’autentico attaccamento della rivoluzione cubana alle masse popolari. Possiamo imparare da tutto ciò? La mancanza di una riflessione sistematica su queste esperienze in alcuni casi ha portato alla “banalizzazione” di ciò che là avviene. Ma è per noi importante affermare categoricamente che è errato presumere che qualsiasi paese edifichi il socialismo nello stesso modo di un altro paese. Forse questo deve essere l’insegnamento del socialismo esteuropeo e dell’URSS, che tendeva a prescrivere delle “vie” generalmente analoghe per paesi assai diversi tra loro. In breve cosa possiamo imparare da questi paesi?

Verso una piattaforma internazionale della sinistra, per un paradigma di sviluppo alternativo

Il PCSA, nell’ambito dei suoi preparativi per partecipare a svariati convegni e congressi internazionali della sinistra, ha cercato di costruire un quadro per una piattaforma internazionale della sinistra, con accoglienza relativamente buona in vari ambienti socialisti e comunisti. Però dobbiamo andare oltre e portare avanti questo lavoro nell’ambito del più generale tentativo di ravvicinare le forze socialiste a livello internazionale e costruire un’opposizione duratura alla globalizzazione capitalistica. Quali dovrebbero essere, allora, le basi di questa piattaforma?
Una componente essenziale di una nuova iniziativa della sinistra dovrebbe essere la formulazione e la divulgazione di un paradigma di sviluppo alternativo. Alcuni compagni del nostro movimento hanno con forza posto l’interrogativo di quale “stadio intermedio” si ravvisa tra la situazione attuale ed il socialismo, con l’interrogativo correlato: per quale tipo di paradigma progressista dobbiamo lottare? In altri termini, quali sono le rivendicazioni immediate su cui le forze del socialismo dovrebbero costruire mobilitazione ed organizzazione per affrontare i problemi immediati della miseria e della disuguaglianza nel contesto di un processo di ricostruzione di un movimento operaio e comunista a livello internazionale? Molto più importante il fatto che ora dobbiamo ricostruire la solidarietà internazionale in una situazione in cui non vi è più un “centro”, ovvero l’URSS. Ma l’assenza di un centro potrebbe configurare una situazione ideale per costruire una solidarietà internazionale che prenda in considerazione le diverse condizioni nazionali e regionali delle diverse parti del mondo.” […]

(trad. Fernando Visentin)

I comunisti sudafricani contro il terrorismo e contro la guerra

Il Partito comunista Sudafricano (SACP) condanna i bombardamenti sull’Afghanistan da parte degli Stati Uniti d’America.
Gli attacchi USA mutileranno e uccideranno civili innocenti e perpetueranno la loro povertà e sofferenze. Tutto ciò colpirà particolarmente donne e bambini, che già stanno terribilmente soffrendo nelle mani delle milizie afghane.
Gli attacchi dell’11 settembre hanno rappresentato un tragico episodio di terrorismo e i loro autori dovranno essere giudicati secondo le leggi e il diritto internazionale, sulla base di prove certe e del principio di presunzione d’innocenza sino a colpevolezza provata. Per quanto grave sia stata la provocazione degli attacchi dell’11 settembre, ciò non giustifica lo scatenamento di una guerra contro l’Afghanistan o qualsiasi altro paese. Due torti non possono fare un diritto.
Questi attacchi avvengono senza che vi sia stata alcuna discussione sul tema del terrorismo globale all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e più in generale fra i popoli del mondo. Gli Stati Uniti usano l’ONU a loro convenienza e la scavalcano a loro piacimento. Il Partito comunista sudafricano giudica gli attacchi dell’11 settembre come qualcosa che ha colpito non solo gli Stati Uniti ma contro l’intera civiltà umana. Pertanto, tutti i popoli del mondo devono avere diritto di parola nella giusta risposta contro tali attacchi. Per il Partito comunista sudafricano questa risposta deve avvenire costruendo un sistema di solidarietà globale fra tutti coloro che nel mondo stanno lottando contro la guerra, la povertà e lo sfruttamento, e approfondendo il movimento di opposizione contro le aggressioni unilaterali da qualsiasi parte provengano.
Il Partito comunista sudafricano sollecita i sudafricani a un’attiva mobilitazione nell’ambito delle chiese, moschee, organizzazioni politiche, ecc contro gli USA e per un mondo di pace. Tale mobilitazione avrà bisogno dell’impegno unitario di tutti i sudafricani in un unico movimento per una pace e una giustizia globali. Il Partito comunista sudafricano saluta gli sforzi da parte dei popoli degli Stati Uniti, del Giappone, dell’Europa occidentale e di altre aree del mondo in iniziative tese a porre fine alla guerra USA in Afghanistan. In prospettiva, il movimento internazionale della classe lavoratrice e dei popoli del mondo dovrà intensificare la lotta tesa a una trasformazione delle Nazioni Unite e la lotta contro il capitalismo e l’imperialismo USA.
8 ottobre 2001