Gli Arabi alla prova della “Giustizia infinita”

Beirut

L’aria che tira da queste parti è assai meno tempestosa di
quella che ha soffiato sugli occidentali sotto forma di
delirio bellico. Beirut è l’osservatorio ideale sul Medio
Oriente, anche perché qui tutte le tendenze politiche della
regione sono rappresentate da altrettanti giornali e
partiti, dal Baath ai comunisti, dagli integralisti sauditi
agli hezbollah, da Fatah alla destra israeliana (che ha il
suo equivalente nella Falange libanese), dai marxisti
palestinesi ai nasseriani e ai reazionari filoamericani o
filofrancesi. Ed è in questo arcipelago, che, in un paese
di non si sa quanti abitanti (ultimo censimento nel 1933,
dopodichè lo si è accuratamente evitato per non
scombussolare i delicatissimi equilibri etnici e tribali),
riassume la complessità del mondo mediorientale, dove si
registrano con precisione omogeneità e divergenze nelle
reazioni agli attentati e al successivo scatenarsi della
“crociata” statunitense.
Già, la “crociata”. Uno spettacolare autogol di Bush lo
Scarso che qui, rievocando aggressioni e massacri storici
profondamente incastrati nella memoria collettiva, hanno
provocato notevole indignazione, minando alla base
quell’adesione all'”Alleanza” antiterrorista che, del
resto, per molti governi dell’area è stata un esercizio di
puro principio, perlopiù corredato dal corollario che per
terrorismo qui s’intende e si conosce su tutti il
terrorismo israeliano.

La compostezza, quasi freddezza con le quali il mondo arabo
ha risposto al nevrotico allarmismo occidentale, hanno il
segno di due consapevolezze. Freddezza mantenuta anche
quando Powell intimava ai sostenitori degli hezbollah Siria
e Libano di liberarsi dei “terroristi” pena l’inclusione
nella lista nera degli stati sterminandi, o quando
l’ambasciatore USA a Beirut è arrivato a pretendere la
consegna dei dirigenti hezbollah Fadlallah e Nasrallah e
dei loro vice, o ancora quando la CIA ha finalmente
estratto dal cilindro l’Iraq quale obiettivo vero del
senile impazzimento militaresco di un paese che sente sul
collo il fiato dell’inizio della crisi finale.
La prima consapevolezza, scaturita dall’aver vissuto sulla
propria pelle ogni genere di nefandezza terroristica
occidentale, dalla conquista colonialista alle guerre di
liberazione, dalle aggressioni israeliane alla guerra
civile in Libano innescata dagli ascari libanesi di USA,
Vaticano e Israele, dalle stragi sioniste in Palestina e
fuori fino a Sabra e Shatila e ai massacri di palestinesi
oggi, definite “violenze nei territori”.
La seconda è il risultato di una capacità di analisi di
politici e osservatori arabi che sfugge del tutto alla
maggioranza degli “esperti” o dei media occidentali, vuoi
per malafede, vuoi per stereotipi politico-culturali di
antica e sempre rinnovata potenza che ottundono qualsiasi
serenità di giudizio. Vale per gli arabi quello che vale
per gli slavi, per cui a ogni Saddam (un tempo erano i
Nasser, i Gheddafi, i Ben Bella) corrisponde un Milosevic,
o un qualsiasi altro difensore della sovranità e
dell’identità nazionali contro il neocolonialismo
imperialista guidato dagli anglosassoni.

E’ un’analisi che, senza paraocchi occidentocentrici, per i
quali la civiltà sta solo da una parte, spoglia tutta la
baraonda del vittimismo USA ed europeo della sua retorica e
delle strumentalizzazioni che tenta di operare, per andare
al nocciolo del cui prodest. E anche su questa analisi si è
creata un’unità araba, appena increspata dall’allineamento
dei sauditi (tra gli arabi gli unici autentici alimentatori
dei terrorismi islamici) e dalle bizzarrie di un Gheddafi
ansioso di rassicurare l’Occidente e ormai lontano,
immerso come è nell’Africa, dalle questioni arabe e
palestinesi. A prescindere da chi abbia fatto fare gli
attentati – e sul nome di Osama bin Laden si levano ovunque
alti sghignazzi, insieme alla sottolineatura delle sue
attuali operazioni al servizio degli USA con mercenari
afghani e wahabiti in Kosovo, Macedonia, Cecenia, Asia
centrale, Algeria, Indonesia, Filippine – l’uso che ne è
poi stato fatto dagli USA, illustra, secondo gli arabi, una
strategia imperialista di grande respiro.

I dirigenti libanesi

Con la bufera recessiva determinata dalla demenzialità del
mercato cosiddetto neoliberista, dove tutti sbranano tutti,
toccava ricorrere allo strumento statale capitalista per
eccellenza: il complesso militar-industriale, impersonato
in modo strabordante dal vicepresidente Cheney e sostenuto
dal consenso dell’integralismo cristiano-fascistoide
dilagante negli USA. La locomotiva del riarmo, in vista
della “guerra di lunga durata” preconizzata da Bush,
dovrebbe ridare fiato alla ripresa in USA e nei paesi
alleati, mentre l’azione verso l’Afghanistan consentirebbe
agli USA di riempire un vuoto strategico che il Pentagono
denuncia da tempo: quello tra Turchia e Corea del Sud, dove
gli statunitensi vantano solo la base insulare di Diego
Garcia. La guerra del Golfo, si ricorda, doveva consentire
alle forze statunitensi di installarsi nella penisola
arabica, quella contro la Jugoslavia ad insediarsi
permanentemente nei Balcani. Mancava una presenza sul
fianco sud per la spinta verso l’Asia centrale, la Russia e
la Cina (dove pure, nella provincia a maggioranza musulmana
del Xinyang, sono attivi gli ascari CIA di bin Laden), a
cavallo di tutti i maggiori oleodotti. Tanto più che i
Taleban, diventati figlioli riottosi, avevano negato agli
USA la costruzione dell’unico oleodotto che gli avrebbe
portato il petrolio caucasico verso l’Oceano Indiano.
Un’opinione questa, espressa da Talal Salman, direttore
(tre attentati in vent’anni fattigli dalle destre) del più
grande giornale di sinistra del mondo arabo, As Safir, e a
cui, col suo solito modo scanzonato e beffardo, il più
anticonformista dei politici libanesi, Walid Jumblatt,
leader dei drusi e del Partito Socialista Progressista,
aggiunge un’altra dimensione. Accontanato con disinvoltura
lo sbigottimento dei commentatori arabi per la sua
affermazione che gli attentati alle Torri Gemelle e al
Pentagono sarebbero stati opera di americani e israeliani,
Jumblatt punta il dito sulla fascistizzazione rilanciata a
ritmo accelerato dall’orrore di New York e Washington. “Lo
shock, lo sgomento, la revulsione per quelle stragi, mai
espressi in passato per le ecatombi di iracheni,
palestinesi, guatemaltechi, serbi, angolani e tanti altri
che non appartengono alla “civiltà occidentale”, saranno
utilizzati dagli USA per una stretta repressiva ed
antidemocratica in tutto il mondo. E qui gli europei, che
sugli obiettivi militari degli USA, destinati a ricomporre
le forti contraddizioni soprattutto economiche tra
Washington ed UE, hanno forti riserve, vanno invece a
nozze. In Europa, come negli Stati Uniti, recessione e
aumento delle spese militari comporteranno sacrifici e
rinunce pesantissimi per i ceti più deboli, per i
lavoratori, e ulteriori devastazioni ecologiche per la
riduzione delle spese sociali ed ambientali. Ne nasceranno
tensioni e conflitti sociali difficili da controllare. Ecco
perché la militarizzazione della società, i controlli, i
divieti, leggi e operazioni repressive del dissenso saranno
indispensabili anche ai governi europei, ormai quasi tutti
di destra, mascherata o vera”.

La madre di tutti i terrorismi

Il fatto che da queste parti sono cinquant’anni che si
subisce il più feroce terrorismo di stato della storia,
quello degli israeliani contro gli arabi – e l’occasione è
buona perché è appena caduto l’anniversario di Sabra e
Shatila, “la madre di tutti i terrorismi”, quando, nel
1982, Sharon fece massacrare dai falangisti e
dall’esercito mercenario di Lahad 3000 inermi profughi nei
campi – e che si parli di “crociata” e che un difensore del
suo paese come Milosevic sia in prigione mentre un
macellaio come Sharon è il più caro degli alleati, rende
gli arabi indifferenti, non alle vittime, ma alla grancassa
vittimistica dei dirigenti occidentali.

Il presidente della repubblica

Mi ha detto il capo dello Stato, Generale Emile Lahoud, che
“fin quando saranno definiti terroristi ragazzini con i
sassi e gente che si immola contro gli occupanti del suo
paese, e non quelli che assaltano i colonizzati e assediati
con carri armati e F-16, nessuno potrà prendere sul serio
la campagna antiterrorismo. Includano anche i terroristi
israeliani, (“quelli islamici in Kosovo, Cecenia e
Macedonia”, aggiunge Jumblatt) e coloro che bombardano ogni
giorno l’Iraq, poi si vedrà”. E così anche l’adesione
all’alleanza antiterrorista dei governi-clienti degli USA,
dal Kuwait agli Emirati, dai sauditi ai giordani, si è
sempre portata dietro la richiesta di intervenire su
Israele. Un’Israele che, secondo molti commentatori arabi,
verrà si frenata dagli USA nella persecuzione dei
palestinesi, ma in compenso potrà vedere gli americani
farla finita una volta per tutte con l’Iraq, tuttora,
insieme all’Intifada, il catalizzatore di una rabbia araba
che rischia di scuotere i già fragili regimi feudali. Il
pur moderato presidente Lahoud si spinge fino a ribattere
alla pretesa USA di neutralizzazione degli hezbollah da
parte di Libano e Siria, con una vera sparata in favore
del “Partito di Dio”. “Assurdo chiamarli terroristi. Sono
patrioti libanesi che hanno difeso la dignità e la libertà
del loro paese. Ci hanno riempito di orgoglio per avere
liberato la nostra terra dall’occupazione israeliana. Sono
amati da tutti. Inutile aggiungere che Lahoud, l’ex-capo di
stato maggiore che ha saputo riunire un esercito frantumato
da mille lealismi a capiclan e capi politici vari, ha
contribuito a unificare anche buona parte delle tante
anime, confessionali, etniche, politiche, del mosaico
nazionale, superando ostracismi e promuovendo la
convivenza.

Hezbollah

Gli hezbollah, stimati e applauditi per il forte ruolo
sociale che svolgono, in assenza di uno Stato che campa di
speculazioni edilizie e finanziarie, anche grazie ai fondi
di Teheran, nonché per la prima vittoria militare ottenuta
da un esercito arabo sugli israeliani, sono amici di tutti,
esclusa ovviamente la destra fascista cristiana, tuttora,
come ai tempi di Sabra e Shatila, quinta colonna israeliana
in Libano. Ne ho incontrato il fondatore nel 1982 e
vicesegretario generale, Sheikh Naim Kassem, numero due
dopo Hasran Nasrallah. Le misure di sicurezza da superare
nel quartier generale, nel poverissimo quartiere degli
sciti alla periferia sud di Beirut, non sono inferiori a
quelle imposte oggi a chi va a incontrare Bush. Armati
tutt’intorno, blocchi di cemento e sbarre agli ingressi,
esame minuzioso degli ospiti e dei loro oggetti, fino alle
penne, anch’esse prese, passate ai raggi x, e restituite.
Ci si augura che ci sia anche un bunker a prova di missile
all’uranio, vista la serie di assassini mirati realizzati
dagli israeliani e i recenti avvertimenti USA, rimbeccati
dalla fatwa del leader spirituale, Fadlallah, che vieta a
tutti i fedeli di aderire all'”alleanza antiterrorismo”
voluta dagli USA.

D) Come giudica la situazione?
R) L’infinita tragedia palestinese e il sostegno
incondizionato ed acritico di Europa e USA a Israele hanno
posto la regione in uno stato di costante
destabilizzazione. E’ una responsabilità gravissima nei
confronti degli arabi e di tutta l’umanità, che ora si
tenta di coprire con vuoti slogan sui diritti umani, sulla
democrazia, sui paesi “civili”. E’ opportuno che siate
venuti in questi giorni (si riferisce alla delegazione
italiana, guidata da Stefano Chiarini, con esponenti di RC,
DS, PDCI, FIOM e Verdi, venuta a commemorare Sabra e
Shatila e a promuovere con le famiglie dei sopravvissuti
l’incriminazione di Ariel Sharon), è un’ottima risposta
allo strabismo euro-americano, per cui il terrorismo c’è
solo quando si colpiscono i cristiani e i bianchi. Se il
mondo avesse riservato la stessa attenzione e commozione
alla carneficina di Sabra e Shatila che alle Torri Gemelle,
oggi la situazione sarebbe ben diversa. Purtroppo gli
arroganti non vedono il nostro martirio, ai diritti umani
preferiscono la difesa dei loro interessi.

D) Pensa che la campagna antiterrorismo miri soprattutto a
criminalizzare e dunque eliminare i palestinesi?
R) La causa palestinese non verrà liquidata. Nessuno di noi
resistenti si fa impressionare dalla potenza USA. E noi
hezbollah abbiamo battuto il quinto esercito del mondo. Per
secoli i crociati hanno cercato di schiacciarci, ma sono
stati sconfitti. Questo vale anche per i nuovi crociati,
vale per tutte le occupazioni. Alla fine viene sempre la
liberazione e l’Intifada è la magnifica espressione del
rifiuto di tutto quanto di miserabile è stato offerto ai
palestinesi in 50 anni. La volontà dei popoli, come si
vede, viene misurata non sulla potenza, ma sulla
determinazione. E noi pensiamo di avere ogni diritto di
concorrere alla lotta di liberazione dei palestinesi.

D) Gli USA vi annoverano tra i gruppi terroristi da
obliterare.
R) Abbiamo fatto un comunicato in cui abbiamo espresso
tutto il nostro dolore per le vittime. Nessuno ha mai
offerto condoglianze per le migliaia che sono rimasti
sottole bombe israeliane in Libano. Gli USA, però, non
hanno il diritto di utilizzare quegli attentati come
pretesto per assalire chi gli pare. Non si possono
attribuire responsabilità a caso o a convenienza. Non siamo
più nell’epoca in cui ci si faceva guidare da spiriti
tribali. Non si possono colpire paesi perché qualche loro
cittadino ha commesso qualcosa. Di questo bisogna
convincere i governi asserviti agli USA, o dagli USA
intimiditi. Per i popoli è più facile: ogni aggressione USA
provoca un aumento dell’odio, anche per i loro alleati.
Tutti capiscono che questi tamburi di guerra rullano contro
innocenti.

D) Gli USA accusano i cosiddetti integralisti islamici.
Eppure in Kosovo, Cecenia, Algeria, Macedonia e in molte
altre aree, i terroristi islamici lavorano a fianco degli
USA, da loro addestrati, finanziati col narcotraffico
governato dalla CIA, armati ed indirizzati. Pensi all’UCK,
ai banditi ceceni anti-russi allenati da Bin Laden, come
Shamil Basajev. Con che faccia?
R) Non ho gli elementi per classificare gruppi o partiti di
varia natura. Preferisco fare un discorso globale e
valutare le varie azioni e ripercussioni. E’ vero, gli USA
sponsorizzano il terrorismo in tutto il mondo, coprono il
genocidio attuato da Israele, hanno creato i Contras del
Nicaragua, golpe ovunque, dittature, hanno le mani in pasta
nell’Afghanistan anche oggi. Può darsi che, a causa di
certe contraddizioni, di certi conflitti d’interesse
(magari sulla droga, magari mafiosi. Ndr), si verifichino
dei cambiamenti, dei rovesciamenti politici. Noi, comunque,
condanniamo ogni terrorismo, di Stato o di gruppi. C’è
differenza tra terrorismo e resistenza, tra interessi
colonialisti e liberazione. Oggi la direzione in cui si
sono imbarcati gli occidentali favoriranno il dilagare del
terrorismo in tutto il mondo e chissà se saranno ancora in
grado di gestirlo ai propri fini. Con il pretesto del
terrorismo si legalizza l’uccisione di milioni di persone.
Pensi solo all’Iraq. Il terrorismo non appartiene all’Islam
vero. Identificarlo con l’Islam e con gli arabi significa
voler aumentare la paura e l’odio della gente
e costringere tutti ad allinearsi agli USA.

D) Come reagire al dilagare delle guerre?
R) Noi stiamo preparando risposte a varie opzioni. Vedremo
cosa succede e poi decideremo. In ogni caso tutte queste
interferenze nella sovranità degli Stati si risolverà in un
incubo per gli USA, resteranno del tutto isolati e odiati.

D) Si è verificato un allargamento della frattura tra
Occidente e mondo arabo-islamico, parallelo alla rottura
totale tra Israele e Palestina. A quali condizioni tornare
al dialogo?
R) Ogni dialogo deve esser tra due parti che devono essere
alla pari. Solo così si arriva a una conclusione. Ma il
dialogo tra Israele e Palestina e tra gli USA e gli arabi
non è mai stato un dialogo, a dispetto del termine. E’
sempre stato pressione, ricatto, dominazione. Noi siamo
disponibili, ma non a essere dominati. Contro la
dominazione siamo disposti a sacrificare tutto, vita
compresa. I tempi degli schiavi e dei padroni sono finiti,
anche se loro vorrebbero farli tornare. Noi abbiamo
resistito e vinto e oggi collaboriamo con la prima
generazione di palestinesi nata dopo la strage di Sabra e
Shatila e ci impegniamo a livello sociale e parlamentare
(agli hezbollah è andato il 10% dei parlamentari libanesi,
oltre a centinaia di amministratori locali). Per questo ci
chiamano terroristi. Voi vedete di quanto sostegno godiamo
in tutti gli ambienti libanesi.

D) Le vostre priorità oggi.
R) Promuovere democrazia e benessere in Libano, resistere
all’aggressione, rappresentare il popolo nelle istituzioni,
opporsi agli errori del governo, potenziare i servizi ai
bisognosi, opporsi a tutte le potenze arroganti.

D) Un’ultima domanda. Voi oggi collaborate con i
palestinesi nei campi. Come intendete lavorare per la
liberazione della Palestina?
R) In tutti i modi. Il come è un dettaglio. Non occorre
entrare nei dettagli. Intanto ci battiamo perché in Libano
ai palestinesi, degradati a non-cittadini, vengano
riconosciuti i diritti civili.

Il nodo palestinese resta la base ed il vertice delle
tensioni che sconvolgono il pianeta. Senza soluzione della
questione palestinese e senza la liquidazione della trincea
irachena, gli USA sanno che la regione, lungi dall’essere
normalizzata, come si sperava con le sceneggiate di Oslo e
con la tentata uccisione sul nascere dell’Intifada, sarà
fonte di sempre più forti destabilizzazioni e i risultati
che ci si era aspettati dalla guerra del Golfo potranno
essere del tutto vanificati.

Di questo parlo con un padre nobile della Resistenza
palestinese, Shafiq el Hout, segretario generale dell’OLP
in Libano, che nel 1992 si dimise in protesta contro le
disponibilità negoziali di Arafat, ma non venne mai
sostituito e, dunque, riveste tuttora questa carica. La sua
autorità si esercita sulla regione da Beirut ai confini
nord del paese, dominio delle sinistre palestinesi, ma è
contrastata nei campi di Sidone e Tiro, dove resiste
l’egemonia arafattiana. La forza delle sinistre di FPLP,
FDLP, Saika, PC, e della neonata Fatah-Intifada, maggiore
in Libano che non in Palestina, si fonda da un lato sulla
maturazione politica delle fasce vissute in ambiente
metropolitano, dall’altro sulla delusione provocata ai
400.000 profughi del Libano dall’accantonamento da parte di
Arafat della questione “ritorno” durante i negoziati di
Oslo. Questione tornata prepotentemente alla ribalta grazie
all’Intifada e ai recenti collegamenti tra le due comunità,
in esilio e in patria, ressi possibili dalla telematica (e
i profughi invocano computer) e che stanno sviluppando un
forte senso unitario dopo decenni di oblio.

L’OLP

Shafiq el Hout esordisce dicendo con una certa
soddisfazione di avere 16 anni più dello Stato israeliano.
“Avevo un passaporto palestinese di prima del 1948, ne
ricordo il numero: 202083. Mi venne confiscato dagli
israeliani quando arrivarono qui nel 1982. Vi ringrazio di
essere qui a sostenere i diritti di un popolo povero, non
come quello di Manhattan, a cui tutti pensano e a cui anche
noi abbiamo espresso profonde condoglianze. Noi palestinesi
non abbiamo mai invaso nessuno, mai mosso guerra a nessuno,
fino a quando non ci siamo accorti che la nostra terra era
stata data ad altri. L’aggressività israeliana e
statunitense è determinata anche dal riemergere, grazie
all’Intifada, della questione del ritorno a casa di 4
milioni di palestinesi. Dicono che non c’è posto, però
invitano tutti gli ebrei del mondo a immigrare. Il fatto è
che con il nostro ritorno, anche solo parziale, finirebbe
il dominio razzista e cambierebbero tutti gli equilibri. In
Palestina come in Medio Oriente. Avevamo offerto varie
soluzioni. Nel 1974 lo stato unico, laico israelo-
palestinese. Fu respinto. Poi, ai termini della risoluzione
ONU 181, due stati in Palestina, uno ebraico e uno
palestinese, per noi un enorme sacrificio visto che ci
avevano lasciato appena il 22% della Palestina storica.
Niente da fare. Ora gli USA usano il terrorismo per
staccare i paesi arabi da noi, dall’Iraq e dalla Siria,
lasciandoci magari alcuni bantustan (il famoso 40% del 22%
attuale). Israele con Sharon, ha una strategia di
spopolamento attraverso le stragi, il blocco economico, la
blindatura dei villaggi, l’impossibilità di vivere.
Svuotare i territori occupati col terrore, come ai tempi in
cui Begin, Shamir e Sharon facevano saltare i villaggi con
dentro gli abitanti. Disperderci nel mondo. Un popolo senza
terra per una terra senza popolo, come diceva Herzl.
L’attualizzazione della questione “ritorno” ha reso tutto
questo molto più difficile. Per cui l’accelerazione di
oggi, che però preoccupa gli USA per le ripercussioni che
potrebbe avere nei paesi arabi vassalli. Ecco una bella
contraddizione tra imperialismi alleati, o tra imperialismo
e colonialismo. Con Sharon che dà del bin Laden ad Arafat e
Bush che lo riceve con tutti gli onori alla Casa Bianca.

D) Ancora molti, anche a sinistra, credono che la via per
evitare la catastrofe generale, e forse finale, avvicinata
dagli attentati in Usa, sia la ripresa delle trattative, il
ritorno ad Oslo:
R) L’intifada non la può fermare neanche Arafat. Del resto
la presa in giro degli incontri e delle trattative è ormai
manifesta. Se non sono riusciti a tirare fuori
assolutamente niente per noi in 8 anni, figuriamoci col
clima di adesso e con Sharon. E’ stato ingenuo fin
dal’inizio Arafat, ad accettare questi negoziati. Negoziati
che hanno prodotto quanto si vede oggi nei territori
occupati.. Noialtri avevamo voluto dare una chance ad
Arafat. Dovrebbe ormai aver capito quanta fiducia meritino
USA e Israele. E pensare che Arafat viene chiamato
terroriusta, quando a pochi metri da qua, sotto i miei
occhi, Sharon ha massacrato 3000 persone. Se ci rapportiamo
alla popolazione USA di 250 milioni, noi abbiamo avuto
45.000 morti. Io sono un apolide da mezzo secolo. Ora lo
sono anche mio figlio e mio nipote. Fino a quando un popolo
può sopportare questo?

D) Una via d’uscita dalla morsa tra la soluzione finale di
Sharon e la colonizzazione perpetua di Bush? E gli
interessi USA nei paesi del petrolio, messi a rischio
dall’assolutismo israeliano?
R) Finchè verranno adoperati due pesi e due misure sui
diritti umani e sul terrorismo ci saranno guerra e
terrorismo, non solo in Palestina, ma per tutto il mondo.
Non ci illudiamo sui paesi arabi cui gli USA, con la
campagna antiterrorismo, forniscono strumenti ed alibi per
la repressione interna. Fino a dieci anni fa, prima della
guerra del Golfo, poteva esserci un certo equilibrio tra
interessi USA e interessi indipendenti dei regimi arabi.
Oggi non più. A parole i regimi chiedono che si agisca per
i diritti palestinesi, ma ipocritamente, per paura dei loro
popoli. Prima di cedere alle masse, tenteranno ogni forma
di repressione. Non vedo nessun governo del petrolio che
non sia amico e vassallo degli USA. Farebbero guerra a noi
piuttosto che urtare gli USA. Gli arabi non vogliono bere
il petrolio, lo vogliono vendere, e vendere a chi ha i
soldi.

D) Ma pare che Bush e Powell abbiano ripetutamente tentato
di frenare Sharon.
R) Comunque prevalgono in questa classe dirigente senza
saggezza e senza cultura gli automatismi irrazionali. Il
cowboy è caduto dal cavallo e ora deve risalire e
riconquistare un’immagine forte. I termini sparati per
aprire la strada alle traiettorie dei missili erano
“terrorismo” e “guerra”. Parole astratte, che si possono
riempire di qualsiasi cosa, come gli assalti ai paesi di
cui si afferma apoditticamente che avrebbero ospitato, o
appoggiato terroristi: Afghanistan, Iraq, Siria, il Libano
degli hezbollah. Hanno dato del terrorista anche a me. Io
rispondo: datemi i fucili, i missili, le bombe atomiche, i
carri armati che hanno gli israeliani e io non userò più
né sassi, ne giubbotti imbottiti di tritolo. Così sarò il
soldato della civiltà occidentale e non più un terrorista”.

Lasciamo la sede dell’OLP, sepolta sotto le superfetazioni
mattonare in cui formicolano i dannati della terra di
Shatila, tra rigagnoli fognari e ragnatela pencolanti di
fili elettrici, tra muri butterati di colpi della strage e
della successiva “guerra dei campi”. Raggiungiamo il corteo
palestinese nella ricorrenza del peggiore atto terroristico
dalla seconda guerra mondiale: 3000 persone uccise a vista,
sventrate, scuoiate, affettate, appese per le viscere.
Sventolano centinaia di bandiere delle varie
organizzazioni, più frequenti di tutte quelle gialle col
fucile degli hezbollah. Si finisce sulla fossa comune dei
3000, fino a ieri, quando il sindaco hezbollah della
periferia sud l’ha fatta ripulire, una discarica. Piantiamo
alberi di ulivo e di limone. Ci guardano con occhi fermi e
facce segnate le superstiti di Sabra e Shatila. Le madri e
mogli di terroristi.