Con la chiusura del V Congresso nazionale del PRC si è aperto ufficialmente il percorso che ci condurrà alla seconda conferenza dei Giovani Comunisti. L’avvio di quest’importante fase impone la necessità di un bilancio seppur sommario dell’esperienza fin qui fatta, a partire almeno dalla scelta, compiuta nelle conferenze tra il 97 e il 98, di strutturare l’organizzazione sulla base del binomio ”autonomia-internità”, una scelta che aveva il dichiarato intento di evitare la creazione di un’organizzazione giovanile separata dal resto del partito, garantendo però al contempo l’individuazione di campi d’attività –specifici e autonomi- dei Giovani Comunisti. Una scelta felice, in virtù della quale i Giovani Comunisti hanno saputo sviluppare ambiti di iniziativa propria, avvicinando compagni che probabilmente il partito, con la sua ordinaria attività, non sarebbe riuscito ad intercettare, creando nel partito stesso sensibilità nuove verso tematiche fino ad allora trascurate, assumendo un ruolo oggettivamente protagonistico grazie al quale, attualmente, i Giovani Comunisti nei diversi territori sono riconosciuti come un segmento importante, spesso fondamentale, nella variegata composizione dei movimenti ed in particolare di quelli studenteschi. Tuttavia il risultato più significativo di quella scelta è a mio avviso da ravvisare nel fatto che i GC non sono ghettizzati in “riserve generazionali”, ma partecipano, votano, assumono ruoli dirigenti, spesso di primissimo piano, all’interno dell’organizzazione complessiva del partito. Grazie alla scelta che allora compimmo, nel partito si è resa permanente l’interazione delle esperienze di lotta tra nuove e vecchie generazioni presenti nel partito. Così da un lato le prime, lavorando a stretto contatto con i compagni più adulti, oltre a ricevere il ricco e glorioso patrimonio delle lotte passate si sono formate in vertenze generali e non solo in quelle, pur sempre importanti ma comunque settoriali, del mondo giovanile, e dall’altro le seconde hanno potuto mantenere una linea di comunicazione aperta con le nuove realtà del conflitto.
Un bilancio serio, che eviti le vanagloriose autocelebrazioni a cui spesso assistiamo anche all’interno della nostra organizzazione, deve però necessariamente porre in luce anche le disfunzioni e i limiti che si sono palesati in questi anni per porvi rimedio. Il tal senso il primo limite del quale tener conto è di natura politico-organizzativa, e riguarda l’inadeguatezza di una struttura organizzata per soli due livelli (federale e nazionale), che non contempla l’articolazione regionale dei GC. La costituzione di un forte e autorevole livello regionale è infatti oramai fondamentale se si vuole adeguare la nostra organizzazione al determinarsi di nuovi fronti di lotta, dato che, a seguito della rimodulazione dei poteri tramite la Bassanini e la sciagurata riforma del titolo V della Costituzione, alcune delle decisioni più importanti nell’ambito della scuola, della formazione professionale, della sanità vengono prese proprio a livello regionale. Sempre sul piano organizzativo, che come è ovvio presuppone scelte politiche, un limite macroscopico è rintracciabile nell’assoluto disinteresse nei confronti della formazione dei militanti, che contribuisce a mantenere una distanza non più ammissibile tra gruppi dirigenti e base.
Per evitare che il partito finisca per esaurirsi nelle sue rappresentanze istituzionali e nei suoi gruppi dirigenti è prioritario attivizzare il corpo militante del partito, non solo attraverso l’attività di propaganda e attraverso le esperienze dirette che si possono sviluppare sul terreno concreto del lavoro politico, ma anche tramite la formazione di base. In un contesto dominato dalla pervasività dei modelli culturali della civiltà borghese, dove la storia, la cultura, e la scienza vengono manipolate in funzione degli interessi presenti delle classi dominanti, la costruzione di una nuova soggettività rivoluzionaria passa inevitabilmente attraverso un’opera di contro-formazione per sottrarci dai modelli culturali, di relazione sociale e dell’agire politico imposti dal modo di produzione capitalistico.
Nell’ambito della rifondazione comunista, il rilancio di una pratica marxista deve coincidere con una grande riforma morale ed intellettuale, in risposta alle tendenze decadenti e decompositive della direzione politica così come questa si configura nella società contemporanea, ponendosi invece come una modalità nuova di partecipazione e sviluppo della politica, intesa come strumento di liberazione di nuove energie umane, individuali e collettive. Le modalità deteriori di distinzione tra società civile e società politica, tra borghese e cittadino, tipiche e determinanti della società borghese, vanno rovesciate e non riprodotte nel nostro partito, che ha invece il compito storico di sovvertire i rapporti dualistici tra dirigenti e diretti. Mantenere strutturalmente questa rigida separazione significa riprodurre nel nostro partito le modalità di relazione sociale e politica della società borghese, e relegare comunque ad un ruolo passivo e subalterno il corpo militante di questo.
Risulta chiaro quanto sia importante e vitale, per i GC, attribuire un ruolo non secondario ad una formazione intesa come pratica dell’autoeducazione, che renda ogni militante un dirigente nel suo luogo di lavoro, studio, residenza e quindi nel partito.
Oltre a questo va rilevato che la natura assembleare dell’organizzazione giovanile ha spesso viziato il corretto funzionamento democratico della stessa, determinando in ultima analisi una certa autoreferenzialità dei suoi gruppi dirigenti, e soprattutto una gestione troppo ristretta e poco partecipata delle decisioni assunte e della linea perseguita. Forse anche in questo sta l’origine dell’insicurezza della nostra linea politica, che, sempre al traino del caso contingente, si rivela a volte schizofrenica. Così, se gli obiettivi sono puntati su Marcos diventiamo zapatisti, se lo sono sulle tute bianche siamo tutti tute bianche, se lo sono sulla disobbedienza diventiamo tutti disobbedienti, tanto che – visti i precedenti- quasi stupisce che nei mesi scorsi non ci siamo trovati nelle piazze con pentole e casseruole.
A mio parere, questa vocazione modaiola della nostra linea politica è inoltre determinata dall’insana convinzione che dietro i propositi di esercitare un’egemonia (nel senso più gramsciano del termine) all’interno del movimento e delle società, si celi una recondita volontà di imposizione autoritaria e burocratica di rigido controllo sulla spontanea creatività di questi, e così l’asse strategico della linea politica dei Giovani Comunisti si riassume in un termine – non a caso assai di moda – che sul piano politico si rivela sprovvisto di senso compiuto: “contaminarsi”.
In realtà il concetto d’egemonia non è per nulla impositivo e meno che mai autoritario, ed anzi ha il suo movente proprio nella necessità di disfarsi di un’idea bonapartistica del rapporto con la società che si ravvisava tanto nella linea del vecchio PSI, quanto nell’idea di partito di cui si faceva portatore Amedeo Bordiga. Il suo significato non solo si esprime nel consenso, che per natura è volontario e cosciente, ma presuppone la partecipazione e il protagonismo delle masse e il rigetto dell’attribuzione di deleghe passive agli “specialisti” del movimento e dello scontro sociale. In realtà, se si rifiuta di esercitare un ruolo egemonico all’interno del movimento e della società si elimina la possibilità di conquistare un consenso, ma a quel punto bisognerebbe interrogarsi sul senso dell’esistere come partito, dato che per natura un partito può esistere solo se esercita un consenso diffuso e di massa, se la sua idea sul mondo e sulla società diventano condivise e sostenute. Sull’argomento forse, – anche tra i Giovani Comunisti – oltre a leggere Toni Negri e Marco Revelli sarebbe il caso che si rispolverassero alcuni testi di Antonio Gramsci ed anche di Rosa Luxemburg.
Forse, è proprio questa poca propensione a conquistare un consenso verso l’esterno che poi provoca difetti di consenso interno, la causa di un turn over che tra i Giovani Comunisti è ancora più alto che nel resto del partito.
È fondamentale stare nei movimenti e – laddove non esistano- lavorare per suscitarli, ma è altrettanto fondamentale esserci sulla base della nostra idea di società, sulla base di quel che siamo, senza ovviamente avere la pretesa di imporla a nessuno, ma impegnandosi affinché questa venga compresa e condivisa il più possibile. In tutti i versanti di lotta che si determinano, il compito dei Giovani Comunisti è di riconnettere il contenuto delle singole vertenze al piano politico generale, mostrandone i legami organici ed evitando in ogni situazione di scadere ad un livello di rivendicazione corporativa. Solo in questo modo, cioè rendendo evidente la comune origine politica liberista delle singole situazioni di sfruttamento e di negazione dei diritti, si può lavorare per il coordinamento di tutte le realtà di lotta e attribuire ad esse un valore politico.
Questo perché solo a partire da un livello politico delle lotte è possibile giungere alla formazione di nuove soggettività rivoluzionarie dotate di una progettualità politica tendente al superamento dello stato di cose presenti, tramite uno sviluppo cosciente del conflitto sociale che non si limiti a forme di lotta fini a se stesse, che si risolvano in modalità endemiche di ribellismo senza prospettive.
In questi anni sia il partito che i GC nei diversi territori si sono spesi con convinzione e coerenza per favorire la rinascita del conflitto anche nei momenti di più assoluta assenza di questo, e proprio in virtù delle diverse esperienze sviluppate non è corretto che una parte del partito avochi a se la titolarità del lavoro nel movimento o eventuali meriti conseguiti. Se il partito ha un ruolo nel movimento è perché tutto il corpo del partito, dal 1991 ad oggi, ha lavorato in quella direzione, ritenendo la prospettiva della rifondazione comunista la strada giusta per la ricostruzione di un soggetto che non solo sia alternativo e antagonista ma anche centrale e protagonista.