Gli oleodotti e il Limes

Sovrapporre la carta degli oleodotti a quella dei conflitti significa spesso ottenere superfici e linee strutturalmente corrispondenti. Le aree di crisi si dispongono lungo gli snodi delle vie di comunicazione – non solo energetiche – fino a combinarsi con queste in un solo disegno. Lo scenario è unico. Se prendiamo il Caucaso e facciamo un elenco delle crisi locali, otteniamo in realtà un quadro di passaggi strategici per il petrolio e il gas provenienti dal Mar Caspio: Cecenia, Dagestan, Kurdistan, Ossezia, Abkhazia, Nagorno-Karabah. Se poi guardiamo la situazione da un gradino più alto, vediamo il Caucaso in sé come teatro del conflitto. Di un unico grande conflitto. Sappiamo quanto sia considerato importante il controllo delle risorse dell’area per governare l’evoluzione futura degli scenari mondiali, non solo economici. Avanziamo allora un’ipotesi: che le guerre etniche facciano divampare in realtà i fuochi del petrolio. Se così fosse, anche sulla base dell’esperienza acquisita, non sarebbe una novità. Ma è meglio evitare gli schematismi, perché i conflitti etnici hanno, come si sa, un loro carattere autonomo ed endemico. Non sono macchinazioni. Si mantengono nella lunga durata della storia in forma ora latente ora manifesta. Per periodi anche lunghi rimangono semisommersi o limitati. Sfociano magari in episodi violenti, in accensioni improvvise, ma tendono a non assumere forme “ad alta intensità”, di scontro frontale tra forze nemiche concentrate. La loro logica è raramente di conquista o di difesa del terreno. E la loro forma standard, per così dire, è semmai quella “a bassa intensità”, di logoramento praticato attraverso piccoli gruppi capaci di disperdersi rapidamente. In questo contesto, un intervento esterno – finanziamenti, operazioni di intelligence, traffici illegali – può naturalmente favorire il passaggio dalla bassa all’alta intensità. Ed è precisamente quanto è accaduto, lungo l’arco degli anni Novanta, nei Balcani e nel Caucaso. Quando si delinea un quadro dei conflitti armati, la carta degli oleodotti può essere un utile elemento di demarcazione per riconoscere gli interessi in gioco. Non è detto che sia sempre così. In realtà, è importante guardare al sistema complessivo dei trasporti. Ma, al suo interno, la parte energetica è probabilmente la più significativa. Innanzi tutto, perché concerne la materia prima strategica, su cui va ridisegnandosi continuamente la mappa degli equilibri internazionali. Inoltre, proprio perché concerne il trasporto, cioè – allo stato attuale – un fondamentale meccanismo di controllo sul sistema energetico. Ma così siamo già ritornati al punto di partenza: una visione d’insieme sulla logistica è necessaria. L’osservazione di tutte le reti fisiche, delle opere stabili e delle linee visibili sul terreno – con le relative interconnessioni – permette di raccogliere una grande quantità di dati, rende possibile incrociarli tra loro, verificarli e rintracciare costanti su cui costruire un’analisi. Se guardiamo i Balcani, la ricerca di linee strutturali porta a cogliere quanto di sistemico ci sia nelle corrispondenze tra progetti di ampliamento concernenti aree portuali italiane e – dall’altra parte dell’Adriatico – progetti infrastrutturali simmetrici, fatti rientrare magari nella “ricostruzione” del dopoguerra kosovaro. Oppure, restringendo il campo, porta a cogliere quanto di sistemico ci sia tra l’acquisizione in concessione, da parte dei comandi NATO, di un’area del porto di Brindisi, base dei trasporti verso l’Albania, e i lavori per l’impianto – presso Urosevac, nel Sud-Est del Kosovo – di una grande base dell’alleanza destinata a ospitare mezzi corazzati, piste d’aviazione, bombardieri ed interi reparti operativi. Ciò che prefigura un futuro avamposto intermedio lungo la linea da Aviano alla base turca di Incirlik. E poi, proseguendo, si può ancora cogliere quanto di sistemico ci sia tra tutto ciò e l’intervento, in ambito civile, delle varie task force organizzatrici di banche dati sugli appalti. E, ad un altro livello ancora, non sfuggirà la relazione sistemica tra l’insieme di questi elementi e le singole opere. Dall’asfaltatura delle strade al ripristino degli aeroporti civili. Alla fine, l’esame dei diversi livelli – politica, diplomazia, economia e sicurezza – porta ad ottenere dati convergenti e riconducibili a costanti. Queste descrivono, attraverso le loro linee strutturali, un grande asse di penetrazione da Ovest a Est. Troviamo un terminale occidentale a Brindisi. Poi abbiamo linee transadriatiche verso i porti di Bar, Durazzo e Valona. Da qui, una rete infrastrutturale terrestre verso Pristina – perciò via Kosovo – in direzione della città macedone di Skopje, da dove si diramano due passaggi. Uno meridionale, in direzione del porto greco di Salonicco. L’altro settentrionale, attraverso la Bulgaria, con il collegamento al porto di Varna, sul Mar Nero. E, su quest’ultima direttrice, piega più a Sud la variante Sofia-Istambul. Da cui si raggiunge il nodo strategico del Bosforo, check-point sulla rotta marittima del Mar Nero, storica via del petrolio caspico. Così, il discorso sulle linee strutturali balcaniche ci ha riportato verso il Caspio. Il che significa nel Caucaso. Ora, potremmo anche provare a seguire inversamente, da Est, la linea descritta dalla rotta petrolifera che ha come termine orientale la città di Baku, primo porto del Caspio e capitale dell’Azerbaigian. Potrebbe servire, anche perché da qui partono gli oleodotti. Uno va in verticale verso settentrione, via Dagestan e Cecenia, in direzione del porto russo di Novorossijsk, sul Mar Nero. È la rotta russa. L’altro va in orizzontale verso occidente, fino al centro georgiano di Supsa, sempre sul Mar Nero. Ce ne sarebbe poi un terzo, sudoccidentale, anch’esso in orizzontale, con terminale nel porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo. Quest’ultimo – fortemente sostenuto dall’amministrazione degli Stati Uniti – è per ora allo stato di progetto. Potrebbe anche rimanerlo, perché sulla sua realizzazione pesano molti fattori di incertezza. In ogni caso, se seguiamo il corso del petrolio per nave, via Mar Nero, verso la Bulgaria e il Bosforo, ci riconnettiamo direttamente alla direttrice balcanica. La guerra del Kosovo, fuori dagli schemi della “controffensiva umanitaria” in risposta alla violazione di un diritto – quello dei Kosovari -, si ritrova su quest’asse. Abbiamo verificato come non sia soltanto una linea immaginaria. L’asse è descritto da componenti visibili: aree portuali, basi militari, zone sottoposte a protettorato, grandi progetti infrastrutturali, rotte terrestri, aeree e marittime, oleodotti, aeroporti. Tutto in fase di progettazione, finanziamento, ampliamento, ammodernamento o realizzazione. Insomma, l’asse descrive un’”offensiva di costruzione”. Altrimenti detto, l’asse evidenzia lo scheletro di un sistema in fase di espansione e organizzazione. Il sistema naturalmente non è definito dalle singole componenti, ma dall’insieme delle attività che vanno sviluppandosi lungo le sue linee strutturali. Il quadro può venire completato se portiamo ora l’osservazione su alcuni aspetti evolutivi del sistema, sul suo farsi. In una parola, sul processo che lo riguarda. In primo luogo, è utile fissare un termine iniziale. Nel nostro caso, il 9 novembre del 1989, data della caduta del Muro di Berlino. Com’è noto, la caduta del Muro ha sancito la fine di due sistemi sovrannazionali chiusi, basati su logiche di contenimento reciproco. Il cosiddetto equilibrio del terrore. In senso proprio e non simbolico, il muro era la piccola parte di un dispositivo di frontiera a schema perimetrale, dislocato lungo la direttrice europea Nord-Sud. Era il limes (il confine) della guerra fredda. Come accaduto già mezzo secolo prima alla linea Maginot, l’improvvisa rottura di una logica di contenimento ha portato – con l’accelerazione degli avvenimenti – al rapido superamento delle installazioni di vecchia concezione. In breve, ciò ha significato il passaggio da una logica di sicurezza e consolidamento a una logica di espansione e “allargamento a Est”. E con questo, evidentemente, l’abbandono della precedente politica dei confini. Così, caduto il Muro, tutta l’organizzazione del vecchio limes è entrata in crisi. Il dinamismo del nuovo processo politico ed economico richiedeva un adeguamento delle infrastrutture. Se prima si dovevano escludere le comunicazioni tra i due sistemi, ora si rendeva necessario invece attivarle. Far passare – da e verso Oriente – un enorme flusso di capitali, merci e persone. Perciò è stato aperto il vecchio dispositivo perimetrale e si sono creati punti di transito lungo la direttrice Ovest-Est. Le modalità di attuazione di queste trasformazioni sono state una combinazione di mezzi diversi: iniziativa diplomatica, commercio estero, acquisizioni azionarie nell’ambito delle privatizzazioni, aiuto finanziario, progetti e studi. Il nuovo limes ha preso lentamente forma attraverso una lunga fase di assestamento. In un primo tempo, l’Unione Europea aveva promosso una sua politica di “allargamento a Est” sulla direttrice danubiana. Poi però, dal 1995, con l’intervento diretto della NATO in Bosnia, gli Stati Uniti hanno assunto direttamente la direzione del processo politico balcanico, aggiungendo tra l’altro al proprio sistema di stati-clienti il protettorato bosniaco. Da allora, il ricorso alla forza ha conferito agli USA grandi capacità di deterrenza e di intervento politico nell’area. Mentre, d’altra parte, ciò ha anche ridotto notevolmente le possibilità di manovra dell’UE, ancora priva di una politica di difesa comune e autonoma. Il conflitto e la “ricostruzione” del Kosovo hanno infine segnato, con la creazione di un altro protettorato, lo strutturarsi di un modello di insediamento statunitense stabile e su larga scala nei Balcani meridionali. Insomma, il nuovo limes – fornito di un sistema di avamposti militari, protettorati, basi logistiche, stati-clienti e vie di comunicazione – si è organizzato attorno ad un asse proiettato verso l’esterno, perpendicolarmente alla vecchia frontiera e su una linea di penetrazione diretta fino al cuore delle aree di interesse strategico del Mar Caspio. In questo modo, a una decina d’anni dalla fine dell’Unione Sovietica, cominciano a vedersi le maglie organizzative dell’unico sistema sovrannazionale rimasto in campo. È anche l’affresco di una politica di potenza, basata – ma non esclusivamente – sul controllo dell’economia. Dunque, prima di tutto, sul petrolio. In tutto questo, Baku presenta una vicenda esemplare. Nel 1872, sotto la dominazione zarista, furono aperti i primi pozzi. In un clima di fervore pionieristico, la città conobbe uno sviluppo tumultuoso. Vennero costruiti insediamenti industriali e cantieri navali. Gli operai accorsero in gran numero e il porto si sviluppò. Nel 1888, Anton Cechov, per dire di avere molte buone idee per i suoi soggetti, scriveva: “Zampillano fuori da me come il petrolio di Baku”. Successivamente, nel periodo sovietico, l’estrazione è andata calando d’importanza, mantenendo però, ancora negli anni Cinquanta, la ragguardevole quota di circa un terzo della produzione totale dell’URSS. Più tardi, durante la seconda guerra mondiale, Adolf Hitler pose tra le priorità della campagna di Russia proprio la presa di Baku e degli altri insediamenti petroliferi del Caucaso. Per questo, nel 1942 lanciò l’Operazione Blau, il cui principale obiettivo era il petrolio dell’area. A luglio, le sue divisioni arrivarono a Rostov, interruppero l’oleodotto caucasico e puntarono in direzione di Grozny e Baku. Ad agosto, giunsero a Majkop, centro petrolifero secondario, e si spinsero fin sui passi caucasici, dove il tentativo di sfondamento venne poi bloccato e respinto. Solo dopo la caduta del Muro e con l’indipendenza, raggiunta nel 1991, si sono riaperti – insieme con le frontiere – i giochi per lo sfruttamento dell’immensa capacità produttiva ancora inutilizzata. Da allora, si sono messe in cammino, alla volta della capitale azera, varie missioni diplomatiche. Ne sono seguite sostanziali intese politiche ed economiche. Come quella del 20 settembre 1994, con la firma dell’”Accordo del secolo” tra alcune grandi compagnie statunitensi – capocordata la Amoco – e il presidente azero Heydar Aliyev.