Giovani Comunisti: disubbidienti o rivoluzionari?

Nell’assemblea nazionale che si è tenuta il 22 e 23 dicembre 2001 a Foligno, l’organizzazione giovanile di Rifondazione Comunista ha finalmente avviato un percorso di confronto che dovrebbe condurre i Giovani Comunisti alla loro seconda Conferenza nazionale: essa avverrà con un grave ritardo rispetto ai tempi previsti dallo Statuto. La sottolineatura di tale ritardo non è il frutto di un’attenzione di maniera per le forme, ma rappresenta la denuncia (cui chi scrive non ha rinunciato all’interno del Coordinamento nazionale) della scarsissima attenzione dedicata dall’Esecutivo dei Giovani Comunisti alle esigenze di un confronto politico serio e strutturato su regole certe.
Tale polemica non si configura come un semplice preambolo critico di natura metodologica: il pressappochismo in materia di procedure costituisce un limite politico non insignificante nel momento in cui viene teorizzato. Proprio a Foligno non è mancato chi ha sostenuto che l’enfasi sulle scadenze della democrazia interna è del tutto fuori luogo in un quadro in cui sono le numerose scadenze del movimento a dare l’opportunità a tante comuniste e comunisti di incontrarsi e di parlare di politica. Abbiamo definito quest’attitudine come pressappochista, e ci pare che essa scaturisca dall’illusione alimentata nei confronti delle presunte virtù taumaturgiche del “movimento dei movimenti”. È convinzione infatti di tanti compagni che la ribellione scatenata dai 50mila di Seattle, ed esplosa in maniera ancora più fragorosa quest’estate a Genova, liquidi la centralità di alcune questioni che pure fino a qualche tempo prima ci si proponeva di sbrogliare. Da questo punto di vista colpisce la rapidità con cui, per esempio, si è dissolta, a parere dei compagni più noti ed autorevoli della nostra organizzazione, la necessità per i Giovani Comunisti di elaborare un progetto anticapitalistico complessivo con il quale presentarsi alle giovani generazioni: ”La questione del grado di anticapitalismo del movimento d’alternativa alla globalizzazione neoliberista è stata risolta dai fatti”. In poche parole, la soluzione delle nostre difficoltà di elaborazione politica starebbe tutta nell’immersione all’interno del procedere spontaneo delle contestazioni.
Sottolineiamo da subito che non si tratta affatto di una concezione originale: già Lenin, nel 1902, si espresse a questo riguardo chiaramente: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica”.
Allora l’asprezza della sua critica era rivolta contro la “sottomissione servile alla spontaneità” di quanti si erano convinti che le lotte sindacali del movimento operaio si sarebbero trasformate naturalmente in lotte rivoluzionarie, e che in questo processo il compito dei marxisti sarebbe stato esclusivamente quello di assecondare l’inevitabile inasprimento dei conflitti economici. Il recupero dei termini di tale polemica oggi è funzionale alla riapertura di un ragionamento serio sull’esplosione dell’”elemento spontaneo” nelle strade e nelle piazze di Seattle, di Genova e delle altre capitali della contestazione globale. Esso, nella lettura che diamo di tali lotte straordinarie, si delinea come “la forma embrionale” (per utilizzare ancora le espressioni di Lenin) di una coscienza rivoluzionaria di massa in grado di crescere sulle macerie delle capacità egemoniche del neoliberismo. Le battaglie di strada di cui si sono resi protagonisti decine di migliaia di giovani nel cuore delle metropoli occidentali annunciano il risveglio della conflittualità che oppone il proletariato internazionale alle oligarchie degli sfruttatori: il compito degli attivisti della nostra organizzazione dovrebbe essere quello di chiarire, nel cuore delle mobilitazioni che si sviluppano, il carattere irriducibile dello scontro che oppone il proletariato internazionale non solo a qualche istituzione internazionale particolarmente cinica, ma a tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo.
A differenza della leadership dei Giovani Comunisti, noi non crediamo si debba rinunciare al progetto orientato a far incontrare il programma rivoluzionario del marxismo con le rivendicazioni necessariamente parziali ed incomplete che sorgono dal movimento. Non c’è infatti nulla di strano nel fatto che questo, come qualsiasi altro movimento spontaneo, sia esploso con posizioni confuse, primitive. Ciò che è assolutamente inaccettabile è che queste posizioni diventino la linea ufficiale della nostra organizzazione, la quale, d’altra parte, sottomettendosi alla spontaneità del movimento, non fa altro che ritardarne lo sviluppo.
Non ci si orienta, infatti, al movimento, voltando le spalle al tentativo di trasformarlo nella punta avanzata di un processo di ripresa della lotta di classe a livello globale. Sostenere oggi che non bisogna “cercare uno sbocco politico, immediato, per il movimento”, ma che bisogna al contrario lavorare esclusivamente al rafforzamento del movimento come unico “sbocco possibile”, significa rimuovere dall’orizzonte del nostro impegno il tema dello scopo della nostra lotta. A questo proposito, a Foligno c’è stato chi si è sbracciato per dimostrare ai compagni critici che il riconoscimento del fatto che non vi sia “un problema di sbocco politico del movimento” non significa affatto recuperare il principio che tradizionalmente ha ispirato il riformismo: “il movimento è tutto, il fine è nulla”. In realtà, l’analogia (evidente innanzitutto a chi ha citato Bernstein cercando inutilmente di esorcizzarlo) è un fatto, dato dalla convergenza oggettiva di teorie che, oggi come allora, rimuovono il tema del fine ultimo (negando la questione della presa del potere politico) per esaltare quello degli obiettivi praticabili e delle riforme possibili. In questo senso, a far piazza pulita delle mille capriole verbali dietro le quali in troppi cercano di nascondere l’influenza di ideologie neoriformistiche sul movimento, ci pensa la chiarezza delle parole della Luxemburg: “Lo scopo finale socialista è il solo elemento decisivo che distingue il movimento socialista dalla democrazia e dal radicalismo borghese e che attribuisce al movimento operaio non l’inutile compito di rattoppare il regime capitalista per salvarlo bensì una lotta di classe contro questo regime e per la sua abolizione”.
La riflessione sui compiti del movimento operaio è stata al centro degli interventi che si sono succeduti a Foligno, e se nessuno ha negato l’importanza dell’impegno per il rafforzamento del legame fra contestazioni no global e lotte operaie, sui significati di tale orientamento si è aperto un confronto vivace. La proposta avanzata dalla direzione dei Giovani Comunisti è imperniata sul concetto di policentrismo: le mobilitazioni della cosiddetta “resistenza globalizzata” si caratterizzerebbero per l’individuazione di “nuove contraddizioni aperte”, destinate ad integrare la contraddizione tradizionale fra capitale e lavoro. Le pratiche dell’opposizione a tali manifestazioni nuove di oppressione si caratterizzano per l’eterogeneità dei soggetti coinvolti dalle lotte: essi si sarebbero dimostrati capaci d’incontrarsi in virtù di una “pluridiscorsività” in grado d’integrare le letture differenti dei processi in corso.
L’assunzione esplicita di tale pluridiscorsività da parte nostra rappresenterebbe l’approdo auspicato di quella dinamica contaminativa tanto decantata anche a Foligno e caratterizzata dai “mille fiori” che stanno sbocciando nel variegato fronte no global: fra di essi non manca certo quello del movimento operaio, presente con le bandiere della FIOM a tante delle scadenze convocate dal movimento dei movimenti. Il problema è che il riconoscimento della funzione centrale della classe operaia per il ribaltamento dei rapporti sociali si riduce, in quest’analisi apparentemente innovativa, a rallegrarsi per la decisione di un’organizzazione sindacale di mescolarsi alle “moltitudini insorgenti”. Lontani dal voler ridimensionare il valore della presenza nelle piazze del movimento di una realtà sindacale decisiva, intendiamo soffermarci sull’insufficienza di un ragionamento che non traccia una distinzione adeguata fra il ruolo strategico delle battaglie del movimento operaio e quello (che ci permettiamo di non considerare centrale) delle proteste delle “turtles” ecologiste o delle preghiere delle suore di Boccadasse. Tale ragionamento si fonda, crediamo, sul persistente fascino esercitato dalle teorie partorite negli anni ’60 dalla cosiddetta nuova sinistra: essa, rinunciando a considerare il proletariato come la classe fondamentale per il rovesciamento dei rapporti sociali, esaltava la carica ribelle di quella che allora veniva definita “marginalità di massa”. Il tema della trasformazione veniva coniugato non più nei termini di uno scontro frontale fra le due classi fondamentali della società, nel quale il proletariato avrebbe potuto prevalere nel caso fosse stato in grado di demolire l’intero assetto politico e sociale dominante: esso veniva concepito nei termini nuovi di un assedio di lunga durata alle articolazioni nevralgiche di un potere a tal punto totalizzante da non poter essere più rovesciato, ma semplicemente neutralizzato nelle sue manifestazioni più brutali dalle insorgenze degli esclusi. Non è un caso che, se negli anni ’70 martellante era la sottolineatura della carica eversiva insita nella condizione sociale delle figure cosiddette marginali, oggi la nuova frontiera del cosiddetto “antagonismo sociale” è rappresentata dalla conquista del radicamento presso il precariato diffuso.
L’esperimento del Laboratorio della disobbedienza sociale, nelle intenzioni dei suoi ideatori, corrisponde proprio a questa esigenza: consolidare quell’insieme di pratiche di lotta utili a dare visibilità al disagio dei non garantiti e a caricare le loro vicende di un valore esemplare per tutte le moltitudini insorgenti. Questo progetto, su cui l’Esecutivo dei Giovani Comunisti ha scommesso tutto ciò che aveva da scommettere, si basa su due presupposti fondamentali: che la galassia dei lavoratori precari rappresenti un mondo a parte rispetto a quello operaio tradizionale e che quest’ultimo sia consegnato definitivamente all’egemonia delle sue attuali direzioni sindacali.
L’enfatizzazione del potenziale di rottura dei non garantiti rispetto ai (presunti) garantiti conduce inevitabilmente all’esaltazione di forme di lotta complessivamente incentrate sul concetto di esemplarità, sugli atti eclatanti e dipendenti dalla vera e propria ossessione per la riuscita propagandistica: in questo senso l’affanno costante nel costruire vertenze ad effetto in grado di “praticare gli obiettivi” riduce la lotta politica a quelle “forme più anguste di azione pratica” di cui parlavamo all’inizio, le quali si caratterizzano per un radicalismo estetico inversamente proporzionale al valore rivoluzionario dei contenuti che supportano. Si tratta della rinuncia (poco importa se consapevole o no) all’utilizzo di quella paziente e tenace combinazione di propaganda e agitazione con la quale i marxisti da decenni cercano di organizzare le avanguardie delle classi subalterne attorno ad un programma capace di configurarsi come l’elaborazione scientifica di tutte le esperienze già vissute dal movimento operaio.
Alla costanza della discussione e dell’approfondimento politico si finisce col preferire la pratica dell’happening festaiolo; all’elaborazione e alla diffusione del materiale propagandistico si preferisce la “disobbedienza sonora itinerante”; alla costruzione, interna alle organizzazioni sindacali, di un’opposizione giovanile alle loro leadership concertative si preferisce l’imbrattamento dei muri delle agenzie interinali; all’estensione di una seria campagna antimilitarista presso i tanti giovani di leva si preferisce il lancio di aeroplanini di carta sui fili spinati delle basi militari, e potremmo continuare con numerosi altri esempi. Se l’obiettivo di questo imperversare di goliardia antagonista è lo scimmiottamento dell’area più spoliticizzata dei centri sociali, ci siamo avvicinati molto allo scopo, ma questo non depone a favore della serietà del nostro impegno rivoluzionario, così come non depone a favore dell’”anticapitalismo oggettivo” della nostra strategia la totale subalternità alla linea sindacale di Sabbatini: egli, assieme ad altri dirigenti sindacali piuttosto compromessi con la concertazione, è riuscito infatti negli ultimi mesi, con la sua disinvolta fraseologia di sinistra, a catturare il consenso acritico di tutti i disobbedienti.
Massimalismo di facciata e moderatismo di sostanza, appunto: si tratta di una trappola insidiosa, nella quale i Giovani Comunisti non devono cadere definitivamente, a maggior ragione in una fase in cui sempre più numerosi sono i segnali di disgelo che preannunciano imminenti esplosioni sociali ai quattro angoli del pianeta. Basterebbero i tumulti in Argentina, che scandiscono l’avvio di un processo rivoluzionario che sconvolgerà l’intera America Latina, a farci comprendere che nel periodo di rivoluzioni e controrivoluzioni che si sta aprendo non c’è affatto bisogno di disertori impegnati a disobbedire romanticamente ai margini del movimento operaio internazionale; c’è al contrario un’esigenza fortissima che tanti giovani attivisti si orientino alle idee del marxismo, per contribuire con tutto il loro entusiasmo al rafforzamento, all’interno del movimento no global, di un’autonoma strategia rivoluzionaria: essa dovrà dimostrarsi capace di trasformarlo da un semplice movimento d’opinione nell’efficace volano di un nuovo ciclo internazionale di lotte di classe, il quale non potrà non sparigliare una volta per tutte gli assetti del Nuovo Disordine Mondiale.