Bene ha fatto Michele Martelli, professore di Filosofia della storia all’Università di Urbino, a premettere al suo ultimo libro – I filosofi e l’Urss. Per una critica del “socialismo reale”, La Città del Sole, Napoli 1999, pp. 268 – una ricostruzione del dibattito suscitato nel mondo intellettuale europeo dagli eventi della Comune parigina del 1871. Per la profondità del suo significato storico, la Comune svolge infatti, nello sviluppo delle lotte politiche e sociali della fine del XIX secolo, un ruolo di spartiacque, paragonabile per tanti versi a quello della prima guerra mondiale e della rivoluzione d’Ottobre nel corso del Novecento. Portando improvvisamente allo scoperto i nervi del movimento fondamentale della storia contemporanea, la Grande Guerra e il ’17 come la Comune costringono gli intellettuali e i blocchi d’interessi di cui questi sono espressione a prendere posizione non soltanto su vicende concrete e contingenti, ma anzitutto sul significato più generale di un’epoca e sulle tendenze profonde che ne animano il corso. Eventi di questa portata hanno il pregio di dividere la sfera ideologica in schieramenti precisi, che rielaborano sul piano mediato della riflessione i conflitti in atto e ne traggono le conseguenze nell’ambito del più generale conflitto di classe che anima la società borghese. Sono momenti di rottura, in cui la lotta ideologica e il confronto per l’egemonia toccano dei vertici assoluti. Il giudizio che viene fornito attorno ad essi – approvazione o condanna, speranza o repulsione – costituisce perciò, per la critica dell’ideologia, un elemento decisivo per comprendere la posizione politica relativa degli intellettuali: il progresso e la reazione sembrano distinguersi, qui, nella maniera più netta.
Quando, alla sconfitta della Francia nella guerra con il nascente Reich di Bismarck, le masse popolari si impadroniscono di Parigi, è ormai passata una generazione dal Manifesto di Marx ed Engels. Il movimento operaio ha alle proprie spalle un notevole lavoro di lotte e di studio, si è consolidato nei singoli paesi e, sebbene non abbia ancora trovato un assetto teorico e un indirizzo politico stabile, si è già dotato di una piattaforma organizzativa internazionale.
Soprattutto, le contraddizioni della società capitalistica sono già arrivate ad un punto di maturazione tale da consentire eruzioni rivoluzionarie che, certamente ancora isolate e con scarse possibilità di successo, dimostrano che la lotta di classe è entrata – come lo stesso Martelli cita da Marx – in una nuova fase del suo sviluppo, trascinando con sé l’intera civiltà borghese. Si capiscono, allora, il tenore e l’orientamento delle riflessioni suscitate da questo evento nei diversi settori del mondo intellettuale, che ne riconoscono immediatamente la rilevanza per il futuro degli ordinamenti politici e sociali europei. Se Marx saluta senz’altro in esso un nuovo punto di partenza di importanza storica universale, Nietzsche si fa subito interprete del terrore dell’establishment aristocratico-borghese e denuncia nella Comune, dice Martelli, il primo “segno apocalittico dell’inevitabile decadenza e autodistruzione della civiltà europea”, assediata dalle masse dei nuovi barbari proletari.
Ciò che accadde per la Comune sarà poi paradigmatico, spiega ancora Martelli, per il primo Stato operaio della storia, quell’Unione Sovietica per la quale lo stesso Lenin rivendicherà l’eredità dell’esperienza parigina. È a quest’altezza che il discorso di Martelli entra nel vivo e si fa più complesso. Allo scoppio della rivoluzione d’Ottobre, gli intellettuali borghesi più accorti e organici reagiranno – è comprensibile – con un moto d’orrore ancora maggiore che nel 1871. La loro denuncia ripeterà sostanzialmente gli schemi d’analisi e le figure retoriche già utilizzate contro la Comune e si svilupperà lungo questo solco – approfondendosi e arricchendosi di categorie via via nuove, come quella di “totalitarismo” – sino alla parziale sconfitta dell’avversario storico. Da Mises a Hayek, da Spengler a Popper, il fronte ideologico borghese si mostrerà compatto e implacabile – se prescindiamo dalla fase segnata dall’alleanza antinazista – nell’individuare l’Urss come il nemico assoluto e nel contribuire alla sua più completa delegittimazione politica e morale, nel corso di una sorta di mobilitazione totale durata settant’anni. Questa volta, però, nel campo loro avverso, in quello degli intellettuali “rivoluzionari”, non sarà possibile rintracciare né la stessa compattezza, né la stessa consapevolezza politica e capacità di analisi storica. È questo, a ben guardare, il fenomeno più interessante ed è proprio questo l’oggetto specifico dello studio di Martelli, il quale ricostruisce nella loro evoluzione le analisi e i giudizi forniti attorno all’Urss – in merito alla sua natura sociale, alle sue scelte politiche e al suo rapporto con il movimento rivoluzionario internazionale – dai più importanti filosofi della sinistra europea, dagli anni Venti sino ad oggi.
Sono note le posizioni di Gramsci sulla rivoluzione d’Ottobre e sullo Stato sovietico. Uno dei pochi, tra le file della sinistra, a riconoscere sin dall’inizio la natura integralmente socialista del ’17 e il ruolo storico di Lenin e del bolscevismo, Gramsci è stato anche il primo acuto analista e interprete della nuova società russa. Proprio in questo consiste, a guardar bene, uno dei suoi maggiori meriti nella costruzione del materialismo storico e della più generale coscienza storico-politica del movimento operaio. Solo per fare qualche esempio, lungi dall’elevare l’esperienza bolscevica a paradigma supremo della rivoluzione mondiale, egli ne indicherà sin dall’inizio le specificità russe, riconoscendo con ciò il nesso – imprescindibile per gli stessi internazionalisti – tra questione nazionale e questione sociale. Allo stesso modo, soprattutto, egli sarà il primo ad applicare il metodo conoscitivo storico-materialistico all’analisi della stessa situazione sovietica, interpretando alla luce di esso le nuove contraddizioni e i nuovi conflitti che la rivoluzione aveva prodotto.
E però, dice Martelli, la critica gramsciana, pur acuta e a tratti impietosa, non perde mai il senso complessivo degli eventi storici e si rivolge in modo equilibrato all’esperienza sovietica russa non per liquidare, ma per ripensare e arricchire creativamente la problematica marxista.
Gramsci, certamente, non visse abbastanza a lungo per poter vedere il periodo staliniano e per poter applicare anche a questo la forza e la lucidità della propria critica. Un’eco della sua ispirazione, però, è rintracciabile per certi versi nella posizione dell’ultimo Lukács e nella sua proposta di superamento dello stalinismo attraverso una democratizzazione del socialismo che, ereditando alcuni elementi irrinunciabili dell’universalismo borghese e del suo Stato, realizzi finalmente la democrazia socialista. In nessun caso, però, questo potrà essere inteso come un regresso alle forme politico-sociali borghesi. Nonostante le deformazioni staliniane, infatti, per Lukács il peggiore socialismo è sempre migliore del migliore capitalismo e con l’Urss si è aperta una fase nuova e irreversibile della storia dell’umanità intera.
In questo senso, spiega Martelli, non si trattava né di liquidare con saccenteria l’esperienza storica dell’Unione sovietica, né di giustificare acriticamente, o esaltare filisteicamente il “socialismo reale”. Nello spirito della lezione gramsciana, piuttosto, bisognava ricercarne ed evidenziarne le contraddizioni interne, oggettive, usando gli strumenti concettuali di un marxismo non dogmatico, ma critico, tenendo però sempre presente che la scelta di campo per il socialismo si imponeva ormai, per gli intellettuali comunisti, come una scelta definitiva. Proprio qui sorge il problema. Del tutto diverso e persino contrapposto appare, infatti, rispetto a quello di Gramsci e Lukács, l’atteggiamento di filosofi di sinistra del rango di Merleau-Ponty, Sartre e Marcuse, e persino dell’ultimo Bloch. Dopo aver abbracciato il marxismo esaltando la rivoluzione d’Ottobre con uno slancio che rasenta l’escatologismo messianico e dopo aver persino approvato le scelte di Stalin, Bloch, ad esempio, denuncerà nell’Urss il tradimento di ogni utopia e, emigrato in Occidente, abbandonerà la speranza di una possibile autoriforma del sistema dall’interno, individuando la soluzione nel suo rovesciamento dal basso per mezzo dell’iniziativa di base e della mobilitazione popolare. Non dissimile è la parabola di Sartre o Marcuse.
Divenuto tardivamente compagno di strada del movimento comunista, piuttosto che riconoscersi nel marxismo, si può dire, Sartre crederà narcisisticamente, per un certo periodo, di riconoscere in questo qualche affinità con la propria filosofia. La carica fichtiana e soggettivistica della sua idea di politica, però, ben poco ha a che fare con il materialismo storico, così come le sue posizioni saranno sempre di stampo movimentistico e antistataliste.
Con il ’68 francese e i fatti di Praga, poi, il suo provocatorio filosovietismo si ribalterà in un radicale antisovietismo di impronta anarchica, portandolo a denunciare nell’Urss non solo una dittatura burocratica e disumanizzante – la Cosa al potere – ma una potenza imperialista al pari degli USA. Data l’irriformabilità del regime, spiega Martelli, anche per Sartre si trattava di stabilire nuovi rapporti di produzione, ma liquidando il sistema, demolendo, fracassando la Macchina. Non molto lontane, infine, le posizioni di Marcuse: il filosofo tedesco – teorico della contestazione studentesca e ispiratore di larga parte della nuova sinistra (molto caro, ad esempio, al manifesto) – collegandosi per tanti aspetti alle analisi di Heidegger, individua nell’Urss un progetto politico e sociale dominato dalla tecnica e dalla razionalità strumentale, essenzialmente analogo a quello capitalistico-borghese.
Non solo si tratta di totalitarismo, ma di un socialtotalitarismo orientale repressivo dei bisogni individuali e di ogni slancio libertario, i cui fondamenti teorici vanno interamente capovolti, rovesciando – è una proposta che accomuna molti di questi filosofi – lo sviluppo del socialismo, da scientifico mutandolo in utopico. È chiara a questo punto, se abbiamo ben interpretato il significato complessivo di questo testo, l’asprezza e la scomodità del problema di fronte al quale ci mette Martelli, costringendoci a interrogarci, da comunisti, sulla natura del cosiddetto marxismo occidentale. Di intellettuali realmente rivoluzionari si tratta e si deve parlare qui, come correntemente ancora oggi si ritiene? O non si deve piuttosto vedere in gran parte dei pensatori divenuti compagni di strada del movimento comunista la dimostrazione della capacità di egemonia che il marxismo e anche la stessa Unione Sovietica furono capaci di esercitare, per qualche tempo, nei confronti del mondo borghese e dei suoi ceti intellettuali? Ma ancora: la dialettica inscritta nelle figure di questi filosofi – che si accostano entusiasticamente al comunismo in nome di una sua rappresentazione utopica, messianica e del tutto immaginaria, per poi ritrarsi esterrefatti di fronte alle durezze del reale e alla negatività (e persino alla violenza) che è ad esso necessariamente immanente – non può essere persino letta come il progressivo verificarsi di un rovesciamento di tale egemonia? Non si è verificato qui un fenomeno per cui, attraverso essi e la loro influenza, la sfera ideologica borghese è riuscita, passo dopo passo, a riassorbire interi pezzi di intellettualità rivoluzionaria diffusa, sconfiggendo anche su questo piano l’avversario di classe?
Come si vede, si tratta di questioni complicate e persino fastidiose, ma che non è facile aggirare, nella prospettiva di una rifondazione integrale del movimento comunista internazionale.
Conseguentemente, poi, nessuno di noi può sfuggire al problema di una più generale riflessione sulla natura e sul ruolo odierno degli intellettuali, e in particolar modo sulla necessità vitale per questo movimento – e per ogni partito comunista in particolare – di suscitare e formare un proprio strato di intellettuali organici. Non si tratta affatto, qui, di contestare l’enorme portata teorica della riflessione di pensatori e filosofi che sono veri e propri giganti della cultura contemporanea, con i quali è necessario, piuttosto, confrontarsi sul piano intellettuale nelle forme opportune. Né si tratta di sottovalutare la rilevanza delle loro critiche nei confronti del socialismo reale e dello stesso marxismo, né, ancora, di rivendicare un’inesistente e ridicola ortodossia. Certamente, però, l’idea di un rinnovamento eclettico del marxismo e di un generale ripensamento della stessa idea di comunismo e dei compiti del partito che si ispiri proprio alle loro proposte – un’idea oggi largamente dominante – non solo sembra scarsamente capace di affrontare i deficit teorici che oggi il materialismo storico sconta, ma sembra piuttosto approfondirne ancora di più la crisi, scambiando il rimedio con il male stesso.