L’analisi degli imponenti processi di globalizzazione capitalistica acceleratisi negli ultimi anni costituisce un banco di prova teorico ineludibile per il materialismo storico, così come un terreno di confronto politico decisivo per la rifondazione del movimento comunista. È noto come, nel dibattito interno a questo movimento, abbiano di recente trovato ampia eco alcune letture di impostazione “sistemica” ed “epocale”. Letture cioè che nelle trasformazioni in atto sembrano individuare, più che una fase determinata nello sviluppo del modo di produzione vigente, un vero e proprio salto di paradigma sociale: un salto “intermodale” e, conseguentemente, di epoca storica. Secondo Revelli, ad esempio, i “processi profondi di ristrutturazione e di trasformazione sociale e produttiva” che accompagnano la globalizzazione, mutano drasticamente le condizioni del conflitto di classe. La trasformazione in chiave “post-fordista” del capitalismo fa venir meno la centralità della fabbrica e la solidarietà interna alla classe operaia, minando quel compromesso capitale-lavoro su cui sono stati edificati i sistemi delle società capitalistiche occidentali e le democrazie di massa. La massiccia finanziarizzazione del capitale e la sua transnazionalizzazione, poi, svuota di ogni capacità di intervento le istituzioni dello Stato nazionale moderno, rendendole pressoché insignificanti dal punto di vista politico: “travolto dalla trasformazione dell’economia”, lo Stato “perde la propria sovranità sul governo della ricchezza nazionale e perde la propria autonomia politica nazionale” (Revelli, 1998, pp. 5 e 13). Le conseguenze per il movimento comunista sarebbero catastrofiche. Venuta meno la sovranità nazionale, risulterebbe infatti svuotato di ogni funzionalità quell’asse fabbrica-sindacato-partito-Stato che ha costituito il paradigma organizzativo del movimento operaio novecentesco. Poiché non c’è più nulla da conquistare, non ha più senso organizzarsi in partito politico per la presa del potere statale.
L’illusione ottica
È chiaro: si tratta della dichiarazione di morte del progetto comunista moderno e in particolare della sua forma leninista, che andrebbe sostituita ora con un’impostazione movimentista volta, più che a fare politica, a “fare società”. A favorire cioè la crescita di realtà comunitarie autogestite – di tipo produttivo ma non solo – che, una volta collegate in rete, realizzino una sorta di “secessione” dalla società capitalistica. Chi considera ancora legittima l’idea del comunismo come orizzonte politico, e ancora valide le teorie leniniste (in particolare l’analisi dell’imperialismo), ha il dovere di confrontarsi con queste tesi, cercando di problematizzarle.
Secondo i sostenitori della fine dello Stato-nazione, ad esempio, l’obsolescenza di questa istituzione è dimostrata dal fatto che, anche nei paesi potenzialmente imperialistici, non sussiste più l’”interesse nazionale”, perché le imprese transnazionali globalizzate si sono completamente emancipate dal territorio, non redistribuiscono ricchezza e sono capaci di licenziare e delocalizzare la produzione ovunque convenga loro, oltre che di rendere invisibili al fisco i loro profitti. Si tratta a nostro avviso di un’illusione ottica, generata dal contentarsi della forma fenomenica di un processo storico.
Nella realtà l’interesse nazionale non sparisce affatto: esso, molto semplicemente, subisce qui una radicale ridefinizione verso l’alto, verso quei ceti che per prosperare non hanno alcun bisogno di uno Stato che li tuteli. Dell’interesse delle classi subalterne, effettivamente, alle imprese globali non importa alcunché, ma dell’interesse dei loro azionisti importa eccome. Semplicemente, però, questi ceti non hanno alcun bisogno di uno Stato che li difenda, e perciò vincoli le imprese a rispettare i contratti nazionali e a pagare le tasse.
E dunque è evidente che il loro tangibilissimo interesse – un interesse tutto “nazionale”, perché è da ciò che fa o non fa, che proibisce e che lascia fare questo determinato governo che dipendono i dividendi di questa impresa che lavora nel suo territorio – è quanto mai tutelato dall’emancipazione delle imprese dalle istituzioni nazionali. Tale emancipazione è precisamente questo loro interesse “nazionale”.
Un progetto tutto politico
Lungi dallo sparire, dunque, attraverso i processi di globalizzazione l’interesse nazionale si ridefinisce radicalmente verso l’alto. In ciò operano certamente movimenti endogeni al modo di produzione. Ancor prima, però, ciò dipende dal semplice fatto che, a causa della sconfitta subita nell’ambito della lotta di classe, le classi subalterne hanno rapidamente perduto negli ultimi anni molti dei diritti e delle posizioni conquistate quando la loro forza relativa era più elevata, e che – tramite i loro partiti – erano riuscite a far mettere per iscritto nelle leggi dello Stato e a far tutelare dalla politica, dalla magistratura e dalla polizia. A lungo escluse e considerate estranee, solo nel XX secolo, dopo una secolare lotta irta di contraddizioni, tali classi hanno conquistato la piena cittadinanza nello Stato borghese e sono riuscite a “nazionalizzarsi”, strappando il riconoscimento dei loro diritti civili, politici ed economico-sociali. Nel momento in cui sono sconfitte sul piano internazionale, e cade la potenza statale che amplificava dall’esterno i loro sforzi, esse sono sconfitte anche sul piano interno, e devono lottare contro un nuovo tentativo di de-emancipazione. Se il Welfare è parte integrante della democrazia politica e della stessa cittadinanza borghese, il suo smantellamento costituisce il gravissimo tentativo di de-nazionalizzare le classi subalterne, di espellerle nuovamente al di fuori dell’ambito dei diritti e delle garanzie tutelate. Un progetto tutto politico, cioè, rispetto al quale la “globalizzazione” economica è solo una forma fenomenica.
Guardando all’improvviso revival del servizio domestico negli Stati Uniti, persino Luttwack parla esplicitamente di “ritorno di modelli vittoriani nella distribuzione del reddito” (Luttwack, 1999, p. 108). E il ritorno a una situazione ottocentesca è denunciato anche da Bauman, che nota la ripresa massiccia dell’ideologia dello Stato-guardiano notturno cara ai teorici liberali del secolo scorso (Bauman, 1999, p. 129 sgg.). È evidente che, in questo processo, la stessa nozione di Stato, di nazionalità e di interesse nazionale subisce una radicale ridefinizione. È evidente, inoltre, che tutto ciò deve essere impedito, senza lasciarsi convincere che la difesa del Welfare e della piena nazionalità e cittadinanza delle classi subalterne costituisca, nell’epoca della mitica globalizzazione, un atteggiamento moderato o di retroguardia.
* L’articolo rielabora alcuni temi esposti più ampiamente nell’opuscolo Globalizzazione e imperialismo, La Città del Sole, Napoli 1999, secondo numero della collana diretta da Domenico Losurdo “Per la critica dell’ideologia borghese”
Bauman, Zygmunt, 1999
Globalization. The Human Consequences, Polity Press-Blackwell Publishers, Cambridge-Oxford 1998. Trad. it., di Olivero Pesce, Dentro la globalizzazione, Laterza Roma-Bari
Luttwak, Edward, 1999
Turbo-Capitalism, 1998. Trad. it., di Andrea Mazza, La dittatura del capitalismo, Mondadori, Milano
Revelli, Marco, 1998
Globalizzazione, Mondializzazione e neoliberalismo, in M. Revelli e P. Tripodi, Lo stato della mondializzazione, Leoncavallo, Milano