Nella seconda metà di luglio a Genova si terrà il vertice del G 8. In questa occasione in cui le maggiori potenze imperialiste si riuniscono per pianificare i loro progetti di controllo e spartizione del mondo e per mediare le loro contraddizioni interne, sono previste manifestazioni di massa e assemblee dei movimenti anti-globalizzazione che sono cresciuti dopo le manifestazioni di Seattle.
Questi movimenti rappresentano un aspetto importante della resistenza popolare contro l’imperialismo anche all’interno dei suoi poli più forti. E` altrettanto vero che questi movimenti stanno producendo una cultura politica ed una analisi dell’imperialismo che – attraverso la categoria di globalizzazione – nascondono errori di valutazione ed una azione politica conseguentemente riformista.
Il feticcio della globalizzazione sembra ormai soddisfacente anche a molti “neomarxisti” per spiegare il mondo attuale, le nuove relazioni internazionali e i nuovi rapporti di forza. Eppure la categoria della globalizzazione è molto imperfetta e sotto certi aspetti deviante; sarebbe più appropriato parlare di “competizione globale,” perchè tale è, a nostro avviso, l’epoca che stiamo vivendo, un’epoca in cui la competizione economica e quella politica tra le economie più forti e/o i poli imperialisti tenderà ad accentuarsi più che a comporsi.
Le tensioni tra Europa e Stati Uniti sui protocolli di Kyoto, sullo scudo antimissilistico, sulle risorse energetiche, sul rapporto di cambio tra dollaro ed euro (dal quale dipenderanno sia i nuovi equilibri sui mercati finanziari sia l’andamento delle rispettive bilance commerciali), confermano che l’agenda dei tradizionali rapporti “transatlantici” è diventata piuttosto conflittuale.
Ma questa competizione coesiste anche con un rapporto di collaborazione “trasversale” tra le transnazionali europee e statunitensi. Le fusioni e gli incroci azionari, infatti, sono ormai numerosi sulle due sponde dell’Atlantico. Se mettessimo mano solo al settore delle telecomunicazioni e dell’informazione, ci inoltreremmo in un ginepraio di accordi reciproci in cui sarebbe difficile distinguere la “nazionalità” dei capitali in gioco. Parallelamente però, in altri settori emergenti come quello delle biotecnologie o quello energetico, la competizione è molto più marcata e le società statunitensi non negano di voler mantenere il predominio mondiale in questi settori.
Infine occorre sottolineare come questo rapporto di competizione e concertazione ha avuto finora le sue “stanze di compensazione” per le mediazioni e i compromessi necessari nelle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (FMI, OCSE, OMC, BRI, vertici del G7, la stessa ONU). In queste sedi i conflitti commerciali hanno trovato fino ad oggi il modo di essere discussi e risolti senza bisogno della guerra, come è avvenuto per ben due volte nel XX Secolo. Le mobilitazioni popolari sono state sicuramente importanti, ma dietro il fallimento del vertice della WTO a Seattle o l’impasse delle nomine nel FMI, è possibile leggere anche la competizione crescente tra Unione Europea e Stati Uniti.
La globalizzazione è già finita?
La globalizzazione – per volume e localizzazione – è un processo che finora ha investito soprattutto la sfera finanziaria e quella – crescente – delle cosiddette risorse immateriali, mentre sul piano dell’economia reale le cose stanno ancora assai diversamente e disegnano una tendenza contrastante rispetto alla mitizzata globalizzazione.
I dati forniti dalle istituzioni internazionali confermano ad esempio che il commercio mondiale – ovvero lo scambio reale di beni e servizi – è sì cresciuto ma soprattutto all’interno dei blocchi economici regionali (UE, NAFTA, ASEAN, Merco- sur) piuttosto che tra le varie aree del mondo. Non solo, la stragrande maggioranza delle relazioni economiche rivolte all’esterno dei blocchi avviene soprattutto tra i poli capitalistici sviluppati ed in misura assai minore con i paesi in via di sviluppo.
La nascita di un’area economica e monetaria europea (Eurolandia) e di una americana (la Free Trade Area of America’s – ALCA), sembrerebbe confermare una tendenza a rafforzare le strutture per una competizione globale più che per una globalizzazione senza conflitti e senza confini.
Emblematica in tal senso è la schiettezza con cui il Commissario Europeo al Commercio, Pascal Lamy, ha commentato il vertice dell’ALCA tenutasi nel Quebec “L’Unione Europea è un partner commerciale per l’America Latina molto più importante di quanto lo siano gli Stati Uniti”, ha dichiarato a Le Monde, precisando poi che “Gli Stati Uniti e l’Europa hanno degli interessi strategici in materia commerciale niente affatto comparabili”.
Da questi dati, che ovviamente vanno sempre presi con cautela, emergerebbe una tendenza al rafforzamento dei blocchi economici regionali più che una tendenza alla globalizzazione. È un fattore che non possiamo sottovalutare perchè, nei fatti, è alla base del neoprotezionismo che ha sempre convissuto con la formazione dei grandi monopoli. I vertiginosi processi di fusione e concentrazione, che hanno subìto una brusca accelerazione in questi ultimi anni, confermano che i nuovi monopoli si stanno spartendo i mercati e che la libera concorrenza – propedeutica per la globalizzazione – è solo un paravento dietro cui si nascondono i poteri forti. Il fallimento di Seattle o le difficolta del FMI possono essere indicativi di questa tendenza.
Un movimento troppo radicale con obiettivi troppo arretrati?
Questo tipo di consapevolezza e di analisi, sembra al momento essere completamente assente dalle elaborazioni dei movimenti anti-globalizzazione. Al contrario, appare dominante una visione del mondo “globalizzato” in cui sarebbe possibile correggere le ingiustizie sociali, economiche o ambientali più macroscopiche senza mettere in discussione il modo di produzione capitalastico.
È interessante in tal senso quanto ci ha detto il marxista inglese Alan Freeman, recentemente intervenuto in un seminario a Roma, secondo cui “il popolo di Seattle usa dei metodi di lotta troppo radicali rispetto agli obiettivi che si è dato” ovvero che questi obiettivi sono troppo arretrati per poter giustificare forme di lotta estreme come lo scontro sistematico con la polizia o la devastazione dei locali di banche e multinazionali.
Sicuramente far sentire il “fiato sul collo” ai potenti della terra, creargli problemi di agibilità, rendere problematico lo shopping delle first lady o le cene nei ristoranti caratteristici, hanno creato una pressione popolare importante contro i tecnocrati delle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario o i leader politici dei paesi economicamente più forti.
Non è un caso che la riunione della Banca Mondiale che doveva tenersi a Barcellona è stata congelata per tenersi invece via Internet oppure che i prossimi vertici della WTO e dell’OCSE saranno costretti a tenerli nel Quatar e a Marrakech, dunque “al riparo” dalle contestazioni. Ma i movimenti anticapitalisti non possono limitarsi ad eventi mediatici perché una volta che si spengono le telecamere rischiano di spegnersi con esse.
I comunisti hanno la necessità di confrontarsi con questi movimenti e di essere interni ad essi ma senza esserne subalterni. C’è necessità di approfondire l’analisi della globalizzazione e di attualizzare l’analisi leninista dell’imperialismo, per portare dentro il confronto con questi movimenti anche il punto di vista dei comunisti e contribuire a dare maggiore concretezza alle piattaforme e maggiore continuità alle iniziative.
A metà luglio a Torino un forum internazionale discuterà proprio di questi aspetti in due distinte sessioni di lavoro. Insieme alle mobilitazioni di Genova può essere l’occasione per riflettere insieme sul ruolo di orientamento (indipendente ma unitario) che i comunisti possono svolgere nei movimenti anti-globalizzazione.